Viaggio a Mosca

di Antonio Moresco

Se provo a lanciare lo sguardo – e anche il cuore – lontano da dove sono ora, più avanti, molto più avanti, e provo a immaginare di avere già finito di scrivere Canti del caos, tutte e tre le sue parti, e anche alcuni altri piccoli esordi che mi sono messo a fantasticare in questi anni, e di avere magari ancora qualche anno di vita, l’unica cosa che potrei desiderare a quel punto è di sottrarmi finalmente a tutto questo orrore, a questa sensazione che ho a volte di essere come qualcosa che brucia sulla parete inclinata di un ghiacciaio.

Mi piacerebbe trovare da qualche parte un piccolo buco invisibile e andarci a crepare. E, se ancora non riuscirò a trattenere dentro di me la necessità di scrivere, allora vorrei davvero chiudere il cerchio, ricongiungermi alla zona buia e invisibile e separata dell’ inizio, alla sua forza cieca, inevasa. Potrei intitolare quest’ultima cosa Le prove, perché a quel punto vorrei dimenticarmi di tutto quello che avrò fatto fino ad allora, persino di essere stato un tempo uno scrittore. Non avere più niente alle spalle, essere come uno cui non resti che ricominciare a distinguere le prime cose nel magma della luce, del tempo. Non potranno essere altro che delle prove, a quel punto. Di che cosa non so, non ci sarà neanche più il tempo di saperlo, non mi interesserà saperlo.

Un paio di mesi fa Giorgio Pozzi mi ha offerto uno spazio fisso sulla sua rivista. E’ la prima volta che qualcuno me lo propone. A 55 anni e dopo una decina di libri pubblicati, nessun altro giornale o rivista in Italia, di nessun genere e tipo, mi aveva mai proposto questo. E’ una cosa nuova per me. Non so neppure se ne sarò capace. Fernandel è una rivista piccola, dal nome strano, neppure distribuita in edicola. Ma pulita, mi pare. Non dà rinomanza, non dà quattrini. Ma ho la mia libertà. E’ lo spazio che fa per me.
Così gli ho detto di sì. E, siccome mi è stato chiesto un titolo per questa rubrica, lì per lì mi è venuto in mente solo Le prove. Non perché si tratti già di quella cosa di cui fantasticavo prima. Questa è solo un piccola cosa da nulla che viene prima persino delle prove, non sono neanche prove di prove. Però è qualcosa che mi fa sentire che mi sto avvicinando finalmente alle prove, che il mio cuore è già là, che ho sentito la voce, che non ho paura di avvicinarmi a quella voce che chiama. Vorrei solo, già da adesso, dire che sono qui, che ho sentito.

Butterò giù solo delle piccole note di tanto in tanto, per il momento, quando potrò, mentre porto avanti i Canti del caos. Se avrò qualcosa da dire, la dirò. Se no starò zitto, e i lettori di Fernandel non mi troveranno al solito posto, semplicemente.

Si tratta solo di rompere il ghiaccio…

Cominciamo!

Poche settimane fa sono andato a Mosca, nella settimana terribile della cattura degli ostaggi e del massacro che ne è seguito.
Mi è successo infatti – per una di quelle combinazioni imprevedibili che a volte succedono nella mia vita – di venire invitato a partecipare a un incontro internazionale intitolato “Ripensare la modernità”. Qualcuno in Italia (Federico Nobili del Gruppo Eliogabalo) ha fatto il mio nome assieme a quello di Lindo Ferretti ad alcuni degli organizzatori di questo convegno, al posto di tanti altri nomi più rinomati e che avrebbero avuto ben maggiori titoli mediatici o accademici, e i russi si sono fidati, non hanno fatto una piega e ci hanno invitati.

Così mi sono trovato per giorni e giorni in una situazione difficile, impropria, chiuso nella mia dislessica prigione linguistica, mentre avvenivano a poca distanza fatti terribili, in quella sconvolgente, commovente città smisurata dove sono passate tutte le ondate delle illusioni della modernità che qui hanno attecchito in modo abnorme e sono diventate qualcosa di irreparabile, tragico, in mezzo a tutta quella semplicità e a quella tremenda ferocia e pesantezza e innocenza, in questo enorme paese germinale perennemente spaccato.

Ci siamo trovati sull’aereo, in rappresentanza dell’Italia, Marzia, la traduttrice, Federico, coi calzoni di pelle lucida, nera, da bullo, e io con gli unici calzoni decenti che avevo trovato nell’armadio la sera prima, tutti sbregati in mezzo alle gambe e frettolosamente cuciti coi punti metallici di una graffettatrice.
Lindo Ferretti non ce l’ha fatta a venire.

Prima che l’aereo toccasse terra ho guardato dall’alto, nella giornata plumbea, la pista che si avvicinava, qualche rara betulla spoglia tra le pozzanghere e il fango del suolo russo, che vedevo per la prima volta dopo averlo amato da lontano e fin da ragazzo con enorme passione attraverso la sua grande letteratura, e anche dopo, nelle successive allucinazioni e illusioni che hanno attraversato da parte a parte il suo corpo, e anche il mio.
Fuori dal portellone, all’inizio del budello d’uscita dell’aereo, una ragazza in divisa mimetica e colbacco, dai lineamenti infantili, era lì a controllare lo sbarco. Ci siamo incolonnati nelle file per i vari controlli, di passaporti, bagagli, sotto quell’incombente soffitto a cerchi metallicicostruito ancora dai tedeschi dell’est al tempo del regime sovietico. Alla dogana c’era una ragazza in minigonna e stivali sotto la giacca di panno militare pesante e spalline, con le unghie dorate.
Siamo usciti. C’era freddo, per noi, perlomeno, una ventina di gradi in meno di quando eravamo partiti. Mi sono buttato addosso qualcosa di più pesante. Abbiamo camminato a piedi per un po’, sul terreno infangato, perché, per ragioni di sicurezza in quei giorni di allerta all’indomani della cattura degli ostaggi da parte dei guerriglieri ceceni, le macchine non potevano arrivare a ridosso dell’aeroporto.
Abbiamo caricato zaino e valigie su una di quelle macchine grandi e scassate che girano per Mosca. Siamo saliti. Ci siamo sistemati sui suoi sedili un po’ scalcagnati. La macchina si è mossa, siamo usciti dalla zona dell’aeroporto, abbiamo imboccato le enormi strade che portano nel cuore della città, e poi le prospettive sterminate con dieci, quindici corsie, mentre la radio nel cruscotto dava continuamente notizie degli ostaggi, intervallandole con canzoni, in lingua inglese, per lo più, ma qualche rara volta anche russa, mentre scorrevano dalle parti nella giornata buia, plumbea, le enormi barriere dei condomini, il monumentale cavallo di frisia che indica il punto esatto dove era arrivato l’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, e l’uomo che guidava ascoltava in silenzio e tutt’intorno c’erano immensi casamenti degli ultimi decenni, oppure ancora dell’epoca staliniana, sterminati e ascensionali e sormontati negli ultimi piani da strutture diroccate sorrette da colonne e da archi, come immaginati da un autocratico Piranesi futurista impazzito, e si vedevano di tanto in tanto passare nelle corsie opposte camion militari, vecchi carri armati e autoblindo, mentre la voce continuava a cantare nel silenzio con quella insostenibile dolcezza che ha la lingua russa, in quella giornata grigia, fredda, irreale.

Mi è difficile registrare per iscritto tutta l’emozione, il turbamento, la commozione che ha provocato in me la vista di questa città. Mi è capitato di parlarne un po’ con gli amici, nei giorni che sono seguiti al mio rientro, eppure mi sembra quasi impossibile dirne qualcosa anche per iscritto.
Proverò a dare qualche piccola idea, qualche immagine qua e là, qualche flash. Farò quello che potrò.

Siamo arrivati nell’enorme albergo. Dopo avere passato il controllo alla gabbiola esterna, sotto l’occhio vigile della guardia in divisa e colbacco, siamo entrati in quegli spazi inimmaginabilmente vasti, dove un tempo venivano ospitati gli uomini delle varie nomenclature, sovietiche ed estere, delegazioni di partiti fratelli, emissari di capi di stato stranieri per incontri preparatori ultrasegreti ma di cui si conosce oggi persino il numero della stanza. Scaloni di marmo, soffitti altissimi, colonne, tendaggi, divani di cuoio dove di notte siedono prostitute altere, eleganti, infantili, fatte entrare liberamente dopo una certa ora.
Appena entrati, proprio appena entrati, abbiamo visto scendere dalla scalinata centrale della hall un paio di vecchi militari col petto ricoperto di numerose file di medaglie che sembravano usciti apposta per noi da qualche film del passato, e poi enormi, panciuti boss con facce georgiane, caucasiche, dagli enormi ventri spropositati sotto la giacca dai bottoni slacciati, al fianco delle loro pupe in minigonne vertiginose e stivali dagli alti tacchi. Dagli ascensori uscivano ospiti iraniani dalle barbe curate, profumati, eleganti, con grandi mantelli di stoffa pregiata e turbanti.
Sono salito all’undicesimo piano. Ho attraversato l’enorme androne in perenne penombra, con le file degli ascensori e i grandi divani di cuoio e la dezurnaja dietro il suo scrittoio, sul fondo. Ho trovato la mia stanza. Sono entrato. Ho buttato a terra lo zaino. Ho aperto l’enorme finestra spostando i pesanti tendaggi. Mi sono affacciato. C’era, un po’ più sotto, una griglia metallica murata, forse per bloccare la caduta del corpo di qualcuno che fosse volato fuori per sbaglio o si fosse gettato. Ho guardato per un po’ l’enorme prospettiva bagnata di pioggia che correva di fronte all’albergo, col suo traffico lontano, attutito, e le prime luci che si accendevano qua e là nelle case e negli alti palazzi ascensionali isolati, con le loro cuspidi sormontate da grandi stelle di ferro.

Dietro l’albergo c’era un parco aperto tutta notte, dove hanno messo le statue abbattute: Lenin, Stalin, Dzerzinskij… anche un po’ di “arte degenerata”, primo Novecento, futuristi, formalisti, spiritualisti, tutta la ghenga… Enormi statue di metallo annerito, su piedestalli più alti delle statue stesse, decorati con simbologie guerriere e imperiali: le spighe di grano, la spada… Qualche statua religiosa, un uomo nudo in futuristica tensione che si forgia da sé una grande spada ancora incandescente che si dilata ricurva, espansa. Sculture in marmo attraversate da parte a parte da enormi crepe aperte durante l’abbattimento. Figure di metallo e di marmo dagli ampi calzoni titanici pieni di iperrealistiche pieghe svolazzanti. Libri sollevati nell’aria come vessilli, donne monumentali, pugnali…
Qualcuno si aggirava qua e là lungo i viali bui, fangosi, nonostante fosse notte. Qualche persona isolata, qualche coppia di anziani. Una ragazza silenziosa e sola seduta su una panchina dondolava la carrozzina dove un neonato dormiva profondamente, guardandosi attorno nell’aria fredda, piovigginosa, senza neppure curarsi di aprire l’ombrello, tra le sagome scolpite in quei grandi blocchi di metallo e di marmo e le barriere di teste decapitate ammucchiate dietro un’alta rete metallica.

Giravamo per Mosca, negli intervalli del convegno, soprattutto di notte. Il locale georgiano nella vecchia Arbat, con quelle prostitute bambine con lo stuzzicadenti fatto rigirare in bocca e il telefonino che suonava continuamente, mentre sul fondo un vecchio televisore trasmetteva una specie di telenovela georgiana cantata da donne intabarrate e uomini dai grandi turbanti e baffi posticci. Il locale azero col padrone panciuto in camicia di seta nera e grosso anello mafioso al mignolo e il quadretto oleografico di Stalin appeso a una delle pareti. Le vecchiette dalla faccia rossa, gli occhiali spessi, sedute in fila a chiedere l’elemosina davanti alle chiese, oppure per strada, piangendo, con un bambino dalle scarpe sfondate per mano, la bocca senza denti, rientrata. La Piazza Rossa transennata per motivi di sicurezza e la piccola, fulminea manifestazione contro la guerra in Cecenia, di un pugno di ragazze che innalzavano su lunghe strisce di carta scritte in caratteri cirillici. Qualcuno ha scattato alcune fotografie e loro sono scappate. Le infantili, barbariche chiese di marzapane dalle cupole d’oro. I grandi falansteri ascensionali del Ministero degli Esteri, dell’Università di Mosca sulle ex colline Lenin, con le sue colonne di marmo levigato e i capitelli metallici, l’immenso auditorium circondato da colonnati imperiali e con l’enorme, bizantino mosaico pieno di bandiere rosse sul fondo, contro il quale avevano preso la parola Kennedy, Mao… La gentilezza e la dolcezza dei nostri ospiti. Le immense stazioni sotterranee della metropolitana illuminate da enormi lampadari come navate di cattedrali inghiottite. Le sue interminabili scale mobili che scendono a capofitto e a grande velocità in quei tunnel concavi illuminati da fioche luci come antiche torciere, le persone che sprofondano allineate su di esse, tutte inclinate all’indietro per contrastare la forte pendenza, e la donna in divisa e colbacco seduta nella sua gabbiola di vetro, sul fondo. I cunicoli con i ragazzi ubriachi che prendono a calci le bottiglie, o stanno seduti a gruppi per terra nei sottopassaggi che attraversano le enormi prospettive, dove si sente ancora l’odore delle frittelle dolci vendute nei chiostri durante il giorno. I vecchi, decrepiti autobus di superficie, su cui salgono facce povere, silenziose, dai grandi ciuffi caucasici, con grandi scatole di cartone legate con delle cinghie. La piccola chiesa con quello spazio lungo e ristretto come un corridoio di fronte all’iconostasi ricoperta di icone, da dietro la quale arriva ai fedeli fermi in piedi l’invisibile voce del pope dai lunghi capelli. Le filiformi candele scure che bruciano velocemente emettendo uno sfrigolio forte, quasi un fragore. Le due ragazze sagrestane con un fazzoletto legato attorno alla testa, che si muovono silenziose dopo aver spento le candele all’ora di chiusura della piccola chiesa, sorridenti, leggere, nonostante siano tutte e due bene in carne, così leggere che paiono non toccare neanche il terreno mentre scendono lungo i gradini d’uscita senza neppure sfiorarli. Il ceffo chiuso a parlottare con un altro dentro una macchina parcheggiata in un angolo buio, di notte, e che si gira minacciosamente a guardarti in faccia quando passi vicino, forse qualcuno del milione, milione e mezzo di persone che vivono clandestinamente in questa enorme città di dodici milioni di abitanti, proveniente dalle regioni del Caucaso, dell’Ucraina, nonostante si debba girare sempre col passaporto in tasca se no si finisce in galera. Le coppie di mezza età chiuse nel loro silenzio, gli “homo sovieticus” con le giacche di pelle nera e camicia e cravatta, le ragazze dal viso paffuto, la bocca infantile, che camminano sui marciapiedi, mentre lunghe, nere limousine si bloccano improvvisamente. Ne scende una stupenda ragazza dai lineamenti asiatici, scortata da due guardie del corpo del boss, come in un film di Kitano. La donna tarchiata e in giubbotto di cuoio, da uomo, lungo il parapetto della Moscova, all’una di notte, in giro da sola con un cane da combattimento tenuto a guinzaglio con una cinghia sfilacciata di tapparella girata e rigirata più volte attorno alla mano. Lo tratteneva a stento, mentre cercavamo di chiedere un’informazione per ritrovare la strada di casa, perché ci eravamo persi per Mosca e non c’era nessun altro in giro a quell’ora. “Non avvicinatevi! State lontani!” gridava in russo la donna, trattenendo a stento il cane che si lanciava ripetutamente contro di noi per assalirci, con la bava alla bocca.

Ci spostavamo qua e là attraverso la città, per raggiungere le sempre diverse sedi del convegno. I diverbi tra i nostri organizzatori e gli uomini della sicurezza, che non volevano sentire ragioni e pretendevano di controllare lo stesso i nostri documenti. Le immagini terribili, crude trasmesse dai televisori dopo l’irruzione nel teatro occupato. Corpi buttati qua e là, scie di sangue, donne islamiche crivellate con la testa buttata spettralmente all’indietro, viste in piedi, in silenzio, impietriti, nelle anticamere prima di entrare nelle sale dalle grandi tavole circolari con la fila delle cuffie per la traduzione simultanea. Io ridevo incontrollabilmente fino alle lacrime, certe volte, assieme a Federico, per reazione, venivamo presi tutti e due da un esplosivo furore di riso infantile, persino durante il convegno, mentre parlava qualcuno dei professori compunti venuti dalle grandi istituzioni culturali europee, americane, con la loro merce avariata e fuori scadenza. Mettevo in atto complicati stratagemmi di copertura con sciarpa e tracolla, perché, una volta che mi ero inclinato, mi si erano rovinosamente sbregati di nuovo i calzoni in mezzo alle gambe e si vedano luccicare e spuntare ormai allo scoperto i punti metallici della graffettatrice.
Gli intervalli con i pranzi comuni a base di borsc e altri piatti portati su carrelli da belle, grandi, dolci donne dall’aspetto stanco e dolcemente sfasciato, abituate da generazioni a servire in silenzio. Un gruppo di studenti meritevoli venuti dalle altre università russe per seguire il convegno. Erano buoni, entusiasti, gentili. Belle facce di giovani russi delle varie regioni, pieni di delicatezza, innocenza. “Vi sentite europei?” gli ha chiesto con entusiasmo Marzia, la traduttrice. “No, ci sentiamo asiatici!” hanno risposto orgogliosamente i ragazzi.
Durante le riunioni, gli interventi di alcuni dei professori europei, americani. Col loro paternalismo, la loro saccenza, la loro boria civile, il loro aplomb. Come se il tempo restasse fermo mentre esponevano le loro secolari, collaudate ricette, in un vuoto pneumatico e temporale che permettesse ad esse di potersi graziosamente avverare nella vita reale e nel tempo. Col loro atteggiamento analitico, tranquillo, consolidato da secoli e secoli di cruenta pax occidentale, come se anche da noi non fosse successo nulla, non stesse succedendo nulla… A vendere i loro specchietti in questo grande paese attraversato dal caos, stratificato, disperato, spezzato, in cui convivono due, tre, quattro, cinque tipi umani diversi, con un’economia supportata dalla criminalità organizzata e dalla svendita di ogni cosa e ogni corpo. Come se non fossimo tutti quanti -e non solo loro- dentro la stessa voragine planetaria epocale e di specie che va avanti a capofitto, non si ferma, non aspetta per dare il tempo di avverarsi alle astratte ricette degli esperti deodorati in giro per il mondo con le loro cartelle delle statistiche, il loro status, i loro schemi da esportazione.
Vicino a me veniva a sedersi a volte la vedova di Sukarno, il presidente dell’Indonesia. Bianca, perlacea, con una rigida pettinatura orientale rialzata ai bordi. Mi rivolgeva ogni tanto la parola. Io giravo la testa, perché mi sentivo fuori posto, non capivo niente di quello che mi diceva.

La sera stessa dell’irruzione nel teatro e della strage che ne è seguita siamo andati – come previsto – al Bol’soj a vedere la Chovanshina di Musorgskij. Le misure di sicurezza, l’enorme teatro bomboniera imperiale con delle semplici seggiole con i braccioli in platea. Quando ho lasciato giù la tracolla e il piumino, una vecchia guardarobiera, dandomi il numero per riprendermeli alla fine dello spettacolo, mi ha guardato con dolcezza per un istante e mi ha chiamato tovarisc.
Prima dello spettacolo una donna vestita di nero è spuntata fuori da una fessura tra i due lembi dell’enorme sipario decorato con un numero enorme di falci e martello sbiadite. Ha ringraziato il pubblico per essere presente, nonostante la tragedia appena avvenuta e le misure di sicurezza nel timore di rappresaglie, ha chiesto un minuto di silenzio per le vittime del massacro. C’è stato un impressionante silenzio. Dopo un po’ hanno cominciato a salire dal golfo mistico le note di quel grande musicista morto povero, solo, alcolizzato. L’alba sulla Moscova. La Piazza Rossa, il mattino dopo la cruenta rivolta degli sterlcy. Entra in scena il principe Ivan Chovanskij, suo figlio Andrej, una fanciulla di nome Marfa, che ha fama di maga e che ama Andrej. Congiure. Accoltellamenti. Boiardi, Pietro il Grande. Vecchi Credenti. Quasi quattro ore di spettacolo, tre lunghi atti, due cambi di scena ad ogni atto, a sipario chiuso. Alla fine il capo degli scismatici capisce che il suo sogno di conservare la vecchia fede è irrealizzabile. Fa incendiare la chiesa. Ci entra con gli altri credenti. Anche Marfa è pronta a morire. Con la forza della sua fede convince Andrej a seguirlo in mezzo alle fiamme. Si sentono venire da lontano le trombe delle divisioni di Pietro il Grande che si avvicina mentre gli scismatici bruciano nelle fiamme e sulla Moscova sta per iniziare l’alba.

Al ritorno, lo sbalorditivo spettacolo dell’androne ascensionale dell’albergo illuminato da una luce accecante e gremito di grappoli di palloncini colorati. Era in corso una festa, veniva una musica a tutto volume, da uno dei giri di piani più in alto, una voce stava cantando in russo, distesamente, in quella vasta estensione spettrale. D’un tratto, come in un sogno, hanno cominciato a scendere dallo scalone ragazze scollate, in abito da sera, coi volti in fiamme, che lasciavano a poco a poco la festa reggendo con la mano enormi grappoli di palloncini colorati. La voce russa continuava a cantare una canzone dolce, sentimentale, nella voragine dell’albergo, in mezzo a quei marmi e a quelle colonne, mentre a poca distanza c’erano gli ospedali e gli obitori pieni di morti. Le ragazze continuavano a scendere a ondate, coi loro grappoli di palloncini irreali, a braccetto di cavalieri più vecchi di loro, eleganti, e la voce continuava a cantare la sua canzone sentimentale, struggente, in quella delirante vastità ascensionale.
“In quale allucinazione sono finito?” mi chiedevo “Cosa è successo poco fa in questa città, in queste strade, mentre qui dentro la vita continua come se niente fosse ad andare avanti cieca, indifferente, smagliante, coi suoi corpi caldi abituati a convivere con ben altre tragedie. Cosa è successo solo pochi anni fa, pochi decenni fa, in queste strade? Che cozzo tremendo di illusioni e fredde passioni in queste membra grandi, ingenue, barbariche, dolci, in preda a sempre nuove febbri, accensioni, infezioni! Che catastrofi di strutture e di sogni hanno dovuto sostenere questi corpi meravigliosi, dolci, pazienti! Che cosa succederà nel futuro a questo potente gigante umiliato, spezzato, che si distende attraverso due continenti? Dove andrà a finire una simile lacerazione all’interno della lacerazione più grande che ci sta attraversando sempre più? Dove andremo a finire tutti quanti, in questo continente, su questo pianeta?”
La voce continuava a cantare, mentre le ragazze non smettevano di passare a sciami coi loro grappoli di palloncini, spostavano aria profumata coi loro corpi in quella enorme solitudine musicale.
Sentivo un peso tremendo, mi veniva continuamente da piangere. Ho preso l’ascensore, sono salito nella mia stanza per non sentire più quella voce che continuava a cantare, per non vedere più i palloncini, la luce. Ho aperto la finestra, ho guardato per l’ultima volta dall’alto la città di Mosca silenziosa, indifferente, tranquilla, con le sue luci accese qua e là nella notte, nel freddo, affacciato pochi metri al di sopra della rete di sicurezza contro i suicidi.

Pubblicato in “Fernandel”, gennaio/marzo 2003.

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