Il blog è il paradiso
di Carla Benedetti
Marsilioblack mi ha scritto: gli hacker usano nicknames ma non sono funzionali al potere. La categoria di autore è estranea alla rete.
Dario mi ha scritto: viva l’orizzontalità, almeno qui! Se mi firmo dario anziché quiqueg, cambia qualcosa?
Molti hanno scritto: quello del nickname è un falso problema.
Ora dico io qualcosa.
Ecco le mie domande. Le ripeto, perché forse sono state fraintese.
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1) Che ragione c’è di filtrare la nostra identità?
2) Non sarà questa una procedura imposta dai nuovi poteri ? (per Dario: sì, quelli che producono questa bella orizzontalità in cui il mondo sta sguazzando prima dell’apocalisse assicurata)
3) Il nome è uno dei vincoli col mondo e con la collettività. Perché la maggiranza dei bloggers è così contenta di disfarsene?
Queste domande sono di natura politica, non letteraria. Sono interrogativi sul tipo di “polis” che si sta creando in rete.
(Cosa c’entra la categoria di autore letterario? Niente)
Gunther Anders diceva che l’”inondazione di immagini” a cui ci sottopongono giornali e televisione è ciò che ci nasconde il mondo mentre ce lo mostra a domicilio. Perché non sarebbe lecito porsi domande del genere anche per la rete? Questa nuova tecnologia ,che permette e favorisce questa comunicazione orizzontale, non ci sottrae forse mondo? Rispondete!
Non ci sottrae forse collettività nel senso forte del termine, surrogandola con un incrocio di voci leggere, senza peso, come un amasso di girini che scattano in continuazione dentro a una pozzanghera d’acqua, senza spostarsi d’un decimetro- senza spostare nulla?
Il blog è un mezzo meraviglioso che consente una parola diretta, senza filtri, senza mediatori, senza censure. Quante cose possono essere dette qui che potrebbero avere un impatto nella vita, nel mondo, far andare le cose in un altro modo! Molti lo fanno. Ma non abbastanza.
Perchè molti aderiscono così facilmente, senza nemmeno porsi il problema, al depotenziamento automatico della loro parola?
Senza la responsabilità a cui il nome ti vincola può esserci polis, politica, collettività? Rispondete!
Tutti quelli che mi hanno risposto (tranne Dario) mi davano del Lei. Lo avrebbero fatto se, invece che col mio nome, mi fossi firmata “personalità confusa” o “quiqueg”? No.
Ma la cosa più inquietante, e anche dolorosa, è che molti di quelli che hanno mandato commenti al mio pezzo lo hanno letto come l’ attacco di un'”esterna”, o addirittura come una denigrazione.
E’ andata esattamente come ho raccontato. Prima di aver letto su Nazione Indiana le lettere di Scarpa e di Marsilioblack non avevo mai riflettuto su questo fenomeno dell’identità camuffata che a voi appare così normale.
Anche a me pareva normale. Non l’avevo mai visto dall’esterno, cioè straniato. Ma ammetterete che leggere di seguito: “Caro Tiziano Scarpa”, “Caro Marsilioblack”, fa un certo effetto. Un nickname che si rivolge a un nome vero. E viceversa, un nome vero che risponde a un nickname. Due diversi livelli di realtà. Un umano che va a passegio con Roger Rabbit.
Ammetterete che è quanto meno stridente questo contrasto.
So bene che all’dentità di Marsilioblack, come di molti altri, si può
risalire, ma non è questo il punto. Il punto è che quasi tutti, pur non
nascondendo la propria identità, si adeguano a questa “regola” del blog.
Il blog, sembra incredibile, ma ha già delle regole, addirttura una tradizione, come qualcuno ha detto con intento buono, senza rendersi conto di quanto grottesca sia un’affermazione del genere, per una realtà appena nata e in espansione, e che si suppone il luogo della massima apertura.
Allora per la prima volta mi sono chiesta come mai si sia affermata questa sorta di “regola” nel blog?
Tutti quelli che mi hanno risposto, non hanno risposto a questa domanda.
L’hanno semplicememente rifiutata. Hanno ribadito che così è nel blog, che
questa è la regola, è la tradizione.
Va bene. Lo so. Ma perché si è attestata questa “regola”?Perché si è verificato proprio questo? E’ così naturale?
E se questa è la regola, cosa significano allora le eccezioni?
Anche su questo ci sarebbe da riflettere. Nella maggioranza dei casi coloro che si firmano sono giornalisti, personaggi della tv, scrittori, editori. Tanto che l’effetto è che il popolo del blog si divida in due categorie: da un lato i bloggers di serie Ache si firmano, dall’altra i bloggers di serie B che si chiamano come gli pare, tutti però a far finta di comunicare alla pari: da un lato i Luca Sofri , dall’altra le personalità confuse? Invece non è vero che comunicano alla pari. Perché questa ipocrisia?
Certo, so bene che a volte l’anonimato serve, ed è anche un mezzo per fare controinformazione e agire contro il mercato, e parlare male del proprio principale. E che può anche essere un mezzo per combattere il copyright. In tutti questi casi l’anonimato è utile. Ma a che cosa serve quando si danno giudizi su un concerto, su un libro, su un giornale, sulla guerra, o quando si parla di sé?
Non parlo di hacker, né di gente che si nasconde dalle persecuzioni di un regime, come in Cina. Non parlo di un’iniziativa come Napster che entra in conflitto con degli interessi economici. Parlo di bloggers che raccontano cosa pensano, cosa hanno letto, o cosa gli capita. Perché adottano un filtro di identità per fare questo? Se lo sono mai chiesto? Cosa cambierebbe se firmassero col proprio nome?
Qualcuno dice che non cambierebbe niente. Ma se fosse così, com’è che le percentuali non sono del 50 %? Come mai invece succede che la maggioranza sceglie il nickname? Perché i più rinunciano alla propria identità per scrivere diari, riflessioni, racconti?
Solo perché è più divertente? “Ma sì, lasciateci giocare, tanto, non facciamo male a nessuno”?
Io allora dico la mia. Penso che l’anonimato sia una procedura meno innocente di come si crede, che sia anche qualcosa di indotto da fuori, che
lascia alla comunicazione in rete la massima “libertà” di non avere alcun peso nel discorso pubblico. Temo che questa apparente pratica ludica provochi di fatto una specie di rinuncia a essere nel mondo, una rinuncia all’azione politica nel senso ampio. Uno stare nella nicchia invece che nella polis.
Nessuno finora ha risposto davvero a questa domanda.
Non solo. Ma tutti l’hanno anche visceralmente rifiutata come domanda: “Come ti permetti di interrogarti su questa cosa?”. Ho toccato forse un tabù?
Anche questo è sconcertante. Mi è bastato aprire una domanda e subito sono stata espulsa!
Vige nel blog una sorta di dogma:“Chi parla del blog non è nel blog”.
Lo si può capire come difesa contro i giornalisti che si sono precipitati a eiaculare articoli sul “nuovo fenomeno”. Ma quando lo si usa contro chi, dall’interno di questo mezzo, pone domande, allora può divenare incredibilmente repressivo e passare a significare questo: “nel blog non si può esercitare alcuna critica su ciò che avviene nel blog”.
Il blog è dunque l’unico luogo al mondo che è riuscito a eliminare la
critica alla radice? Ma allora è il paradiso!
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Cara Carla,
innanzitutto scusa se ho usato il lei, non e’ che sia stato li’ a rifletterci, mi e’ venuto spontaneo, ma certo non intendeva essere
offensivo.
Riguardo alle tue considerazioni, io continuo a pensare che sia un po’ come criticare gli uomini scozzesi perche’ si mettono la gonna, ma comunque…
Alcune cose che proprio non capisco della tua posizione:
– Perche’ leghi la questione degli alias o nickname in particolare ai blog? L’uso di nomignoli e soprannomi e’ diffuso da sempre e ovunque in rete, non e’ affatto una peculiarita’ dei blog, che da questo punto di vista non hanno introdotto alcuna novita’.
– Perche’ un’affermazione di Mario Rossi avrebbe piu’ valore se firmata col suo vero nome piuttosto che con il nickname, che so, di Zorro? Forse sono io che sono limitato, ma se Mario Rossi presentasse sul suo sito le prove inoppugnabili che gli americani sono responsabili della strage di Ustica, oppure la formula del vaccino per la SARS, non vedo come il fatto di firmarsi con uno pseudonimo potrebbe influire sulla loro validita’.
– Perche’ mai il potere dovrebbe incoraggiare l’uso di nomignoli dietro cui celare la propria identita’, e in generale di qualsiasi forma di anonimato? Da quel che so, ogni potere costituito tende di solito a fare il contrario, dato che sulla riconoscibilita’ e l’identificabilita’ degli individui si basa qualsiasi politica di controllo e repressione.
Queste le mie domande. Venendo alle tue, provo a dire perche’ secondo me i nomi “veri” sono considerati in fondo poco importanti e gli alias invece sono cosi’ popolari in rete:
– in rete la questione dell’identita’ personale e’ molto delicata. Non si ha mai la certezza di chi e’ chi. Anche di fronte a un nome “vero”, non
possiamo mai sapere con sicurezza se la persona dall’altra parte dello schermo si chiama veramente cosi’, o in un altro modo, o addirittura si sta spacciando per qualcun altro. Per cui, di fatto, chi naviga spesso in rete
si abitua a considerare nomi e nomignoli alla stessa stregua, sono solo insiemi di pixel, gli uni e gli altri, non contano piu’ di tanto, e per
conoscere davvero il proprio interlocutore bisogna comunque andare oltre, ascoltare quello che scrive e come lo scrive.
– In rete noi non siamo che “voci” immateriali e disincarnate, prive di corpo, di volto e finanche di quella fisicita’ data dal tono e dalle inflessioni della voce (o al limite dalla nostra particolare grafia). Data questa situazione, il nostro nome anagrafico (che e’ comunque qualcosa di imposto) non aiuta a darci un’identita’, non fornisce alcuna informazione su di noi (a parte se siamo persone note o famose), al massimo ne da’ qualcuna sui nostri genitori (uno non si chiama Diego Armando perche’ gioca bene a calcio, ma perche’ presumibilmente suo padre era un tifoso del Napoli di Maradona). Invece un alias azzeccato che ci siamo scelti noi stessi ci definisce meglio, puo’ dire sul nostro conto molte piu’ cose: ad esempio se una persona con cui sto chattando mi dice di chiamarsi Chiara Bianchi, ne so quanto prima, ma se si firma, per esempio, Suspiria, intuisco alcune cose sui suoi gusti e le sue preferenze, e le parlero’ di musica dark piuttosto che di Britney Spears. Un mio caro amico, per fare un altro esempio, in rete si firma Vanamonde, che oltre a essere un bellissimo alias annuncia subito a chiunque sia in grado di cogliere il riferimento che e’ un grande appassionato di fantascienza. E ora che ci penso, prima di diventare un “autore autorizzato”, il buon Giuseppe Genna usava presentarsi in rete con il nickname di “Poeta freddo”.
Questi sono un paio di motivi che mi vengono in mente per spiegare la larga diffusione dell’uso di nickname in rete. Non sono sicuramente gli unici. Ma che siano queste o altre le principali ragioni del loro uso, continuo non vedere dove esattamente stia il problema, posto che nella stragrande maggioranza dei casi per sapere il nome anagrafico di chi abbiamo di fronte in rete basta chiederlo, e ci verra’ dato.
Un caro saluto,
Jacopo
sei invitata al soliloquio sovrapposto. E finiamola con le differenze.
Allora, mi pare che qui nessuno abbia espulso nessuno. Però, se si vuole fare un dibattito on line, è bello farlo coi toni accesi, è sempre stato così.
Vedi, Carla, la maggior parte dei blog hanno un Nick per un motivo molto banale (e anche molto serio): sono realizzati da persone che lavorano durante l’orario di lavoro, e non ci tengono a farlo sapere al capo o ai colleghi. In generale, mettere il proprio cognome su un blog significa perdere la verginità: io una volta l’ho messo (e quasi subito l’ho tolto), e qualcuno è riuscito anche a risalire al mio numero di cellulare. Sono cose che non piacciono a tutti. Io ho un blog, ho un lavoro, una ragazza e una famiglia, e mi piace tenere i piani separati. Non mi piacerebbe che il mio blog fosse letto dai miei studenti o dai loro genitori. Non mi piacerebbe che un mio eventuale datore di lavoro, facendo una ricerca su google, s’informasse sulle mie idee politiche. Perché è vero, ho certe idee e su un certo piano mi piace difenderle, ma allo stesso tempo sono fatti miei. E’ una prospettiva incoerente? Può darsi, è la vita. Durante il giorno noi ci mettiamo indumenti diversi, su Internet assumiamo personalità diverse.
Poi c’è un altro problema che nessuno ricorda mai. Secondo l’attuale legge italiana sull’editoria i blog, in quanto siti aggiornati periodicamente privi di direttore responsabile, sono potenzialmente illegali. Ma tranquilla, nessuno qui ti denuncerà. Siamo brontoloni ma non infami.
Gentile Signora, continuiamo pure a darci del Lei, chè anche nella blogosfera un minimo di etichetta non fa male.
Dunque, per Lei, la questione del nome è davvero importante. Non a torto, credo. Allora cerco di capire meglio: Lei, il suo nome, se lo è scelto? No, non credo. Io nemmeno, ovviamente, ho scelto il mio. Ci hanno pensato i miei genitori. Ma il mio nick, ecco, quello è frutto di una mia scelta. Qualcuno fa una scelta semplice, e si crea un nick, ad esempio, semplicemente con le iniziali del suo nome e cognome “vero”, quello che si trova sulla carta d’identità. Altri, invece, ci pensano, magari buttano giù una lista, e poi scelgono ciò che meglio li rappresenta.
Ecco, questo è un punto che Le sfugge: il nick è una rappresentazione, espressione di una identità “scelta”, consapevole: altro che massa di girini. I girini non hanno nome, i blogger sì. Anzi: i blogger hanno IL nome. Quante “Carla Benedetti” ci sono in Italia? E quanti “Squonk” ci sono in Italia? Temo che le cose stiano proprio all’opposto di come Lei le descrive.
Ma ciò non mi stupisce più di tanto, perchè Lei mostra – purtroppo, per la seconda volta – di conoscere poco questo piccolo mondo, fatto di meno di ventimila persone in Italia. La faccenda dei blogger di serie A e di serie B, ad esempio: guardi, che Luca Sofri stia in serie A è indubitabile (amato e detestato come la Juventus, per capirci). Ma, santodio, prendere come esempio PersonalitàConfusa come blogger di Serie B per la faccenda del nick, mi perdoni, ma La espone al ridicolo: se non altro perchè, agli occhi di molti, PersonalitàConfusa è andata in serie B proprio a causa del disvelamento della sua identità… E poi: “chi parla del blog non è nel blog”. Guardi, se c’è un dibattito che non abbandona mai la blogosfera, riguarda proprio il blogger che parla del blog dove si parla dei blogger che parlano dei blog che… ci siamo capiti.
Sinceramente, questo Suo secondo intervento mi fa tornare alla mente quel vecchio detto veneto, che tradotto suona circa “peggio la toppa del buco”. Ma son cose che capitano.
Che in veneto suona più o meno “pezo el tacon ch’el sbrego” :) …
Ma lo sa, cara Carla (e il lei, magari senza la maiuscola, anche secondo me non guasta) che tutto questo disquisire di nick e soprannomi mi ha fatto rimpiangere quando usavo il mio, di nick?
Adesso mi firmo e mi dichiaro senza problemi con nome, cogome, indirizzo (non prorio proprio dettagliato che, si sa, un po’ di privacy non guasta), ma a suo tempo ero Space e, come giustamente qualcuno ha osservato, già questo mi connotava come appassionato di fantascienza e di videogames a tema spaziale (il nick viene da Space Ace, il primo gioco basato su videodisco, chi se lo ricorda batta un colpo). La mia casella di posta, ormai defunta, era space_chicciola_maya.dei.unipd.it, (questo è un appello ai vecchi amici del DEI a farsi vivi se si ricordano di me) e facevo parte, magari un po’ marginalmente, di una simpatica cricca di smanettoni…
Non mi dilungo, tendo ad essere logorroico e sfigurerei di fronte a chi scrive molto meglio di me. Le ho giò risposto sul mio blog, e quanto scritto vale ancora anche per questo suo intervento.
Per il resto sottoscrivo in pieno quanto scritto da Leo, Jacopo e sir Squonk coi quali ho l’onore di condividere questa pagina di commenti (e che spero veramente di incontrare a Viterbo giovedì)
Cordialmente
Smone Bettini, aka Space
x Carla Benedetti, sono andrea barbieri, ti giro questa cosa che lui non sa la tua mail:
Cara Carla,
Io, e dico io nel senso che mi sento un io come gli altri, ho sempre scritto sotto pseudonimo: il mio Pinocchio ad esempio in calce alle varie puntate ci scrivevo Carlo Collodi; non che avessi problemi di censura eh, non sono mica Swift o Spinoza io, è che il nick Collodi mi piaceva proprio perché se noti ci ho messo anche il nome di mio padre per sentirmelo vicino. C’era un mio amico anche lui scrittore, si chiamava reverendo Charles L. Dodgson, che scriveva con un nick, Lewis Carroll, un suo libro è bello veramente: Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie; ma a me piace più il mio nick perché ha le iniziali uguali come Dylan Dog. Trilussa invece per me è un nick bruttissimo. Non so, ce ne sarebbero migliaia di colleghi coi nick. Ma adesso che sono in paradiso, San Pietro mi ha regalato il walkman e tutta una collezione di cd masterizzati, e tra i cd di San Pietro c’è n’è uno bravo da brivido, altroché Puccini, questo qui si chiama Bob Dylan, cioè anche lui ha un nick, i suoi genitori lo avevano chiamato Robert Allen Zimmerman, ma a lui non gliene è fottuto niente, gli piaceva il poeta Dylan Thomas e zac è diventato Bob Dylan. Lui poi faceva della roba politica di brutto eh, era uno impegnato che te Carla non te lo immagini nemmeno, e comunque anch’io mi davo da fare, adesso no che sto benissimo. E poi c’era qualche collega che addirittura non si sapeva che nome avesse e nemmeno gli avevano mai visto la faccia, però poi ha avuto successo lo stesso.
Insomma Carla, io ti voglio tanto bene e ti saluto che vado a giocare a calcetto con Malcolm X, Danijl Charms e quell’altro, quel segagambe di Günther Anders.
tuo, Carlo Collodi
(Premessa: intervengo solo perche’ mi si tira in ballo.)
Ringrazio Squonk per la retocessione solo in serie B, sinceramente credevo di essere gia’ in C2, come la Fiorentina dopo la bancarotta.
Per il resto temo ci sia una fondamentale differenza tra i blog anonimi e i blog firmati con nome e cognome.
L’anonimato per il blogger che nella vita non conta un tubo a volte e’ una condizione necessaria. Il blog per noi rappresenta un mezzo per raccontarsi davanti a una platea di sconosciuti, una platea in cui puo’ nascondersi chiunque.
Io probabilmente ho sbagliato, perche’ pur di restare anonimo ho lasciato irrisolto un dettaglio equivoco (e, insisto, inizialmente non voluto) sulla mia identita’, e questo ha turbato un po’ troppo. Avevo bisogno di non essere riconoscibile a tutti. Forse bastava non dichiarare nome e cognome. Ma lo ha gia’ detto un altro signore qui sopra, Leo, che cito testualmente: “Io ho un blog, ho un lavoro, una famiglia, e mi piace tenere i piani separati. Non mi piacerebbe che il mio blog fosse letto dai miei studenti o dai loro genitori. Non mi piacerebbe che un mio eventuale datore di lavoro, facendo una ricerca su google, s’informasse sulle mie idee politiche (o su quello che penso di lui, o su quello che ho fatto ieri sera, aggiungo io). Perché è vero, ho certe idee e su un certo piano mi piace difenderle, ma allo stesso tempo sono fatti miei.” Sottoscrivo in toto. Fatti miei e al massimo degli amici che leggono il mio blog. Non voglio che il mio capoufficio o il mio collega che vuole farmi le scarpe venga ogni mattina a leggere e a vedere cosa penso di lui e della vita o cosa ho fatto ieri sera. Tutto qui.
Per la precisione, di non evere un posto di lavoro a causa dei contenuti del blog è già successo a Strelnik, qualche mese addietro. Che poi, questo sia stato un fatto positivo (per la scarsa empatia), o che comunque bisogna avere il coraggio delle proprie parole, è una scelta di coerenza personale e di responsabilità (magari verso dei figli).
Ciao Carla,
in parte sono daccordo con te. Io ho sempre usato un nick, e lo uso tuttora per dire quello che penso. Non ho certamente bisogno di nascondere la mia personalità. In tanti mi conoscono, anzi la maggior parte di chi mi legge conosce il mio nome e cognome.
Prima di tutto non è vero che è una “regola” dei blog, perchè i blog sono di oggi, ieri c’erano i forum e le newsletter. Chi è arrivato al blog sicuramente è passato prima per i forum e le newsletter e di questo sono convinto.
Parlo agli altri adesso. Non capisco perchè ci ostiniamo a non voler usare il nostro nome e cognome. Se non volete far sapere al vostro capo cosa pensate di lui perchè postarlo in un luogo pubblico come i blog? É questo il punto, non vi siete ancora resi conto che il blog non è un luogo privato, come del resto i forum. Basta non parlarne, come avviene nella vita reale.
Saluti a tutti
P.S. A questo punto sento dentro una voglia matta di rivoluzionarmi, di cambiare nick, di usare il mio vero nome e cognome. Sarà uno shock, ma è da farsi.
Per Squonk: scusami se ti rispondo qui, ma ho provato a farlo dalle tue parti e non ha funzionato (il pulsante “pubblica” non dava segni di vita). Immagino che leggerai questi commenti ogni tanto.
Tu scrivi: “beh, ma mica soffriamo di sdoppiamento della personalità! Nel blog ne emerge una parte, quella che scegliamo di far venire fuori; e la stessa cosa avviene, se ci pensi bene, in qualunque altro frangente della vita: al lavoro sei “totalmente” te stessa? No. Ed è solo un esempio”.
Purtroppo sto ancora studiando, ma è chiaro quello che dici, si può toccare con mano in ogni esperienza quotidiana, non solo al lavoro, ma in molti altri frangenti. Il punto è che questo fenomeno (antico come il mondo) non riesco ad accettarlo serenamente, come una delle tante regole del gioco. Al contrario (prendila come una questione personale, se vuoi), mi crea disagio, e una gran voglia di ribellione. Perchè non posso essere la stessa tra le pagine di un blog (se ne avessi uno), al lavoro (se mai ne avrò uno) e in qualsiasi altro contesto? So che non è una questione facile. Per esempio, andando un poco sul concreto, ho letto i commenti di alcune persone che lamentavano il fatto di non poter apertamente dire le stesse cose di cui scrivono qui ad un collega (o di lasciare che potesse leggerle collegandole all’autore). O ancora peggio al capo. Ma chissà, magari anche ad un amico. Non so, non voglio generalizzare, né penso che avvenga in tutti i blog, o in tutti i rapporti umani, per allargare il discorso. Ma questo fenomeno (non il blog, ma quello a cui accenni tu, il fatto di lasciar emergere la parte di noi che scegliamo a seconda del contesto) mi dà la sensazione di essere un limite alla libertà, non una sua estensione. Per questo mi sembra un poco una trappola, in cui anche in questi spazi (paradossalmente, perchè sembrano più liberi) si può cadere, restando legati alla personalità che ci si è costruiti nel tempo. Quello a cui mi riferisco riguarda ad esempio quella traccia di uno dei temi della maturità di quest’anno, in cui è riportato un passo da un’opera di Pirandello, (http://www.repubblica.it/speciale/2003/maturita/2003_1.html)
Riguardo ai pericoli della rete, comprendo perfettamente. In passato ho dato un (piccolo) contributo ad un sito di controinformazione. Non era un sito diciamo così, piacevole (l’articolo riguardava la vivisezione), e certo non ho fornito la mia identità. E già in quel caso mi sembrava di toccare con mano l’ingiustizia di doversi censurare. Ora quel sito è stato spazzato via. Ma, effettivamente, questa è un’altra questione.
Saluti, Emma
Gentile Signora Benedetti,
lei pensa di dover ripetere le sue domande in quanto non capite o fraintese.
A me pare invece che lei non abbia letto con attenzione i molti commenti al suo post precedente. Contenevano molte risposte, che dimostravano in maniera evidente la perfetta comprensione dei quesiti posti, compreso quello da lei definito Tabù.
Ha poi provato a spostare la questione, affermando che la sua critica ha una valenza politica e non letteraria, quindi che c’entra che tanti grandi autori abbiano usato pseudonimi?
Mi spiace rilevarlo, essendo lei di mestiere proprio una critica letteraria, ma la sua affermazione contiene una contraddizione controfattuale.
Automaticamente afferma che tutti gli autori che in passato si sono serviti di pseudonimi per pubblicare i propri lavori si sono rifugiati in una nicchia, invece che confrontarsi con la polis. Il che è un po’ pesante come affermazione.
Non solo, i commenti al post precedente contenevano parecchi bonari consigli.
Come quello di acquisire maggiore dimestichezza col tema del suo discettare.
Come qualcuno ha già fatto notare, i nickname non sono nati coi blog. In rete venivano utilizzati ben prima dell’introduzione dell’Internet, già su BitNet, FidoNet e reti a commutazione di pacchetto in genere.
Le rinnovo l’invito a leggere l’interessante saggio “Being Digital” di Nicholas Negroponte, magari in lingua originale, o nella già citata edizione italiana Sperling & Kupfer del ’96.
Vi troverà alcune risposte, anche a domande che non ha ancora espresso.
Cordialmente
Esimia Signora Benedetti, mi associo a tutto ciò che è stato detto sopra. Vorrei aggiungere solo due precisazioni: lei farebbe leggere il suo diario “segreto” a qualcuno? Forse a volte, non di certo abitualmente e a tuttiquelli che conosce. Molte persone utilizzano i blog come valvola di sfogo o come nicchia in cui rifugiiarsi e allontanarsi dalla propria realtà che a volte pesa. Che male c’è?
Molte altre lo usano come mezzo pubblicitario, attuando in certi casi abili manovre per ottenere una diffusione più ampia tra gente che mai, magari, avrebbe sentito parlare di loro: E SI FIRMANO.
completamente d’accordo con te: http://blake.blog.excite.it/permalink/8630
Rispondo a una delle Sue domande (e lo dò del Lei per educazione, non per altro, come dò del Lei a molti blogger che usano nickname): “Ma a che cosa serve [l’anonimato] quando si danno giudizi su un concerto, su un libro, su un giornale, sulla guerra, o quando si parla di sé?”. La domanda è mal posta, secondo me. Io invece mi chiedo: quello che conta è l’idea, il giudizio, la sensazione che si vuole trasmettere parlando di un libro o di un film? Il cercare di comunicare un “modo di vedere-leggere-pensare”? O siamo ancora al punto per cui idee-giudizi-recensioni sono autorevoli e degne di nota solo in quanto scritte da un Nome e Cognome? Oppure, rovesciando la prospettiva: una recensione firmata da Nome e Cognome cosa mi dice della “persona” che l’ha scritta, del suo modo di sentire in “quel” momento? Forse tanto, forse (più spesso) niente. Ancora una volta, non è proprio questione di firma.
Troppo lunghe e dettagliate per trovare posto nei commenti, le mie considerazioni su questo intervento sono state affidate al mio blog. Qui mi limito a dire: il mio io e’ fragile, multiforme e sfrangiato, non me ne vergogno affatto, non ho nulla contro i girini, e non mi piace affatto (anzi la giudico estremamente pericolosa, e vagamente paranoica) l’indebita commistione fra politico e individuale che l’intervento di Benedetti in qualche modo suggerisce come doverosa.
Gent.ma Sig. Carla,
io ho cominciato a scrivere sul mio blog senza neppure avere la piu’ pallida idea di cio’ che avrei raccontato.
Oggi, a quasi due mesi da quel giorno, in quel blog ho estrapolato tutti gli eventi piu’ importanti e i sentimenti piu’ profondi della mia vita, passando per la morte dei miei genitori, ai problemi pressanti della vita di ogni giorno.
Ogni post una particella della mia anima…ogni post mi dava la consapevolezza di essere condivisa e capita di essere una persona in mezzo a mille altre che hanno egualmente sofferto.
Fino a che è stato naturale pubblicare la mia foto, varie foto.
Il blog, posso assicurarlo, ha fatto e sta facendo di me una persona piu’ adulta; nonostante date le esperienze traumatiche superate nella vita, credo di esserlo stata anche prima del blog.
Ma è qui che ho imparato giorno per giorno proprio a NON nascondermi dietro a maschere, cosa che invece si fa nella vita reale.
Questo è quello che io provo editando sul mio blog.
Con stima
L’aspetto più interessante della scrittura in rete, secondo me, è la possibilità di lavorare costantemente sulla propria scrittura perché riveli il più fedelmente possibile la propria personalità, oppure il proprio carattere.
I blog danno all’autore una risposta immediata di come viene percepito, e tu reagisci a questo stimolo anche se magari non sapresti definire esattamente che tipo di risposta hai avuto.
Reagisci perché senti che se scrivessi meglio, diminuirebbe lo scarto che c’è tra quello che gli altri percepiscono e quello che tu senti, oppure immagini di te stesso.
Non ci sono in rete altri segni che la scrittura, che ci mostrino agli altri, e questo per chi scrive è spesso bellissimo.
Credo che si possa dire che la scrittura è soprattutto un’esperienza, e quindi soggetta al cambiamento e alla maturazione, o anche al semplice apprendimento, alla semplice capacità di renderla più simile a se stessi.
In questo senso, al quale io credo moltissimo come senso della scrittura, il nick esprime un progetto ideale, un sogno, la conquista di una personalità alla fine di un’esperienza alla quale diamo valore.
Aldilà delle ragioni personali e concrete che sono state esposte qui sopra, credo che la scelta di darsi un nick esprima soprattutto il sogno e quindi il progetto magari inconsapevole di darsi un’esperienza e in questa di farsi.
Il nome proprio in questo caso, con la sua identità legata a contingenze non sempre significative, sembra davvero poco adatto.
Popanga.
Leggo a spezzoni e in disordine e, così, dopo due post piazzati troppo in ritardo, arrivo, finalmente ultima, e, con qualche aggiustamento, reinvio qui qualcosa che ho appena sistemato sotto il primo intervento della Benedetti.
In Rete uso preferibilmente un nick . Perchè la faccenda del Nome come assunzione di responsabilità non è questione di anagrafe. Se l’Io di molti bloggers è leggero, se sono “leggere”, flessibili, interscambiabili, indistinguibili, le masse anonime (ma un nick è un “name”, come è stato ribadito, altro che anonimato!) la faccenda dipende, come dicevo laggiù, nella risposta a Tiziano Scarpa, dalla Parola, non dal Nome.
Non sono affatto d’accordo con coloro che dicono che quel che importa non è il “chi” scrive ma il “cosa”. E’ il “chi”, invece, quello che conta e credo che sia Scarpa che la Benedetti cerchino, soprattutto, di difendere proprio il soggetto, la sua unicità, la sua differenza, la sua identità profonda e, in un certo senso, la sua “solitudine” che è, in fondo, “trauma” e “responsabilità”. Solo che con il “chi” non c’entrano molto nè gli outing doloranti di certi blogs (la parola è brutta e respinge, ammettiamolo, perchè ricorda troppo il blob) nè i Nomi registrati negli stati di famiglia. I primi sono lacrimevoli “fatti vostri” televisivi, i secondi hanno a che fare con il Potere costituito (tanto è vero che non serve a niente firmarsi con nome e cognome per essere sullo stesso piano di “responsabilità” sociale di un, poniamo, Luca Sofri).
Il “chi”, invece, dipende dal “come” si scrive, da quanto sono usate, abusate, usurate le parole (gli stili?) e da quanto, invece, sono proprie, scavate dentro alla propria carne. Lo scavo è roba forte e difficile, per questo la facilità della Rete non lo favorisce (come non lo favorisce null’altro, nella realtà sociale, da sempre) mentre, al contrario, lo può mistificare più trionfalmente di altri media tradizionali (non più della TV, però).
Detto questo, una volta che si tenti di scavare, non per questo, attraverso la scrittura, si ottengono Verità e Autenticità, bensì solo Finzione che, tuttavia, è ben altra cosa dalla Falsità. E, in questo senso, è stato propriamente ricordato che un nome finto è tanto più proprio, scavato e personale di certi Nomi spacciatori di falsità luccicanti sotto etichette di “autentica realtà”.
La Benedetti vuol fare un discorso “politico” ma, qui, della politica a me pare che si confondano due piani: quello, per così dire, istituzionale, in cui nome e cognome sono imprescindibili e, come detto, rappresentano un Potere (piccolo o grande, non ha importanza, anche un semplice e comune elettore ne ha un po’) e quello, inclinato, in cui la politica scivola sul sociale e, addirittura, sull’etico. I blogs tenuti da nicks si situano qui e, in questo senso, hanno più a che fare con la prassi “letteraria” che con quella politica tipica del “cittadino”. (Infatti io non credo all’efficacia “politica” di operazioni tipo Wu Ming).
Comunque :1) un nick non serve per difendere la privacy in Rete, ed è ingenuo pensare che un datore di lavoro non ci scoprirebbe! 2)la Rete è un luogo pubblico e postare per NON essere letti da qualcuno è una forma di “falsa coscienza” e, in questo caso ha perfettamente ragione Carla Benedetti: si usa la Rete come una nicchia, un riparo di fortuna dal mondo. Sembra niente,innocuo, “liberatorio”, ma non lo è. Incollo:” Se non provi paura nel confronto con l’Altro, se aprire un blog ti rilassa, se lo fai perchè è comodo, facile e non costa tanto, allora certo, non stai nei territori della Letteratura (e fin lì, niente di male) ma non stai nemmeno in quelli della Libertà di Parola (non quella garantita dalla Costituzione, che, almeno qui, non è in discussione, ma quella, più profonda e faticosa, della ricerca e dello smascheramento attraverso la scrittura). La Rete permette anche di stare acquattati in nascondigli dove coltivare la propria timida paura, ritraendo il capino fra la “ggente”, solo che non bisognerebbe illudersi e chiamare questa condizione libertà. Proprio no. E’ questo spaccio di illusione che fa incazzare perchè si tratta di un’impostura trionfante, molto più subdola e pericolosa di quella degli Autori Impostori citati da Scarpa. Certi bloggers vivono nella caverna platonica credendo di vivere all’aria aperta. E questa falsa convinzione va smascherata perchè significa la vittoria del Grande Fratello televisivo e della Casa…delle Libertà!”