Congedo dalla luna
di Tiziano Scarpa
Dolcissimo tramonto sul mare, non è vero che la bellezza non tocca più le corde del cuore!
Spettabili ascoltatori pezzi di merda, non è vero che le offese lasciano indifferenti!
Inesistente dio porco, non è vero che la bestemmia è inerte!
Grazioso angioletto che vomiti patatine fritte e sperma semidigerito, non è vero che il disgusto non infastidisce più nessuno!
Krk zzffffffffff lmoq, prefolem nabodisto qwertyuiop!
Meravigliosa lingua italiana, non è vero che hai la pelle avvizzita!
Sono innamorato di te, lingua italiana, tu e io abbiamo fatto l’amore migliaia di volte, abbiamo avuto dei bellissimi figli, alla faccia degli impotenti e delle baldracche sterili.
Che cosa mi importa della letteratura italiana? Nulla!
Che cosa mi importa della parola? Della scrittura? Della poesia? Tutto!
La letteratura combatte una lotta contro sé stessa. Non ha riposo. Non ha pace.
Quando i letterati elogiano gli esametri latini, la poesia fugge dalla letteratura e si sfoga nella lingua del popolino di Firenze, e i letterati dicono: non è letteratura, questa.
Quando i letterati magnificano il poema in ottava rima, la scrittura scappa dalla letteratura e dilaga in mille pagine di prosa che raccontano le futili disavventure di un cavaliere scalcagnato, e i letterati dicono: non è letteratura, questa.
Quando i letterati encomiano il romanzo, la parola…
Dove stai sgattaiolando, scrittura? Dove te la sei filata, poesia?
Stiamo parlando di te, ti stiamo invocando, o parola, e tu dov’è che hai tagliato la corda?
Io non sono uno specialista della letteratura. Io sto nella scrittura. Io sto nella poesia. Io sto nella vertigine della parola. Nel vulcano della lingua italiana, che è la mia lingua. Io le appartengo.
Nella mia epoca, da vent’anni a questa parte, è stato riabilitato il romanzo. Il romanzo è questo: è un canto dell’esistenzialismo umanista. È il genere umano che si dà pacche sulle spalle, si consola, e dice: io esisto. Noi, esseri umani, esistiamo. Tutto quello che succede, succede attraverso esseri umani, che sono chiamati personaggi. Tutto viene percepito umanisticamente.
I personaggi si svegliano, del mondo si meravigliano,
lavorano in miniera, fluttuano in mongolfiera,
tirano cocaina, secernono melanina,
si fanno telefonate, sparano cazzate,
pensano alla morte, cagano.
Il romanzo, così come lo si scrive e lo si legge oggi nella stragrande maggioranza delle sue innumerevoli ma tipologicamente sempre più limitate e nella fattispecie americanomorfe manifestazioni, nonostante Calvino, nonostante Foucault, nonostante i Kraftwerk, nonostante Gino de Domicicis, nonostante Will Coyote e Beep Beep, nonostante il Novecento, il romanzo presuppone che gli esseri umani esistano.
Io non lo so se esisto. Non lo so se esistete nemmeno voi. Non so mica se vi rappresenterò. Non credo che mi darò il compito di rappresentare l’Italia contemporanea. Prima, anzi, durante, devo risolvere alcuni problemini, un po’ umanistici e un po’ no: sono nato davvero? Che cos’è questa vita vista da dentro la sensazione animale di essere vivi? Come mai tendo a sorvolare sul fatto che internamente sono inzuppato di sangue dalla testa ai piedi? Com’è che quando ti vedo, Alice, il mio muscolo cardiaco accelera le pulsazioni e alcuni decilitri di erreacca tendono a rintanarsi in una propaggine tubiforme solitamente adibita all’espulsione dei liquidi in eccedenza? Che cosa si prova a ideare e mettere in atto l’assassinio del proprio figlio, di un coniglio, del presidente del consiglio? Perché so perfettamente che cos’è un fulmine ma non posso diventare un fulmine e pur sapendo perfettamente di non poter essere fulmine scrivo questa frase sul mio desiderio di fulminare?
Scrittura, ah scrittura… Io parlo, parlo, ma com’è diverso, tutto quanto! Com’è tutta un’altra cosa, quando sono qui, con i polpastrelli sopra la tastiera, e dalla punta delle dita aperte come rubinetti escono le parole, lettera dopo lettera, non come grumi logopsichici o flussi di significato, non come le sento dentro il pensiero, ma come una gragnuola di ditate, una grandinata di chicchi che colpiscono le singole lettere dell’alfabeto, una per una.
Com’è diverso, adesso, mentre scrivo, e le frasi prendono forma, e non lo so ancora che cosa verrà fuori, e non lo so ancora che storia mi inventerò, che cosa ci inventeremo, io e la lingua italiana… Oppure lo so, eppure arriva questa frase a cambiare tutto, e nel bel mezzo della cerimonia di premiazione, l’alano saltò addosso a Miss Italia e le azzannò la guancia, e il presidente della giuria si precipitò a scacciare la bestia e toglierle il diadema, cercava con lo sguardo la seconda classificata per metterle il diadema insanguinato sulla testa…
La conosce, chi non scrive, questa ebbrezza dell’invenzione che avviene soltanto durante la scrittura, dentro lo scrivere? Questo scatenarsi della Fantasia Non Premeditata all’interno della Meditazione Verbalizzante In Atto che chiamiamo scrittura? Chi non scrive crede che scrivere sia trascrivere. Chi non scrive crede che ci sia da una parte la fantasia, e dall’altra parte il resoconto della fantasia. Il secchio pieno della fantasia da travasare nella pagina, frase per frase. Invece io e te lo sappiamo, scrittura, che allineare parole lungo le righe è fare scoccare scintille piezoelettriche nel cervello, spalancare di continuo il possibile, far scaturire cose inaspettate. La scrittura è un evento, non è un prodotto. Come faccio ad aspettarmi qualcosa di particolare, da lei? Mi aspetto TUTTO! La mia prossima frase potrebbe annientarmi! La mia prossima frase potrebbe schiantarmi! La mia prossima frase potrebbe accarezzarmi! La mia prossima frase potrebbe masturbarmi! La mia prossima frase potrebbe salvarmi! La mia prossima frase potrebbe ignorarmi!
Quando scrivo io vivo un evento, la scrittura succede, questa è l’ebbrezza. Com’è possibile, semplicemente, “aspettarsi”, com’è possibile avere delle aspettative?
Perché devo mentirvi, care le mie salsiccette, e dirvi che mi aspetto delle cose? Io mi aspetto tutto! Che cosa può fare la letteratura italiana? Tutto! Che cosa può fare, in particolare, la letteratura italiana, che non possono fare le altre letterature? Può godersi la lingua italiana! Per esempio, può godersi questa incredibile sessualizzazione del mondo, per cui l’inaudita parola “motocicletta” ha la fica, e l’inaudita parola “cerotto” ha il cazzo.
Come tutti sanno, nella lingua tedesca il sole ha la fica e la luna ha il cazzo. Questi sono godimenti che ciascuna lingua riserva a chi è in grado di apprezzarli, cioè ai suoi fedeli parlanti, a chi conosce quella lingua.
Adesso che ci siamo accorti che non contiamo niente, noi italiani, vale forse la pena di scrivere senza stare troppo attenti a queste particolarità intrinseche della lingua italiana, tipo a quali entità la nostra lingua affibbia una sessualità femminile, e a quali invece ne affibbia una maschile. Questo è un problema tipico del romanzo, che vuol farsi tradurre dappertutto. Per penetrare pervasivamente nelle altre lingue, per farsi tradurre, conviene scrivere come se si scrivesse una lingua che E’ e contemporaneamente NON E’ la lingua italiana. Questo non è un consiglio che do ai romanzieri che vogliono avere successo: è una constatazione.
Se dovessi indicare la particolarità principale della scrittura nella nostra epoca, soprattutto della scrittura romanzesca, direi: l’appartenere e, allo stesso tempo, il non appartenere alla propria lingua. E non è neanche una situazione troppo spregevole: pensate, scrivere una parola illudendosi di poter astrarre dalla sua datità fonosimbolica, scrivere direttamente il suo significato! Scrivere “luna” come se contemporaneamente fosse e non fosse una parola femminile… Come se allo stesso tempo fosse e non fosse una parente di lunedì, lunghezza, l’universo, l’unisono…
Appartenenza alla propria lingua, ma anche non appartenenza. Ne consegue che la scrittura della nostra epoca appartiene alle singole letterature nazionali, ma anche no… Alle tradizioni nazionali, ma anche no… Non sentite una corrente di aria fresca, e un brivido d’incertezza, e un’avventura che si schiude, e anche una immedicabile nostalgia, in tutto questo?
Lo strapotere letterario del romanzo e il suo trionfo editoriale ci istigano a scrivere in italiano come se non fosse soltanto italiano, questo è un dato di fatto per un romanziere di oggi che non voglia che i suoi libri rimangano soltanto dentro la sua lingua. Vi ripugna, questa constatazione? Vi scandalizza? Vedete, allora, che lo scandalo non è morto! O voi omarelli che storcete il naso e individuate ripetizioni e gesti epigonali in qualsiasi fremito di vita, vedete che alla fine persino voi siete capaci di far sobbalzare i vostri comatosi coglioni!
Io non voglio letteratura. Voglio scrittura. La scrittura può traslocare in qualsiasi genere di discorso, attaccare dai quadranti più inattesi… La scrittura è l’irruzione dell’assoluto. Non voglio essere un romanziere. Non voglio essere un poeta. Non voglio essere un saggista. Non voglio essere un letterato. Voglio la parola che irrompe. Voglio la parola. La parola.
Letto al convegno “Che cosa ci aspettiamo dalla letteratura”, organizzato da Radio Popolare, Milano, giugno 2002.