Prendersi sul serio: la nuova eresia
di Carla Benedetti
Credere che possa ancora esistere l’eresia è oggi un’eresia.
Se si prende alla lettera l’ideologia dell’Occidente tardomoderno, nessuna ortodossia è infatti più immaginabile, né nella religione, né in nessun altro campo. Caduti, almeno apparentemente, i dogmi e le pretese di universalismo, ogni differenza avrebbe la possibilità di essere accettata senza conflitto e senza scandalo. Ogni religione o filosofia, ogni paradigma scientifico, ogni cultura o stile di vita, ogni modo di scrivere o di fare arte, avrebbe il suo diritto di cittadinanza nel mondo. Purché, ovviamente, diluisca la propria diversità in semplice differenza culturale.
Questa pretesa è oggi l’ortodossia. Ed essa infatti trasforma in eresia tutto ciò che le fa resistenza. Ogni diversità che si esprima e si comporti in termini di alterità invece che di differenza viene percepita e combattuta come eretica.
Qualche mese fa in un discorso a Mazara del Vallo in Sicilia, il presidente Ciampi pronunciò queste parole, riportate dai giornali e dai tg: “Nessuno deve avere la tracotanza di dire: la mia religione è quella vera!”. Senza dubbio la frase era detta con intenzione buona. Era un invito al dialogo, contro l’intolleranza e il fanatismo da cui si dice che derivino i terrorismi, e poi le guerre. Eppure, formulato in quel modo, aveva un che di paradossale, quasi involontariamente comico. Come si può nello stesso tempo avere fede e pensare che la propria religione non sia quella vera? E’ possibile una fede relativistica? Una fede ironica – verrebbe da dire. Una fede postmoderna. E quel comandamento: “Non avrai altro Dio all’infuori di me”? Neanche quello sarà più da prendersi nel suo significato forte, assoluto?
Questa sorta di ordine paradossale è il nuovo dogma della società occidentale tardomoderna. La violenza con cui attacca tutto ciò che gli fa resistenza, diviene qui visibile proprio perché tocca la fede. Esso pretende che persino la fede religiosa, che per definizione non può che essere assoluta, si spogli di questo carattere di assolutezza. Una violenza solo apparentemente inferiore a quella delle persecuzioni religiose di un tempo.
Ogni cosa dunque può avere il suo posto nel mondo, purché rinunci alla propria radicalità. Ogni diversità è accettata purché perda ogni alterità. Il multiculturalismo, figlio della stessa ideologia, è un’altra espressione di quell’ordine paradossale: come sostiene Zizek, esso ghettizza, e quindi depotenzia, ciò a cui concede uno spazio .
Il nuovo dogma agisce anche in altri ambiti della vita e della cultura. Nell’ambito della scrittura artistica, per esempio, o di quella che una volta si chiamava la “creazione” – parola che oggi suona eretica in bocca agli artisti. (Invece non suscita nessuno scandalo quando a pronunciarla sono i pubblicitari o gli operatori del marketing, che infatti la usano ironicamente). Dunque anche qui scrittori e artisti invitati a praticare una “fede” relativistica, a produrre libri e opere, ma con ironia: “Ho scritto queste pagine, ma non sia mai che io ritenga di aver prodotto qualcosa di necessario, di forte, di memorabile! Sarebbe immodesto. Sarebbe un contravvenire al principio della riduzione dell’Io. Peggio, sarebbe un ergermi a genio! Mi sono distanziato ironicamente dalla mia parola, ho fatto mio il mito della morte dell’autore, ho persino allontanato ironicamente l’idea stessa di arte. Perché so bene che i libri sono solo la ripetizione o la variazione infinita di ciò che è già stato scritto”. Questa è stata per decenni l’ideologia artistica dominante: euforicamente terminale, ironicamente repressiva. Per essa pretendere di esprimere un impensato è infatti l’eresia massima.
Pensiamo poi a come agisce quel dogma nella polis, nel discorso pubblico e nell’agire politico. Qui ad essere distanziata ironicamente è l’idea stessa di verità e, talvolta, anche quella di giustizia. “Sì, ritengo che sia vero quello che sto dicendo, ma non sia mai che nel dirlo io vi aderisca totalmente. La verità è un concetto desueto. Viva la pluralità delle posizioni: il nostro massimo bene! E se qualcuno approfitta di questo distanziamento ironico dalla verità per fare un uso strumentale dei fatti, o per legittimare i peggiori trasformismi, non sia mai che io mi indigni. L’indignazione non è pluralistica. L’indignazione è intolleranza”.
La tolleranza è un valore irrinunciabile. Ma perché mai dovrebbe avere come prezzo la rinuncia alla piena convinzione, alla verità o alla radicalità? Forse che il rispetto dell’altro sarebbe minore se i credenti avessero una fede assoluta invece che relativistica, o, per uscire dal terreno della religione (io del resto non sono religiosa), se chi parla aderisce totalmente a ciò che dice, o si indigna delle falsità che vengono raccontate e delle ingiustizie che vengono perpetrate? Anzi, si potrebbe persino dire il contrario: solo chi mantiene da qualche parte la misura dell’assoluto può avere rispetto profondo dell’altro.
Lo so che “assoluto” è un’altra di quelle parole eretiche. Ma ragioniamo. Cos’è l’assoluto, in termini laici? E’ semplicemente qualcosa che non è relativo ad altro, che non si misura con lo stesso metro con cui si misurano altre cose, qualcosa di “incommensurabile”. Per quanto una nota marca di liquori si sia chiamata (ironicamente) così, nessun prodotto commerciale è assoluto: esso è infatti commensurabilissimo con il denaro, e, attraverso di esso, con tutti gli altri prodotti.
Assoluto è, per alcuni, l’individuo, con la sua singolarità e il suo peso specifico di essere vivente. Assoluta è talvolta anche la diversità tra gli individui e tra i loro modi di percepire il mondo. Pretendere di togliere questi assoluti è perciò un atto di assoggettamento.
Il denaro è ovviamente un grande macinatore di assoluto. Ma non è il solo, né il più potente (anche se è sempre il denaro a muovere i fili). Anche l’obbligo di essere ironici lo è. E lo sono anche le regole della comunicazione orizzontale, che si sta sempre più espandendo attraverso le nuove tecnologie informatiche. Il suo presupposto è che tutto oggi può entrare in comunicazione con tutto a patto di amputarsi, di disfarsi di ciò che non entra negli schemi semplificanti della comunicazione plasmata sul modello pubblicitario: a patto che ogni soggetto si riduca a identità leggera, a Io docile, senza legami con il mondo, senza peso, a patto di sbarazzarsi di ogni pretesa di verità e di ogni potenzialità di conflitto.
Il dogma è come saltato di livello. Non controlla più soltanto l’ortodossia dei contenuti ma anche e soprattutto la posizione che uno assume nel discorso e nell’agire pubblico. E’ difficile che il dissenso e la diversità siano di per sé sentiti come eretici. Invece lo sono, e in maniera a volte violentissima, le modalità della loro espressione. Il potere entra così nelle zone di maggiore resistenza: attraverso l’obbligo di essere ironici viene tolta all’individuo la possibilità di contribuire alla collettività, attraverso il relativismo della verità viene tolta la possibilità di incidere nella cosa pubblica, attraverso l’obbligo di farsi portatore di una mera differenza culturale, viene tolta l’alterità. Perciò, di fronte a tanto potere di svuotamento e di assoggettamento compiuto sotto l’apparenza di una liberazione (liberazione dalla responsabilità della parola, o dal conflitto della diversità) bisogna dire, ereticamente, che la radicalità è la vera eresia di oggi.
Oggi eresia è prendersi e prendere gli altri sul serio.
Pubblicato su “l’Unità”, 11 luglio 2003.
________________________________________________
Per inserire commenti vai a “Archivi per mese – luglio 2003”
Ottima idea riprendere questo pezzo molto efficace e profondo di Carla Benedetti, dopo aver letto il quale ci siamo posti le domande contenute nel testo che trascriviamo qui sotto. Saluti, e grazie a Benedetti di aprire spiragli su tali questioni.
Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
http://www.zibaldoni.it
COS’E’ OGGI LA RADICALITA’?
Forse è da questa domanda che occorre partire per capire bene come occorra destreggiarsi nel nuovo ordine mondiale; che poi tanto nuovo non è, dal momento che ogni epoca, ogni popolo ha avuto il suo potere, più o meno invasivo, cui ha risposto appunto in questo modo, con radicalità. Quanta radicalità, ossia quanta tensione contro il potere oppressivo, vi è in Leopardi, in Marx, in Kafka, in Proust, in Pasolini, perfino in Croce? E di che tipo di radicalità stiamo parlando? Lo spunto ci è dato dallo scritto di Carla Benedetti, nel quale tutti siamo messi in guardia contro le subdole concessioni della modernità, che fagocitano l’altro, riservando ad esso uno spazio, una riserva indiana, entro il quale l’altro mantiene la sua alterità, ma depotenziata, resa inoffensiva, cloroformizzata. L’altro non è veramente tale se il suo principio non agisce oltre i suoi limiti, trasformando tutto ciò che gli è intorno e trasformandosi a sua volta. Ma proprio questo principio, dice Carla Benedetti, risulta aggredito e distrutto dalla modernità; perché tutto può essere detto e professato, purché nulla abbia più il carattere dell’assolutezza e mantenga, invece, quella relatività che tanto più è ben accetta quanto meno incide realmente nel mondo. L’ironia diventa, dunque, figura della presa di distanza dalla verità, che si afferma senza convinzione, negandone lo statuto di assolutezza, e a farne le spese è la radicalità, ovvero, la vera alterità, perché, come dice Benedetti, “solo chi mantiene da qualche parte la misura dell’assoluto può avere rispetto profondo dell’altro”. Occorre, dunque, smetterla con l’ironia e cominciare ad essere veramente eretici. La conclusione: “Oggi eresia è prendersi e prendere gli altri sul serio”.
Ora, se l’analisi è inoppugnabile ed esaustiva, quel che dà da pensare, e suscita il dibattito, è la risposta alla domanda iniziale, che si ripropone in tutta la sua virulenza: che cos’è la radicalità? Un primo esempio di radicalità è rinvenibile nel modo in cui occorre procedere all’analisi della situazione attuale, senza farsi trascinare nelle menzogne che ad ogni piè sospinto trasudano dai mass media e dalla cultura televisiva in genere; capire bene le strategie del potere e le dinamiche che esso scatena nelle persone comuni come nei moderni letterati più o meno engagés. Ma una volta effettuato questo passaggio, una volta che l’analisi ha compiuto la sua opera, che cosa fare? Quale condotta di vita questa analisi porta con sé o semplicemente suggerisce, a chi non voglia limitarsi ad uno sterile ‘contemptus mundi’, ma trovare la rotta per non perdersi nei meandri di questa modernità? Perché è certo che “prendersi sul serio e prendere gli altri sul serio” non vuol dire elevare il proprio io a misura di tutte le cose e considerare gli altri come i nostri nemici.
Esiste, secondo noi, un’unica risposta alla domanda iniziale, ed è che ognuno di noi, ciascuno nel proprio campo, agisca con la radicalità di cui è capace: il medico, rispettando le regole di Ippocrate, il politico, perseguendo sempre e comunque il bene della comunità, l’ingegnere, costruendo case abitabili e soprattutto solide. Sembra semplicissimo, ma in realtà tutto questo spesso rimane irrealizzato, o quasi. Limitiamoci a considerare la letteratura. Dov’è oggi la radicalità nel mondo delle lettere? Come può, un letterato, oggi, scrivere tenendo fede al suo “assoluto”, alla ricerca della “verità” che gli è imposta dal suo campo d’azione, e alla quale, per dirla con Giordano Bruno, non può che “continuamente aspirare”? Ancora una volta, semplice e unica (ma non scontata) è la strada: il letterato utilizzi un linguaggio umano, e dica le cose che ha da dire senza girarci intorno, non inventi frottole, ma smascheri, con lo strumento suo proprio della scrittura, gli inganni nei quali siamo immersi nella società della comunicazione, o meglio, della menzogna globale. Quanti oggi lo fanno? Quanti non preferiscono, invece, rimanere acriticamente immersi nel mondo senza nemmeno provare a smuoverlo?
Noi con “Zibaldoni e altre meraviglie” (www.zibaldoni.it) facciamo esperienza pressoché quotidiana di quest’uso menzognero del linguaggio, cui spesso i letterati cedono per pigrizia, per pusillanimità, per infingardaggine, quando non per evidente malafede. Tanto che tra i progetti di smascheramento dei linguaggi “inumani”, come li definiamo, che la rivista intende realizzare nei prossimi tempi, rientrano i temi della scuola, della medicina, dei bambini, sui quali si sprecano impunemente le menzogne e le false tolleranze, per dirla con Carla Benedetti. Nell’ultimo numero abbiamo cominciato a trattare il tema della guerra “per il nuovo ordine del mondo”, cercando di cogliere delle voci “radicali” sull’argomento, al di là di ogni stereotipo e fasullo reportage dai luoghi dei massacri. È possibile dire qualcosa di sincero, di puro, di non contaminato dalla logica dei mass media su questo come su altri argomenti? È ancora possibile, per i letterati, la “radicalità”? Noi, come rivista, sappiamo che avremo una funzione soltanto se riusciremo almeno a far intravedere delle risposte a queste domande, quindi se saremo eretici fino a questo punto. Non altro significa oggi per noi “prendersi e prendere gli altri sul serio”.
Enrico De Vivo
Gianluca Virgilio
Io voglio tanto bene a Carla Benedetti perché ha scritto dei libri appassionati e le persone appassionate hanno un valore, però leggendo questi interventi penso che la radicalità come la intende lei è fatta di denuncie radicali, ma a me delle denuncie non importa molto: che Pedullà sia un personaggio culturalmente misero nonché il gestore di un potere di tipo mafioso, me lo immaginavo. Che il mondo sia pieno di regole imbecilli anche questo lo so già. Invece mi interessa conoscere il lavoro di chi non è imbecille: se il bravissimo disegnatore Sergio Ponchione nel forum di Maltesenarrazioni avesse usato i post per denunciare e denunciare io non leggerei ora uno straordinario incazzatissimo fumetto, “Social Fiction” di Chantal Montellier. Se Moresco si fosse fermato alle denuncie “Lettere a nessuno” sarebbe un libro noioso, invece nel libro non prevale mai la delusione, rifiuto dopo rifiuto continua a cercare, oppure come ha detto alla biblioteca comunale di S. Arcangelo a vivere dentro un fuoco. Del resto anche Wittgenstein che tutti quanti qui dentro leggete a manetta diceva che l’unico modo sensato di cambiare il mondo è cambiare sé stessi.
UNA CRITICA SERIA
Cara Benedetti,
forse è proprio quando più si ammira una persona che più si pretende da lei e, dunque, meno si è disposti a concedere. Ho seguito negli ultimi anni il suo percorso e l’ho trovato, come molti le riconoscono, coraggioso e solitario. Lei ha saputo mettere i piedi nel piatto, infischiandosene profondamente delle conseguenze dei suoi gesti. Ha saputo, in questo senso, essere radicale. Le sue denuncie, le sue polemiche, i suoi pamphlet sono stati, credo, salutari; hanno aiutato a smuovere le acque della società italiana; sono stati, se questa parola ha un senso comune, gesti politicamente rilevanti. Ma cosa ha a che vedere tutto ciò con la letteratura? E cosa ha a che vedere con la critica letteraria? Mi spiego. Lei pensa davvero che denunciare i meccanismi del mercato editoriale sia fare della critica letteraria? Attenzione: non dico che non sia importante; dico che, secondo me, questa non è critica letteraria. E non mi risponda, la prego, “per lei che cos’è letteratura? La letteratura è solo un’astrazione.”. Perché le risponderei molto semplicemente che la letteratura non è per nulla un’astrazione: è lì, tutta nelle nostre librerie zeppe di libri letti e straletti, amati e odiati. E la differenza tra la letteratura e quello che non lo è tutta quella che passa tra una pagina di Brecht e una di Rosa Luxembourg (entrambe meravigliose, scritte forse con la medesima finalità, ma immensamente diverse tra loro) o tra una pagina di Pasolini e una di Berlinguer. Le sue parole non mi dicono niente di un’opera letteraria. O parlano solo dei limiti delle altre opere, di quelle che, francamente, finiranno – come è da quando esiste la letteratura – nella spazzatura della storia, oppure si fermano ad una puntuale critica della società di massa. Io credo che ben altri siano i bersagli di un critico letterario, ben altre le sue prospettive. Non mi pare che la critica debba aspirare ad essere negativa (distruggere lo status quo), ma totalmente positiva, cioè capace di porre nuovi discorsi, nuove opere sotto gli occhi del pubblico. Le lamentazioni indignate che ho letto su nazione indiana mi sembrano andare in tutt’altra direzione. [Che ce ne importa della polemica sullo strapotere della letteratura americana? Ci si parli della forza di quella europea (se questo poi ha qualche importanza…).] Io vorrei un critico capace di dirmi quali sono le opere di valore, oggi. Quali opere sanno far fronte all’assoluto di cui lei parla. Quali opere, oggi, sono assolute (non quali sono meno peggio o più “politicamente corrette”, prendendo l’espressione nella sua forma migliore.) Mi aspetto cioè una critica che mostri nuove strade, e non solamente il marciume di quelle che sono sotto gli occhi di tutti.
E qui passo a una seconda questione che non riguarda solo lei ma l’intero blog. Il blog dichiara tra i suo principi programmatici una cosa molto bella: “xxxx”. Bene, andando a vedere i contributi al blog, mi pare di vedere che la quasi totalità appartiene ai fondatori o agli amici dei fondatori (tanto è vero che mi domando come si possa pubblicare su questo blog, visto che, forse per mia ignoranza, non vedo gli indirizzi dei collaboratori né di una redazione a cui spedire i contributi). Ora, e la domanda mi sembra lecita, non le pare che più che ad un assenza di filtri redazionali, siamo di fronte a persone diverse tra loro che, stufe di dover sottostare a una redazione, si sono costituite in una nuova redazione che, come ogni redazione, decide cosa e chi pubblicare? La cosa è più che lecita, ma dove sta allora la novità, l’“impensato” del blog? In che cosa si differenzia da una normale rivista? Forse per il fatto che ci sono i commenti agli articoli? Non scherziamo: tutte le riviste e i quotidiani del mondo offrono spazio alle lettere dei lettori (che per questo non sono certo collaboratori del blog, come dimostra la stessa differente visibilità delle lettere, la riquadratura differente, ecc.). Il timore è che la nazione indiana sia solo una riserva indiana.
Le dico questo con sincero affetto, poiché da lei, come da molti altri che scrivono su queste pagine, mi sarei aspettato, e mi aspetto ancora, molto di più: una nuova, vera eresia.
Marco Rizzi
La frase di Nazione indiana che mi sono dimenticato di inserire è questa:
Come funziona Nazione Indiana
Nazione Indiana è un blog collettivo. Ciascun collaboratore ha un accesso personale al sito che gli permette di pubblicare autonomamente ciò che vuole, senza passare attraverso alcun filtro redazionale e alcun tipo di mediazione.
Io vedo l’intero spettro delle opinioni impugnabili, delle teorie costruttibili, delle religioni venerabili come un piano aperto di legno, esteso su tutta la popolazione, e di quella stessa fatto.
Io opinion leader, io politico, io scienziato, io letterato, io predicatore getto con forza la mia parola, la mia costruzione su questo piano e cerco di bucarlo inglobando come una formina fa con la pasta dei biscotti il numero massimo di adepti, sostenitori, credenti, invasati, convinti cittiadini.
Cerco di bucare questo piano di legno con la forma della mia predicazione, crcando di estendernr i confini al massimo, mantenendone sempre però la forma.
Bucherò questa tavola e cercherò di farlo sino a che legno vivo ancor vi sarà. Concorrendo con altri. Intorno al mio mille altri buchi.
PErchè dovrei adagiarmi in un multiculturalismo? Perchè depotenziarmi? Perchè lasciare che altri scolpiscano il mio legno, ne mutino la forma?
Perchè arrendermi? Scendere a patti?
A chi giova?
L’assoluto è l’intero piano di legno, sul quale potenzialmente imperare. Ed un assoluto vive dell’assenza e dell’immadiata soppressione dell’altro.
E’ un uomo depotenziato quello odierno che lei descrive. Quello che afferma: “Ho scritto queste pagine, ma non sia mai che io ritenga di aver prodotto qualcosa di necessario, di forte, di memorabile! “.
Cosa ci ha portati a questo punto?
Essere uno, essere molti, comunicare: mettere in comune, unire in comunità.
Costruire: fondere assieme materiali, tecniche, competenze, punti di vista. L’atto di creare è preceduto dall’ispirazione, soffio divino, vero motore dell’agire umano nel suo vero senso di costruire significato. Non può esistere significato se non laddove siano state poste delle basi per esso: non può esistere significato se non all’interno di una fitta rete di altri significati, ciascuno giustificato dall’esistenza degli altri, castello di carte che poggia le proprie fondamenta su ciascuno spigolo di ogni carta. Se andiamo troppo oltre, ed ormai abbiamo superato di gran lunga quel confine, non può più esistere significato che sia semplice ed assoluto in sé e per sé.
Costruire una comunità, od una civiltà: trarre dagli sforzi di molti uomini un unica summa, farne crogiulo e fiamma e calderone, stantuffo ed altoforno, cogliere l’essenza, eliminare i difetti: non è il prodotto, ma il processo, lo scopo finale e quindi infinito.
Una civiltà semplice è quella che poggia le proprie fondamenta su di un semplice concetto: esiste dio, quel dio di cui siam figli e che ci mette alla prova dandoci un’esistenza da vivere, per poterci alla fine esaminare e giudicare chi sia stato meritevole. Entra perfettamente in accordo con la nostra natura biologica, competitiva, emotiva, territoriale, gerarchica. In principio dio creò la scimmia, la fece a sua immagine e somiglianza, e decretò che ogni altra scimmia doveva ubbidirle (vedasi Morris 1967).
Una civiltà complessa è quella che si propone di unire tra di loro più civiltà semplici, senza più competizione, nè territorio. La nuova Legge senza più un dio, messi al bando i principi darwiniani di selezione parla di ragione, parla di tolleranza, parla di cooperazione.
Violare in questo modo le leggi di natura ha un gran prezzo, che forse come razza non siamo pronti a pagare. La nuova Legge è tollerante solo con chi la rispetta, rifiuta categoricamente di non essere accettata, o capita. Non è forse vero che l’ignoranza della Legge è bandita dalle Legge stessa? Le è inaccettabile, antitetica?
La Legge della tolleranza deve accettare una drammatica conseguenza di sé stessa, come l’anomalia è figlia della matrice: in suo seno, nulla può avere un senso che contraddica la Legge. Così, pur di placare questo nuovo dio senza volto, le sacrifichiamo la nostra scienza e la nostra coscienza, timorosi di veder sovvertito quest’ordine che abbiamo creato in modo così illuminato. Orwell ha preconizzato il termine che non osiamo ancora pronunciare, per mostrarci il limite in cui ci siamo imprigionati: bispensiero. Sopprimiamo così il fondamentale bisogno umano di coerenza, in fondo perfino l’universo fa altrettanto, se è vero che onda e particella si contraddicono eppure coesistono, senza possibilità apparente di sciogliere questo inestricabile nodo di Gordo.
Non è però nell’essere umano che si è radicata questa malattia, ma nel sistema stesso, nell’intreccio del tessuto sociale. Dovevamo aspettarcelo, che alla fine non saremmo stati in grado di riannodare tutti i fili della trama così incautamente ordita per tessere il bozzolo che avrebbe dovuto escludere Dio dalle nostre vite, e consegnarci al solo giudizio di noi stessi.