Le doppie vite di Chuck Barris e Enzo Tortora #1

di Tiziano Scarpa

“Tutti i personaggi pubblici hanno una ‘doppia vita’: la loro e quella che la gente pensa che abbiano.”

Enzo Tortora, Cara Silvia. Lettere per non dimenticare.

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Confessioni di una mente pericolosa racconta due storie. La prima è la carriera di un produttore e poi presentatore televisivo statunitense, che negli anni ’60 e ’70 ha inventato alcuni dei programmi più celebri della televisione spazzatura: Il gioco delle coppie, Fra moglie e marito, La corrida.

La seconda è la carriera di un agente segreto della Cia mandato in giro per il mondo a far fuori nemici politici degli Usa. Queste due storie sono in realtà una sola: il protagonista è lo stesso, Chuck Barris, star della tv e assassino patriota in incognito. Il sorprendente, bellissimo film di George Clooney e il libro autobiografico dello stesso Chuck Barris raccontano questa doppia vita.

Doppia vita, o unica? È proprio questo il punto.

Cominciamo dal libro. C’è una voluttà esibizionistica nello svelare le proprie avventure da agente segreto. Con la copertura di accompagnatore dei concorrenti in viaggio premio per il mondo, Barris svolgeva le sue mansioni di sicario. Una voluttà simile l’abbiamo letta di recente sul “Foglio” nelle memorie di Giuliano Ferrara, l’agit-prop berlusconiano, già comunista e poi socialista, pagato dalla Cia come informatore dall’Italia.

“Cosa credevate,” comunica implicitamente il testo di Barris, “che tutto si riducesse a presentate quattro fessi davanti a una telecamera? Il mio ruolo era ben altro!” Ma per quanto ad alcuni possa apparire eticamente dubbio andare in giro a eliminare supposti nemici della patria, nel libro questo doppio fondo dell’identità funziona pur sempre come un riscatto.

Come ideatore e presentatore di programmi, Chuck Barris accumula stroncature e disprezzo culturale, nonostante i suoi programmi abbiano molto successo. Intanto però si guadagna medaglie al valore per le sue missioni segrete.

“Un terzo signore fece un breve discorso, dicendo che ero un patriota in prima linea nella difesa del nostro paese e qualcosa a proposito di una guerra già iniziata. Non gli prestai molta attenzione. La mia mente vagava. Pensavo alla strana dicotomia per cui i miei simili mi mettevano in croce quando cercavo di far divertire la gente e mi lodavano quando la ammazzavo.” Confessioni di una mente pericolosa, pag. 244.

Quanto è autobiografico il romanzo di Barris? Non possiamo saperlo, evidentemente. Ma sappiamo che il raddoppiamento del protagonista, la sua doppia vita, o meglio la doppia narrazione della sua vita, colloca noi lettori in una condizione di stallo etico. Chuck Barris non avrebbe potuto viaggiare a compiere le sue missioni in difesa degli Usa se non avesse avuto la copertura di presentatore televisivo che accompagna in viaggio premio i concorrenti… Quindi diventa impossibile separare le due identità di Barris, e di conseguenza giudicare il suo contributo culturale alla nazione come star della tivù, senza tener conto anche dei suoi compiti occulti. Entrambi, il presentatore e l’agente segreto, non avrebbero potuto essere quello che sono stati, non avrebbero potuto svolgere oggettivamente le loro mansioni, se avessero fatto a meno l’uno dell’altro. In questo modo l’autobiografia del divo televisivo Barris, pur riportando onestamente le più violente stroncature ricevute durante la sua carriera di presentatore, di fatto le annulla.

Il male che gli imputano tutti, nel corso del romanzo, è l’aver corrotto l’America con il peggior veleno: l’America stessa. I programmi di Chuck Barris hanno una caratteristica ricorrente: gli ospiti sono gente comune. Scurrili. Ignoranti. Sessuomani. Esibizionisti. Senza talento.

Il film di George Clooney coglie bene l’ambivalenza del personaggio. L’attore protagonista, Sam Rockwell, è molto abile nell’impersonare a intermittenza un Chuck Barris n. 1 untuoso, impacciato, fisicamente disgustoso, e un Chuck Barris n. 2 assai cool, molto a suo agio, elegante anche quando è in abiti casual. Una delle sottotracce del film è il conflitto fra i belli e i brutti, tra Clooney e i concorrenti della Corrida, tra Hollywood e la televisione: quando, durante una puntata di Tra moglie e marito, la concorrente risponde con “Nel… nel mio sedere?” alla domanda “Qual è il posto più strano dove l’avete fatto?”, e tutti e due, moglie e marito, si mettono a sghignazzare sguaiatamente, lo spettatore li vede attraverso lo sguardo di uno degli attori più belli di Hollywood, che per la prima volta si è messo dietro la macchina da presa: è il bel Clooney a inquadrare quei volti ripugnanti, quegli ammassi di denti storti e carnagioni butterate mentre godono della propria trivialità. È una cinepresa che sta inquadrando in cagnesco un televisore. È un sistema della visione, tecnologico e sociale, che ne sta odiando un altro.

Ma lo spettatore viene messo di fronte a un’equivalenza: produrre e ideare programmi di tv spazzatura è come essere un funzionario governativo assassino: il presentatore televisivo Chuck Barris viene scelto dalla Cia perché ha “il profilo perfetto”, cioè le caratteristiche professionali e umane più adatte che ci siano per sbrigare il lavoro sporco della più potente democrazia occidentale.

Non è certo la prima volta che un’opera di finzione immagina una parte oscena dietro una figura emblematica della propria epoca. Per non andare troppo indietro nel tempo, Bret Easton Ellis lo aveva fatto in American Psycho. Essere uno speculatore finanziario, un giocatore in borsa a Wall Street negli anni Ottanta, è come violentare, torturare e fare a pezzi giovani donne. E’ equivalente a. È la stessa cosa. Il giovane yuppie di successo e l’abietto serial killer sono la stessa persona. Il sogno della fiction è ostentare un raddoppiamento osceno della fiction stessa. La fiction che racconta la storia diurna dello yuppie si mette a sognare un’ulteriore fiction, la storia notturna dell’assassino seriale. Il romanzo di Ellis è letteratura edificante: per condannare un orrore etico non ancora ratificato dalla società, cioè il giovane yuppie di successo, ha bisogno di prolungarlo fantasticamente, di identificarlo con un doppio immaginario eticamente inaccettabile, cioè l’assassino seriale. Immaginario ma plausibile: aristotelicamente dettagliato per celare il fatto di essere la fiction di una fiction, il sogno di un sogno, il prodotto immaginario di un’immaginazione. Da qui, da questo bisogno elevato al quadrato di realismo, deriva la minuziosità perversa, l’iperrealismo horror con cui il narratore riporta ogni minimo gesto delle torture di Patrick Bateman.

Noi italiani, purtroppo, abbiamo conosciuto almeno un caso in cui non è stata la fiction, ma direttamente la realtà a immaginare una parte oscena dietro una figura emblematica.

(1-continua)

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