Potere alla parlantina
di Tiziano Scarpa
C’è una pubblicità sui giornali che dice: “Potere alla parola”. La merce pubblicizzata è un vocabolario della lingua italiana.
La persona che fa da testimonial, ossia da garante della qualità di questa merce nella foto, non è uno studioso di linguistica. Non è uno scrittore. Non è un politico. Non è un giornalista.
È un deejay.
Il volto che è stato scelto dai pubblicitari per rappresentare la parola al potere, è quello di Linus, il celebre disc jockey ormai più che quarantenne di Radio Deejay.
Non sono scandalizzato.
Al contrario, penso che questa scelta sia perfetta. Chi altri avrebbero potuto mettere, al posto di Linus, in quella pubblicità? Non certamente un romanziere. Non certamente un poeta.
(Lo so. Lo scopo dei pubblicitari era comunicare questo: “Ragazzi, lo vedete che studiare non è una faccenda di scuola? Cosa credete? Non serve mica a prendere bei voti! Chi sa parlare bene la lingua italiana diventa famoso!”)
Allora, chi avrebbero potuto mettere? Chi ha preso il potere grazie alla parola, in Italia, oggi?
L’intellettuale di governo. Il critico d’arte Vittorio Sgarbi.
Il giornalista funzionario di partito. Giuliano Ferrara.
Il presentatore televisivo. Maurizio Costanzo. Paolo Bonolis.
Il comico televisivo (innumerevoli esempi).
Il telecronista sportivo. Il radiocronista di partite di calcio.
O, per l’appunto, il deejay. Oppure il veejay, come si usa dire da qualche anno (nient’altro che un presentatore televisivo di videoclip musicali).
La retorica è tornata in forze. Non si vergogna più di se stessa. Non dissimula la propria presenza, non fa più finta di non esserci. La retorica, intesa non come artificio ampolloso, ma come antica arte dell’argomentazione, come tecnica discorsiva, è tornata al potere senza pudore. Il potere, nella nostra epoca, si acquisisce per virtù retorica: grazie alla facondia, o, ancor meglio, alla parlantina.
La parlantina è fatta di abilità retorica potenziata da una particolare reattività: la parlantina ce l’ha non tanto chi sa parlare bene, ma chi oltre a parlare bene ha sempre la battuta pronta, chi non si lascia mai zittire, nemmeno per un attimo, né dalla situazione né dall’interlocutore. La parlantina ce l’ha chi non resta mai a corto di argomenti, chi non esita mai, chi sa tener testa a una discussione, con quella specializzazione militante della dialettica che la filosofia chiama eristica. (Per questo, tra l’altro, il luogo di tutto ciò è la televisione: ma non perché la televisione è più aggiornata teconolgicamente, e più diffusa, e vista da tutti, ed è quindi più potente, bensì perché queste abilità si possono dimostrare solo dal vivo, dentro l’istante della situazione: uscire vincitori da una disputa pensandoci su e scrivendo non vale). La parlantina è horror vacui verbale, è horror silentii. La parlantina è presenza di spirito.
Alcune zone di intensità della parola, come ad esempio la letteratura, si sono affievolite, o meglio hanno teorizzato e proclamato e praticato l’affievolimento della propria parola, autoconfinandosi in un recinto sociale di puro estetismo. Contemporaneamente, la piena potenza della parola è stata messa in atto da tutta una serie di professionisti della comunicazione.
La parola, in bocca a costoro, sta benissimo. Scoppia di salute. Fa presa sulla realtà. Affascina. Convince. Plasma comportamenti. Sposta voti. Persuade a comprare. Legittima cambiamenti nei costumi e nella mentalità. Fa e disfa reputazioni e carriere. È preziosa (tra l’altro, fa guadagnare molto colui che la pronuncia).
Nel mio vocabolario di italiano ho voluto cercare l’etimologia di disc jockey, che non conoscevo. Il jockey of the disc, quello che mette su i dischi in discoteca per far ballare la gente, ma anche colui che sceglie la scaletta da mandare in onda alla radio e introduce i pezzi musicali con discorsetti brillanti, deriva da un diminutivo di Jack, un nomignolo che gli scozzesi usavano per chiamare i fantini. Il disc jockey è il fantino dei dischi.
Il potere non è del cavallo ma del cavaliere. Il potere non è dell’energia in moto, ma di chi la sa dirigere e spronare.
È il retore, il facondo, il possessore di parlantina, ossia quello che sembrerebbe un semplice elemento di raccordo fra la sostanza delle cose: è costui che ha potere nella nostra epoca. Non gli artisti (figuriamoci) né le opere d’arte, non i puri politici in quanto esperti, non i dischi, non gli atleti, non i tecnici, ma i vari presentatori, introduttori, commentatori, descrittori, cronisti che li dirigono e spronano.
Un esempio. Il presentatore televisivo è tanto più bravo quanto più non sa fare nulla, se non esprimersi con facondia. Il bravo presentatore deve limitarsi a mettere in atto la sua parlantina. Interessante il caso di Fabio Fazio, che esordì alla radio come ottimo imitatore e, diventato presentatore televisivo, tendeva a nascondere questo suo talento. Ingenuamente si potrebbe credere che un presentatore che dimostri di sapere anche cantare, raccontare una barzelletta, ballare, imitare, sia migliore di chi possiede soltanto la parlantina. E invece no: fare anche l’artista sarebbe un errore, è una diminuzione di potere passare dal ruolo di fantino a quello di cavallo, da coordinatore verbale dell’Evento a Evento stesso.
Il commento che attornia l’Evento è più importante dell’Evento. Chi ha potere, nella nostra epoca, si guarda bene dall’impersonare l’Evento. Lo cavalca. Lo introduce, Lo commenta. Lo esalta. Lo vitupera. Ma non è mai Evento.
La trasmissione più longeva della nostra televisione, il Maurizio Costanzo Show, da questo punto di vista è persino onesta: fin dal titolo dichiara che lo show mette in scena nessun altro che il suo presentatore, Maurizio Costanzo. Da moderatore, coordinatore, intervistatore, figura di servizio, in realtà il presentatore televisivo è diventato protagonista. È diventato Evento. Per questo, tra l’altro, è assolutamente necessario che intellettuali e artisti disertino questo genere di spettacoli: perché con la loro presenza di ospiti non stanno facendo altro che legittimare il presentatore. La figura di sfondo del presentatore è in realtà protagonista, e gli ospiti sono lo sfondo necessario a far stagliare il potere demiurgico del presentatore.
Gli artisti, i tecnici, gli scienziati sono esseri alieni: agiscono in territori che richiedono competenza, disciplina, addestramento, e forse anche ingredienti imponderabili, mistici: l’ispirazione, il genio. La loro è un’altra partita. Un altro statuto ontologico. Chi ha la parlantina invece è davvero il migliore fra noi (e non della genìa extraumana di Artisti & C.), il migliore di noi, è veramente aristocratico, merita il potere perché si batte nel linguaggio, nella parola vivente, nell’oralità attiva che tutti abbiamo a disposizione, che tutti crediamo di possedere, e invece nessuno di noi sa usare con altrettanto virtuosismo.
Un altro esempio. L’eroe di Tangentopoli, l’ex pubblico ministero Antonio Di Pietro, la parlantina italiana più famosa dei primi anni Novanta, non è riuscito a prendere il potere della parola veramente a pieno quando è passato alla carriera politica. La sua è una figura presente nella politica attuale, ma in misura molto deludente rispetto alle sue enormi potenzialità, rispetto al “Di Pietro for President” di dieci anni fa. Non gli è bastato aver dimostrato impeto e astuzia, competenza giudiziaria, e nemmeno una ruspante passione civile: qualcosa è andato storto, nella traslazione della sua parlantina dai tribunali ai media. Non è stato bravo fantino di se stesso.
Un altro esempio ancora. Il politico più potente dell’ultima fase della Prima Repubblica, Bettino Craxi, praticava il contrario della parlantina. Le sue celebri, lunghissime pause fra una parola e l’altra apparivano come un’esibizione di potere concreto: “in quanto io ho potere reale…(pausa)… e non in quanto me lo sto conquistando adesso con ciò che vi dico, …(pausa)… io mi permetto di essere retoricamente inoperoso , …(pausa)… lentissimo, …(pausa)… e con questo andamento, …(pausa)… io ottengo un effetto retorico persino più efficace, …(pausa)… un effetto retorico oltre la retorica stessa, …(pausa)… perché voi siete costretti, …(pausa lunghissima)… non dalle mie parole brillanti, …(pausa)… non dalla mia presenza di spirito, …(pausa)… bensì dalla vostra soggezione concreta, …(pausa)… cioè proprio dal vostro ruolo di sottoposti al mio potere, …(pausa)… siete costretti a pendere dalle mie labbra”. Craxi segnava un passaggio terminale: dai potenti ermetici, gergali, incomprensibili (le “convergenze parallele” di Aldo Moro, i “nella misura in cui” di tante Tribune Politiche della televisione in bianco e nero) al potente afasico. Dal potere sibillino al potere sillabato. Dopo di lui, il diluvio della parlantina.
Potere alla parola era anche una canzone di un rapper italiano, Frankie Hi-Nrg.
Quest’anno il più famoso rapper del mondo, lo statunitense Eminem, ha esordito nel cinema. Nel film 8 Mile, compare per la prima volta come attore, da protagonista. Pochi hanno notato che questo film racconta la storia di un poeta. Di un poeta dei nostri giorni, che fa sfide di improvvisazioni in rima su un palco, sopra una base musicale, nei locali notturni, duelli verbali pieni di parolacce e insulti ritualizzati.
Questi tafferugli letterari accadono anche spontaneamente, in coda per il pasto, all’aperto, durante la pausa pranzo in fabbrica. A un collega di Eminem qualcuno dà del finocchio: si tratta di difenderlo e rispondere per le rime a questa scorrettezza politica, con una scorrettezza ancora più grande, una carrettata di parolacce stilizzate da cadenze metriche e assonanze, mentre l’uditorio degli altri operai batte le mani a ritmo. Sembra di assistere a quei battibecchi che si facevano da bambini, dove la strategia eristica che si metteva in atto per zittire l’avversario era basata su queste formule magiche ricorrenti (immaginatele, o ricordatele, pronunciate da voci infantili): “chi lo dice lo sa di essere!” e “specchietto!”. Queste tenzoni a suon di versi sono presentate nel film come il naturale sbocco della conflittualità sociale, anche ai livelli più embrionali, negli attriti fra persone.
Eminem, in 8 Mile, è un giovane operaio, un proletario, “spazzatura bianca” come dicono negli Usa e come si definisce lui stesso: white trash. Vive in un postaccio, ha una madre ubriaca, lavora per quattro soldi in fabbrica, eccetera: l’ambientazione del film è quanto di più risaputo. Il suo riscatto, la sua promozione sociale la ottiene con la poesia. Escogita rime in autobus, con le cuffiette che gli pompano ritmo nelle orecchie, scribacchia su fogli sparsi, si chiude in cameretta di notte a trobar versi. Partecipa ai duelli di improvvisazione rap.
Nei duelli ogni concorrente ha quarantacinque secondi di tempo per recitare la sua improvvisazione in rima. Non può esitare, perché il tempo passa: e il tempo non è puro scorrimento, ma ritmo, frequenza, cadenza, base musicale: è uno stampo di pulsazioni sulle quali adagiare le sillabe, è battito fatto per essere ribattuto dalla parlantina, dalla presenza di spirito del poeta. Il modo di poetare dei rapper è molto inventivo, sta a metà fra filastrocca e scioglilingua, ma soprattutto riesce a galvanizzare la polpa ritmica sulla quale si innesta: le sillabe variano e svariano dentro il battito della base musicale, ne frazionano la frequenza sminuzzandola in particelle sillabiche: dove ci sarebbe posto (e tempo) per una sola parola, il rapper riesce a pronunciarne tre, movimentando, spezzettando la cellula quadrata standard della “cassa in quattro” con squilibrati ma mobilissimi polisillabi infraritmici. Il rapper fa una specie di assolo percussionista, anziché melodico, con le parole. Gareggia concretamente con la batteria, e non idealmente con i cantanti. Anche questo dovrebbe indicarci dove si vuole installare la parola, cioè il potere, oggi: non nella sostanza polposa melodica, ma nella percussione strutturante, là dove si riplasma il tempo (il tempo nella sua accezione musicale: adagio, andante, allegretto), che è la condizione stessa della melodia. La parola può essere percussiva più e meglio di una batteria, perché dalla sua non ha soltanto il suono, che è opaco, cieco, ma anche il senso, che è apertura di visione. La poesia non è più canto! Ha abbandonato la melodia, perché la melodia è diventata pura inerzia estetizzata.
Nei brani musicali rap, è come se il fantino del disco, il deejay, avesse varcato la soglia e fosse entrato nella canzone introducendo il brano dentro il brano stesso: e infatti le sue lunghe performance di parlantina ritmata introducono un ritornello, che spesso è una citazione da una canzone famosa. Il ritornello non viene nemmeno cantato da un rapper ma campionato tecnicamente, o eseguito da qualche corista preso a prestito, che pure sa modulare la voce e le note infinitamente meglio del rapper: sa cantare eppure figura come semplice comprimario anonimo.
I poeti partecipano alle eliminatorie, il pubblico fischia, applaude. Eminem passa il turno per acclamazione, umilia gli avversari coprendoli di insulti spiritosi, riduce al silenzio il campione in carica, lo sorprende giocando d’anticipo, si autoinsulta in rima e così gli toglie il terreno sotto i piedi, lo lascia letteralmente senza parole. Eminem vince.
Vince personalmente e socialmente con la poesia, anche se la nostra epoca si guarda bene dal chiamarla così: la chiama rap, perché nella poesia, a causa della sua stessa autoemarginazione estetizzata, non è possibile che la parola abbia potere.
I rapper (o poeti) avversari di Eminem sono tutti neri afroamericani. Negli anni Settanta, lo stesso personaggio bianco, nella stessa ambientazione proletaria, si chiamava Rocky, e la sua promozione sociale la cercava partecipando a conflitti ritualizzati, ossia facendo a pugni sul ring contro Apollo Creed, un nero afroamericano. Rocky non vinceva, ma si riscattava riuscendo a restare in piedi fino all’ultimo round.
Ora, se Silvester Stallone girasse un nuovo episodio di Rocky, ambientandolo nei nostri giorni, dovrebbe spostare il cuore del conflitto fuori dal quadrato dove ci si scambia cazzotti. I veri combattenti non sono più i pugili. Il match si svolge piuttosto nei pressi dei cosiddetti “secondi” (l’allenatore, il massaggiatore, il medico) già usciti dal recinto di corde della boxe: laggiù a bordo campo, ai piedi del ring, due giornalisti con le cuffie e il microfono si stanno sfidando a colpi di telecronaca.