Il problema Moresco
di Raul Montanari
Questo non è un saggio, non è un articolo di critica letteraria, niente del genere. E’ una serie di osservazioni nate dall’incrocio fra due esperienze personali:
1. Ho finito in questi giorni di leggere Canti del Caos parte seconda di Antonio Moresco;
2. Sono stato e sono tuttora impegnato con altri, in parecchie colonne di commenti leggibili negli Archivi di questo sito, a fronteggiare le osservazioni (a volte semplicemente le prese di posizione immotivate, umorali, sprezzanti) di un certo numero di frequentatori di Nazione Indiana, che di Moresco non ne vogliono proprio sapere, che detestano Moresco, che considerano NI stranamente succube di Moresco, che si stupiscono (eufemismo) che Giuseppe Genna, nel suo sito da poco aperto, definisca Moresco “il più grande scrittore europeo”, ecc.
A me pare che Moresco sia un autore che stimola una immediata separazione fra due aree di giudizio molto diverse fra loro. La prima è la critica letteraria vera e propria, la valutazione estetica dell’opera. La seconda è quella che potremmo chiamare, con molta approssimazione, psicologia della lettura, o semplicemente: registrazione dell’effetto di lettura.
Tutti gli articoli usciti finora su Canti del Caos parte seconda sono essenzialmente brani di critica letteraria. Che poi ad esempio la recensione di Giuseppe Genna sia fortemente motivata, e intrecciata, con una sua personale “reazione di lettura”, è cosa ovvia. La critica letteraria esiste anche come dato a sé stante, ma raramente è possibile vederla esprimersi nella sua nudità, nella sua purezza; assomiglia a molte cose che esistono, sì, ma non si presentano in natura allo stato puro. Il carbonio esiste, eccome, ma è impossibile osservarlo in natura; una recensione che si sforzi di essere obiettiva, neutrale, analitica, difficilmente riuscirà a prescindere fino in fondo dal gusto del recensore, dalle sue reazioni di pelle al testo. Fra l’altro, se ne prescindesse completamente sarebbe anche abbastanza noiosa.
Proviamo a fare un esercizio di deliberata separazione della valutazione estetica del testo rispetto a quello che si può intuire (e che viene confermato proprio dalle reazioni di alcuni frequentatori di NI, dando per buono che abbiano letto i Canti e non parlino a caso) della reazione del lettore. Di certe tipologie, non limitate ma diffuse, importanti, significative, di lettore.
Il libro di Moresco si presenta fin dal titolo con una componente “caotica”. Noi sappiamo che il caos è, per lunga e ampia tradizione transculturale, l’elemento di generazione dell’universo o del mondo: universo e mondo, o cosmo, sono appunto parole che segnalano un ordine che si stabilisce a partire da un disordine preesistente. Questa allusione del titolo è qui motivatissima: il romanzo di Moresco prende infatti l’aspetto di una narrazione che si costruisce a mano a mano che la lettura e (prima di lei) la scrittura vanno avanti. Non è una modalità narrativa nuova; sicuramente è, già questa, una modalità che ha molte probabilità di preselezionare severamente i lettori disposti a seguire l’autore in questo “farsi” della sua opera. Mi ricordo lo sconcerto che ebbi quando, da studente liceale, presi in mano, appena acquistato, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, il primo romanzo in cui avessi mai trovato la rottura del patto ficzionale fra autore e lettore. La lettura di quel libro, e in particolare delle sue prime pagine, mi diede un senso di tensione, di fastidio, e questo nonostante la prosa cordiale, limpida e accattivante del suo autore. Figuriamoci l’effetto (è di effetti che stiamo parlando) che può fare Moresco, considerando gli elementi che aggiungeremo alla nostra piccola analisi.
Qual è, dentro questo caos che si fa ordine, la struttura narrativa portante del romanzo? C’è un’agenzia pubblicitaria che lavora a una campagna. Cliente: Dio. Scopo: vendere la Terra. Target: non si sa. Gli amanti della logica a questo punto prendono il libro e lo usano per pareggiare le gambe del tavolo. In che senso Dio può voler vendere la Terra? A chi? Se Dio è Dio, può vendere solo a sé stesso, solo per gioco. Cosa c’entra l’account, cosa c’entra il copy writer, in una simile vendita? Allora mi avete imbrogliato! Il caos non è circoscritto alle premesse narrative, ma include anche l’intreccio. Non solo, ma questo motivo di Dio che vende la Terra ha un che di ingenuo, di cheap, assomiglia molto a quei racconti che tutti abbiamo scritto al liceo, mettendo in scena eventi grandiosi e strutture simboliche micidiali con una povertà di mezzi, un approccio naïf, che rendeva il tutto imbarazzante.
Passiamo alla scrittura. Sì, saltiamo il discorso che si potrebbe fare sui personaggi, sulle sottostrutture narrative e altro; sapete perché? Perché stiamo cercando di fare una considerazione deliberatamente effettistica. L’effetto che un libro ha su un lettore si chiarisce subito, dalle prime pagine, ed è fatto, alla rinfusa, dalla combinazione genere-trama-impattodellapagina, ecc. Si può immaginare un romanzo di 800 pagine in cui ci sia una geniale, lentissima, gradualissima messa a fuoco della relazione fra i due personaggi principali, presentati uno a p. 123 e l’altro a p. 456; ma se il lettore è arrivato a p. 456, è lì perché gli piace com’è scritto il libro, si sente coinvolto dalla narrazione, sta provando fiducia, interesse e piacere.
Com’è la scrittura di Moresco? Vi dico subito l’effetto che fa su di me. Mi stanca da maledetti. Io ho parecchi dischi di John Coltrane (quello dell’ultima fase) e Cecil Taylor (quello della prima fase), ma ho molta difficoltà ad ascoltarli interamente, in un’unica sessione, dalla prima all’ultima nota. In un disco come il triplo Nuits de la Fondation Maeght, Cecil Taylor, il padre del pianoforte free, fa esattamente quello che fa Moresco: evita l’astuzia narrativa di intercalare il pieno e il vuoto. Fa tutto pieno. Riempie tutto. Asfissia senza darti nemmeno lo sfogo di una scansione ritmica percepibile (il famoso “swing” che dovrebbe essere in realtà il tratto distintivo del jazz), tanto che i fan di Taylor avevano teorizzato e praticato un certo movimento oscillante del busto, avanti e indietro, una specie di ritmo sovradeterminato, preimposto, per aumentare la resistenza al flusso sonoro e la possibilità di scaricare tensione. La musica e la scrittura ti prendono e ti schiacciano sul soffitto: sei in alto, certo, respiri un’aria nuova, certo, stai vivendo un’esperienza di fruizione totale (un aggettivo molto usato per Moresco, anche da Dario Voltolini) ma dopo un po’ a respirare fai anche fatica. Gradiresti parecchio un intermezzo melodico, una pianura nel grafico dell’attenzione. Quell’alternarsi armonioso fra forza e relax che pure si trova nella successione di movimenti veloci e lenti dei concerti e delle sinfonie, nell’intercalarsi di comico e tragico che Shakespeare preconizzava, e così via. Né Taylor né Moresco te li concedono.
Io non riesco, in questo momento, a immaginare un autore più antologizzabile dell’ultimo Moresco. Molti hanno fatto dell’ironia sulla questione del “più grande scrittore europeo”. E’ chiaro che dire una cosa del genere significa proporre un gioco, è certo che sarebbe più prudente evitare le classifiche e lasciarle fare a D’Orrico, che da tempo non fa più critica letteraria ma gestisce in modo intelligente e spiritoso una sorta di “Let’s talk joyfully about books and bookwriters”. Se però il gioco lo si accetta, per scherzo e con animo leggero, e si prende una pagina di Moresco, vi assicuro che è dura, è molto dura trovare una pagina di un altro autore che le stia a pari. Non diciamo autore europeo (personalmente sono troppo ignorante per azzardare un confronto così vasto), diciamo italiano. Lasciando da parte altri nomi presenti in NI, penso che solo Busi stia all’altezza di Moresco. In base a quali parametri? Ecco un bel problema nel problema. Ne butto lì qualcuno: ricchezza di invenzione, visionarietà, rapidità e logica interna nello sviluppo delle metafore, ritmo del periodo, apertura di punti di fuga che diventano (ancora, cito Voltolini) angoli di inclusione prospettica. Sono tutti parametri criticabili; di più: sono insufficienti.
Uno potrebbe dire: io considero vero fulcro dell’arte narrativa i dialoghi, e trovo che Moresco sia molto potente nelle pagine a blocco ma meno efficace nei serpentoni del botta-e-risposta, in cui perde ritmo e spesso mette didascalie ingenue, sottolineando in modo esagerato le reazioni dei dialoganti alle battute dei loro interlocutori. Tanto per non prendere per il culo nessuno: è ovvio, lo si capisce da come è formulata, che questa osservazione mi appartiene. Quella sensazione, quell’effetto di schiacciamento al soffitto che ho descritto prima si attenua, per me (secondo me, quando leggo io) nelle scarse parti dialogate del libro; raggiunge il massimo della forza, ai limiti dell’intollerabilità, nei lunghi monologhi, nei “canti” e nelle ampie parti descrittive.
Ma il punto non è questo. E’ piuttosto che la scrittura, quello che prima abbiamo chiamato “impatto della pagina”, contribuisce, insieme al “caos”, a chiedere al lettore una scommessa forte, fortissima: se vieni con me, dimenticati che la letteratura è anche entertainment, è anche l’angolino serale in cui metti da parte l’orrendo assedio del vivere e cerchi di camminare in un mondo che ti viene promesso “altro”. Questo, amico mio, è invece proprio il tuo mondo. La puzza di merda che ne senti erompere è la stessa che ti accompagna, sottile, passo dopo passo nella tua giornata, e non a caso io di merda parlo molto, e uno dei miei personaggi è “il pestatore di merde”, un uomo che ha calpestato così tanti escrementi da marciapiede che la sua statura, il suo incedere, il suo ruolo nella scena del romanzo ne vengono totalmente determinati. Solo che io, l’autore, con questa merda costruisco una cattedrale. Io, l’architetto, rifaccio il Duomo di Milano con la merda. Ci stai o non ci stai?
Moresco ha già perso quelli che da un libro si aspettano un universo ordinato, e di seguito quelli che amano strutture logico-narrative che si presentino, sia in superficie sia in profondità, ben leggibili e coerenti. A questo punto perde anche chi dal libro, legittimamente, si aspetta, sia in superficie sia in profondità, il piacere della lettura. Attenzione: non sto dicendo: Moresco perde quegli imbecilli che… ecc. Niente affatto. Le aspettative a cui ho accennato (ordine, logica, forte e gradevole leggibilità) non sono per nulla illegittime! Ho appena detto che anche a me la lettura è costata fatica, che anch’io ho sentito spesso il bisogno di respirare, che l’ammirazione e il fortissimo senso di invasione che provavo, un’invasione fisica, mi costringevano spesso a evadere, a mollare la tensione. Non do dell’imbecille o dell’incompetente letterario a me stesso per avere fatto fatica, non ne do a chi ha addirittura smesso.
Chiedo solo, e questo è il senso di tutto il discorso, di non confondere il giudizio estetico con l’effetto di lettura.
Aristotele dava per scontato che i due piani fossero pressoché intercambiabili. Gli strutturalisti li separano nettamente, e scusate l’ellissi di 2400 anni. Spesso si sono dette cose molto intelligenti partendo da un piano per arrivare all’altro: proviamo a rileggere quei passi della celebre intervista di Truffaut a Hitchcock, in cui il grande regista inglese definisce il concetto di suspense. Hitchcock dice che se un personaggio entra in un corridoio e di colpo uno esce da una porta e gli pianta un coltello nel corpo, non c’è suspense: c’è shock, c’è sorpresa. Se invece lo spettatore del film ha visto un uomo con un coltello nascondersi in un corridoio, e ora vede il protagonista entrare in quello stesso corridoio, allora c’è suspense. La suspense, conclude Hitchcock, nasce da uno squilibrio di informazioni fra lo spettatore e il personaggio (il che, fra parentesi, è esattamente il meccanismo alla base della cosiddetta “ironia tragica”: gli ateniesi conoscevano benissimo la storia di Edipo, ne sapevano più di Edipo sui disastri che era destinato a combinare, anzi: che aveva già combinato e che si avviava a scoprire; per questo tremavano per lui vedendolo legarsi da sé il cappio a cui si sarebbe impiccato, nella sua ignoranza e nel suo tentativo di trovare l’assassino del re Laio). Fantastico! Da una considerazione di puro mestiere (“io non faccio i film per il pubblico delle sale d’essai, li faccio per le prime visioni!”) a una descrizione che va a colpire il centro stesso dell’analisi strutturale (o strutturalista) del rapporto fra personaggio, testo, contesto, fruitore ecc. Ma i due piani sono separabili, rimangono separabili.
Azzardo una conclusione.
Forse la querelle su Moresco nasce dalla difficoltà di definire il concetto di grandezza letteraria. Io trovo legittimo che si possa definire grande l’opera (l’autore) che combina complessità, novità di linguaggio e alta fruibilità. Non è un’opinione sciocca né banale; è, mi sembra, l’opinione più diffusa, della quale più o meno consapevolmente è partecipe la maggioranza dei lettori di libri, degli spettatori di film, degli ascoltatori di musica e così via. Faccio resistenza, nel mio piccolo, a una preponderanza della fruibilità (ovvero: della funzionalità dell’opera a un gradevole godimento, all’interno di un percorso quotidiano in cui lavoro, riposo, attenzione, relax, concentrazione, apertura all’esterno si succedano con un’apparenza di armonia) su altre categorie di giudizio. Ossia esattamente a quello che sta succedendo nell’industria culturale, e da un bel pezzo.
Chiedo a chi ha deposto il libro di Moresco dopo qualche pagina o qualche decina di pagine la lucidità e la generosità intellettuale di dire: Forse la grandezza di questo autore, di cui sento tanto parlare, è al di là della portata del mio gusto di lettura. Non della mia intelligenza o competenza di lettore: del mio gusto, del mio piacere, della mia gioia di lettura. Le due cose non sono in contraddizione! Forse è vero che il Kilimanjaro è lo spettacolo naturale più sublime che il mondo possa offrire, ma io di andare in Africa non ho tempo, non ho voglia, non ho inclinazione. Sarà per la prossima vita. Però capisco, intuisco le ragioni di chi sostiene la grandezza di questo autore; non credo che si tratti di una conventicola di traviati. Vedo anche, per quello che so di queste cose, che Moresco e coloro che lo amano e sostengono sono lontani dai centri nevralgici del potere editoriale; questo, a lume di naso, accresce la mia sensazione che si tratti di atteggiamenti estetici liberi, motivati, cementati dall’amicizia ma che sicuramente non si esauriscono in essa. Va bene, questo mi basta. Sorrido, torno a leggere altro.
E’ tutto qui.
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Un grazie a Montanari per questo pezzo di una chiarezza straordinaria,dai toni pacati e argomentato dall’inizio alla fine,che personalmente mi fa riflettere sulle modalità di lettura di un libro.Non ho gli strumenti per poter dire se Moresco sia il miglior scrittore europeo, però ritornando alla distinzione tra giudizio estetico e effetto di lettura posso dire che Moresco mi piace di pancia e molto e allo stesso tempo comprendo chi si infastidisce e non lo ama. Intuisco che M stia facendo un’operazione con il linguaggio notevole e fuori da canoni rassicuranti.Quindi per tornare a Montanari,la sua sintesi ha il pregio di essere pedagogica fornendo strumenti per entrare nella profondità dialettica e non rimanere in superficie.
My compliments!
IL PROBLEMA MONTANARI
Io continuo a sostenere che il “problema” di NAZIND è Montanari, altro che Moresco, del quale poi ciascuno pensa quello che gli pare, sono d’accordo. Ma il vero “problema”, qui dentro, è Montanari, non in quanto scrittore o persona, ma per tutto quello che rappresenta con il suo modo di interloquire, di esprimersi e di pensare che tutto il mondo giri solo per lui: in quest’ultimo pezzo su Moresco, ancora una volta, scrive solo “per mostrare se stesso”, cioè una (anzi, due) sua “esperienza”, ovverosia solo i fatti suoi. “Il problema Montanari”, dunque: ecco un pezzo che i redattori di NAZIND dovrebbero pensare a scrivere. Non per isolare Montanari, ma per capire che cosa loro cercano in Montanari, nel suo modo di fare, giacché è evidente che Montanari sta insieme a loro (non a me), e chi sta insieme a qualcuno è per qualche motivo.
I giudizi secchi, veloci e provocatori non li esprimo solo io, d’altronde, ma, come ho già detto, anche Carla Benedetti, che in quel pezzetto postato alcune settimane fa, ha centrato, come sempre, l’obiettivo. Anche se, curiosamente, alla fine l’obiettivo, invece che essere colpito o mutare rotta, ha accentuato la sua aggressività. Per quale motivo, non so. Metto di nuovo qui sotto il giudizio di Carla Benedetti, che si riferisce a un pezzo sul sesso scritto in NAZIND dallo stesso Montanari:
“Anch’io trovo qualcosa di superficiale e intollerabile nello sguardo sulla sessualità che trapela dal pezzo di Montanari. Non perché i suoi personaggi parlino di tette e culi, ma perché sembra trionfarvi quello stesso punto di vista parcellizzante, ironico e depotenziante che è nello “spirito dei tempi”.”. (Carla Benedetti)
Ecco, questo è il “problema” di NAZIND: convivere con ciò che essa stessa, programmaticamente, teoricamente, rifiuta. E’ possibile una cosa del genere? Forse le esperienze di questi mesi di discussioni hanno proprio sancito una tale impossibilità (o possibilità: dipende, qui, dai punti di vista; ma in questo ultimo caso, ci sarebbero tante cose da chiarire, allora).
Hai veramente rotto le palle Adele o come caspita ti chiami.Tu hai un problema con Montanari,evidente da tutti i tuoi post. Continui a ripetere come una litania le parole della Benedetti postandole ovunque. Mi dispiace rompere il silenzio che mi ero imposta per non cadere in una nuova farsa. Da un punto di vista etico sono abituata a esprimere le mie opinioni sugli atti e non sulle persone. Gli atti qui sono rappresentati dalle parole,atti linguistici ed è per questo che rileggendo i tuoi commenti ti invito a farti curare: sei affetta da sindrome paranoica ossessiva e il centro della tua ossessione è Montanari.Caghi merda come le arpie della mitologia,intrappolata in un delirio di onnipotenza narcisistica. Sei talmente dissociata che arrivi a sostenere che NI ha un problema, ma in che film? Nel tuo ovviamente, nella tua rappresentazione isterica della realtà dove tu crei i fantasmi per poterli poi combattere sentendoti la portavoce della Verità. Fai tutto da sola. Ti consiglio un bellissimo trattato:Isteria di Christopher Bollas,ed. Cortina 2001.
Davvero, hai rotto le palle…
Hai rotto le palle, inoltre dovresti rileggere quello che ha scritto proprio Carla Benedetti il 3.8.03:
“E poi soprattutto mi pare che chi scrive commenti nel sito lo faccia quasi sempre mettendosi in un ruolo passivo, quello dello spettatore che sta
seduto in poltrona a guardare i programmi…Invece di contribuire con
idee, proposte, riflessioni, si lagna di ciò che nel sito manca, di ciò che a sua detta si dovrebbe fare e non si fa.
Non so che cosa succede sul vostro blog, ma su Nazione Indiana non ho mai trovato, tranne in rari casi (tra cui il vostro), dei commenti che
contribuissero davvero a un qualsiasi dibattito. Per lo più sberleffi rancorosi, ricerca del pretesto per aggredire i collaboratori, e poi
un’incredibile quantità di lagnanze per disservizio, quasi fossimo, non una
rivista o uno spazio di discussione, ma appunto un servizio pubblico di erogazione del gas!
Nessuno che parli mai di cose, di idee, di problemi, di opere. Nessuno che faccia delle obiezioni severe ma vere, nel merito di cose, argomenti, idee.
C’è qualcosa di distorto in questa comunicazione che il blog apre, non so dire cosa , ci devo pensare meglio. C’è tanto narcisismo infelice,
dispiegato in maniera cattiva, nessun rispetto per la differenza, per l’impegno altrui, ma solo ricerca continua del pretesto per aggredire, per
prendere in castagna l’altro, per denigrarlo…..”
Carla Benedetti, appunto.
Io aspetto lungo il fiume…
Aspetto anch’io, un po’ più a valle. Quando passi fammi ciao con la manina.
Hai rotto le palle!
Ma se anche ad aspettare lungo il fiume rompo tutte queste presupposte palle, irrito in questo modo così urlante, volete dirmi voi con quale coraggio uno che arriva qui a leggervi e vuole esprimere un parere non concorde con il vostro, si può dichiarare con il suo proprio nome? Deve per forza difendersi dalle vostre aggressioni con un nick! Per forza! Voi siete la ragion d’essere degli anonimi che tanto vituperate, possibile che non riuscite a capirlo? Ma se uno fa un giro negli ultimi tre mesi tra le colonne dei vostri commenti, e guarda come son state trattate non una, ma decine di persone che semplicemente dissentivano argomentando (il “problema Montanari”, per me, è un argomento, se per voi non lo è, non lo trattate, ignoratemi, ma perché dovete esibire tutte queste berlusconiane “palle” e questi bossiani “cazzi”, a chi avete bisogno di far paura?), come fa, dicevo, un lettore dissenziente, a dichiarare il suo proprio nome, come fa, voglio dire, a non AVER PAURA di questo branco che rappresentate con la vostra aggressività verbale? Calmatevi, ragazzi, altrimenti resterete soli (ma in gran parte già lo siete) a ringhiare e minacciare nel vuoto.
Cara Adele, permettimi una puntualizzazione. Non tutti ti hanno aggredita e coloro che lo hanno fatto hanno solo reagito alle tue provocazioni. Lo so che non si dovrebbe reagire alle provocazioni, ma quando capita è bene non dimenticarsi la “punteggiatura” della vicenda, e cioè, banalmente, ricordarsi di chi ha attaccato per primo.
Poi tu dici che quelli che non hanno le tue stesse idee ti aggrediscono. Così dicendo metti il carro davanti ai buoi, perché devi ancora dimostrare di avercele, queste idee. Allo stato attuale non si sono ancora manifestate, eppure è ovvio che le hai.
Un caro saluto
Benissimo. Ora che Ilde/Adele, dall’alto del suo anonimato schizoide, ci ha spiegato che lei ha un problema sessuale con Montanari, continuando a ripetere come un pappagallo una frase di Carla Benedetti che non si riferiva a “tutto Montanari” ma a un pezzo ben preciso, un pezzo un giudizio una frase che non c’entrano un cavolo con “Il problema Moresco”, che ne dite se passiamo oltre e riprendiamo a commentare il pezzo attuale?
Mi sembra che il punto centrale sia la distinzione fra “effetto di lettura” e “valutazione estetica”.
Io trovo che questa distinzione sia molto valida per tutte le arti d’avanguardia, come la musica e la pittura, mentre è raro sentirla fare per la narrativa. Per la poesia forse sì: la famosa incomprensibilità degli ermetici, ma non solo loro. Il Moresco di Montanari lo trovo molto Joyciano, molto Beckettiano: un autore la cui bellezza richiede fatica. Gabriella invece dice che lei Moresco lo gradisce subito, lo sente bene “di pancia”. Io non ho ancora letto i Canti del Caos, né parte prima né parte seconda. Mi farebbe molta curiosità sentire altri giudizi come quelli di Gabriella, sapere quante persone hanno con la scrittura di questo autore arduo (l’ho trovato tale già negli Esordi) un rapporto di gradimento immediato, quanti invece possono ammettere la “fatica” a cui Montanari fa cenno. E mi piacerebbe moltissimo sentire il parere dello stesso Moresco su questo: come lui vive “da lettore” la propria scrittura!
Francesco Pieruccini
Dico brevemente la mia esperienza di lettura. Io quando comincio un pezzo di Moresco non riesco a smettere di leggerlo. Devo quindi fare molta attenzione a cominciare quei suoi tomi di 500 pagine se di lì a poco ho un impegno da qualche parte. In altre parole, è una lettura che mi prende, e che non mi lascia andare. Questo è il fatto. Quindi potrei essere il meno indicato a discutere sulla sua difficoltà di scrittura (tra l’altro mi capita anche con le cose che ho già letto, di lui: le rileggo, cosa che non mi capita mai di fare con nessuno. Canti del caos 1 l’ho letto tre volte, Canti 2 due e mezza, Gli esordi non parliamone). So che qui si entra in una zona del tutto personale. Quindi ho sempre cercato di non far valere questa mia passione di lettore come un fondamento per un giudizio critico o generale sull’opera e sull’autore. Certo però che resto sbigottito quando trovo gente che di mestiere legge ogni sorta di prosa e trova Moresco difficile se non addirittura illeggibile (Guglielmi su Tuttolibri a proposito dei Canti del Caos 1). Non è la mia esperienza. E’ il contrario della mia esperienza. Sembrerebbe che non ci si possa dunque intendere, a questo livello. Sì, magari uno arriva e mi dice: difficile leggerlo, ma importante. Va bene, io anche penso che sia importante, ma il fatto è che io amo leggerlo e non smetterei mai di farlo e di rifarlo. Intuizioni diverse? Mie manie? Quante volte mi è capitato di sentirmi chiedere quasi con scandalo: “Ma come fa a piacerti quello scrittore lì?”?
E la variante: “Come fa a piacere PROPRIO A TE quello scrittore lì?”.
Ma c’è uno spiraglio per capirsi. Se io torno indietro, a quando cominciai la lettura degli Esordi, ritrovo un momento in cui anche io ho avuto qualche difficoltà nella lettura. Non che trovassi la sua prosa impervia o noiosa o impenetrabile, no. Io non capivo dove andava a parare l’autore raccontndo quello che raccontava. Da un lato mi sembrava di non riuscire a entrare nella scrittura, dall’altro – forse per sfida, più verosimilemnte per curiosità – continuavo a provarci.
Io ricordo esattamente quale fu il punto di svolta di questa situazione. La scena del falò, negli Esordi.
Al termine di quella scena io avevo capito che c’erano, nella scrittura di Moresco, dei movimenti che appartenevano a rotazioni molto ampie, inusualmente dilatate. Io percepivo il movimento, ma in modo confuso. Invece alla fine del falò, come per incanto, ho visto che tutti gli smottamenti che avvertivo ma non comprendevo, avevano come culmine e direzione proprio quel punto, a cui ero infine arrivato. Fu, ricordo, una rivelazione. Altro che suspence! Altro che pugnale nel corridoio! Fu come capire che la Terra è rotonda e in un attimo spiegarsi come mei lo sono la Luna, il Sole, eccetera. Come mai c’è il giorno e c’è la notte. Come mai le ombre si allungano. Come mai viene il freddo, poi il caldo.
Insomma, avevo visto che c’era un disegno preciso, solo che era talmente più largo di quelli a cui ero abituato, che prendevo le sue linee componenti come fossero, ciascuna, il tutto. Ma il tutto era più grande. Molto più grande. Ecco, quello fu il preciso momento in cui io passai dall’essere un lettore in difficoltà e mediamente sospettoso, all’essere un lettore in piena adesione estetica con i testi di Antonio (voglio chiarire che io mi considero uno scrittore molto diverso da lui, non si tratta di affinità, sto parlando di me come lettore).
Ora, questa esperienza di sentire sotto di sé, leggendo Moresco, movimenti larghissimi, a volte lentissimi, tuttavia inesorabili, tenuti insieme con forza esagerata, proprio mentre tutto sembra sconvolgersi nel caos, è ciò che sopra ogni cosa io amo delle sue opere. Con i canti del caos questi movimenti si sono intensificati, si sono uilteriormente ampliati (chi legga i Canti del Caos 2 vedrà nel sovrano sulla cyclette, per esempio, qualcosa di simile a quel mio punto di convergenza trovato negli Esordi al termine del falò). Insomma, io mi diverto e passeggio nelle pagine di Moresco con grande piacere, come su un grande transatlantico, ma il vero senso della sua scrittura lo trovo quando intuisco che nonostante l’enormità del vascello, c’è qualcosa di molto più grande sotto, un oceano, con i suoi movimenti, che non sono quelli delle feste danzanti nel transatlantico. Mi rendo conto che avendo questo sentimento del giro più ampio che sostiene le pagine e le scene e i canti di questi due libri, io ho forse meno difficoltà con i cazzi e le inculate e le sborrate e le scopate e i pompini e i ditalini e il gran divorarsi di fighe tette culi e con la merda e con il sangue e così via, di quante ne avrei se pensassi che sono cose gratuite, con il loro valore in sé, maniacali, autosufficienti. Non so. Forse non mi disturberebbero lo stesso. Ma vedo che disturbano – e non poco – molta gente.
Io ora li vedo più come elementi in una sintassi che come contenuti del libro. Ci sono case costruite con mattoni di sterco secco. Se io vedo la casa, che magari è magnifica, non vado a prendermela con il muratore che ha osato maneggiare tutta quella merda. E proprio in faccia a me, che meriterei solo rosolio e pasticcini! Ma tant’è.
Un’ultima cosa. Moresco ha anche esplicitamente parlato della sua scrittura, di come l’intende lui. Con pezzi di saggistica, qua e là. Bene, c’è una frase che mi ha veramente colpito e che ha a che fare con quello che ho cercato di dire qui. La frase (vado a memoria, magari sono impreciso) è che “il mondo è caos, ma caos di forme”. Ecco, io leggendo Moresco ho sia la sensazione di caos estremo (quella che mi lasciava perplesso all’inizio delgi Esordi), sia di estremo sforzo formale (quella che a poco a poco mi aveva se/dotto nella scena del falò). Quello che veramente vorrei, qui adesso, è il terzo volume dei Canti del Caos. Ma dovrò aspettare che Moresco lo scriva.
Io spero di aver dato solo argomenti privati di lettura privata e stop. Niente di critico, di valutativo in senso normativo, niente cose su il più grande e il meno grande. Solo la mia esperienza di lettore.
Ciao
Faccio una piccola aggiunta alle cose molto interessanti che dice Dario.
C’è un capitolo modesto ma abbastanza curioso di quella che possiamo complessivamente chiamare “psicosociologia della lettura”, e si intitola: “Cosa legge uno scrittore? E come legge?”.
Qualche anno fa Laura Bosio, una scrittrice che spero conosciate perché è sicuramente una delle migliori e più originali che abbiamo in Italia, mi disse che si sentiva molto attratta dai libri di Aldo Nove. Io mi stupii di questo, perché lo stile di Laura è assolutamente classico, e in generale il suo rapporto con la cultura lo si può definire “alto”, molto diverso da quello nascosto, apparentemente sdrucito di Antonello/Aldo Nove.
Lei mi diede una risposta che mi colpì molto: “I miei gusti come lettrice sono diversi dai miei gusti come autrice. Io adotto una prosa classica, ma quando leggo sono molto incuriosita e ammirata nei confronti di scrittori più sperimentali di me”.
Mi sembra una osservazione di una lucidità impressionante, che rompe una catena di cause ed effetti in apparenza inattaccabile dalla logica. La catena è questa: io sono un/una scrittore/scrittrice, sono quello che Tiziano Scarpa definisce “Autore Autorizzato”. Scrivo quello che mi pare, e me lo pubblicano. Quando leggo, mi piace Aldo Nove (o Voltolini, o Moresco). Cosa mi impedirebbe di scrivere così, o almeno provarci?
Eppure, all’atto nella scrittura, non ho nessuna pulsione a trasferire sulla mia pagina quel tipo di stile, che pure mi piace! Non cedo a una tentazione anche ludica di emulazione, di rielaborazione; proseguo a lavorare ed esprimermi scegliendo dentro la tavolozza o tastiera che mi si addice.
Una bella testimonianza della coesistenza, dentro lo scrittore, di autore e lettore.
Trovo molto interessante la domanda di Francesco P. su come Moresco viva “da lettore” la propria scrittura, e sarei molto curioso di sentire la risposta.
Una ennesima precisazione per Voltolini, che adesso, dopo la mia precisazione, non parla più di insulto, ma di aggressione (hanno la testa dura, certa gente!) e provocazione. Io non ho mai aggredito nessuno, non ne sarei capace, né avrei la forza, quindi la smetta di fare la vittima di inesitenti violenze (almeno da parte mia).
Scusate, ma devo dire che qui sta succedendo una cosa gravissima! Compaiono dei post che io non ho mai scritto, a partire da quest’ultimo (che almeno dice cose sensate, o quasi), ma soprattutto sono leggibili nelle colonne dei commenti ai pezzi “Moresco e Sukurov” e “E’ nato un blog”!
Io sono senza parole! Qui sta succedendo una cosa veramente assurda, un sabotaggio da parte del BRANCO nei confronti dell’unica persona che ha il coraggio di dire la VERITA’ (è meglio usare le maiuscole, così vedono anche i ciechi…) in faccia a questa gente! Io non sono l’autrice né del post di “Dario” né di quello precedente!
Carla Benedetti, ma lei tollera tutto questo? Mi rivolgo a lei come donna, perché qui dentro vedo solo machi (Montanari), maschietti (Voltolini), stupidi (Inglese, Genna), e pseudodonne che sono tutte felici di reggere il sacco (scrotale?) a questa gente, come le signore o dottoresse Gabriella e Helena. Sono davvero rimasta solo io a dire la verità? Ma io continuerò a dirla, mi dispiace tanto per tutti voi!!!
Sono il maschietto (che bella categoria, Adele, complimenti). Non capisco più quali sono i tuoi messaggi. E dov’è quello firmato Dario? Io mi firmo così, lo fa forse anche qualcun altro?
Vorrei capire.
Non entro nel merito dell’intervento di raul montanari, della sua “vis” pedagogica, da insegnante di scrittura/lettura; il fatto è che non mi pare montanari sia entrato nel merito, nella sostanza, si è interessato di “effettistica”.
Si potrebbe per esempio fare un altro discorso oppure porsi delle domande, è quello che voglio fare.
Mi mancano 90 pagine per finire la seconda parte di <”Canti del caos”, di Moresco ho letto in ordine: “Canti del caos I”, “L’invasione, “Il vulcano”. Posto che sia un autore “totale”, è uno di quegli autori che scrivono sempre lo stesso libro?…forse sì
Ma veramente si crede in un “problema moresco”? credo la questione sia mal posta . problema per chi? Per cosa?
Moresco è un “mistico”, ed ora è in pienissima fase di “deriva mistica”. Tutto cio mi lascia pensare. Moresco è gia un autore di culto, dunque un “morto”, sta gia nel parnaso delle lettere, a suo modo.
Pero, bisognerebbe chiedersi: a questo punto che problema è/dà/fa, moresco?
Ammiro e apprezzo profondamente moresco; partendo da questa ammirazione mi chiedo: moresco vuole uccidere la letteratura, la scrittura, l’uomo o forse sta “aprendo”, è un punto fermo?
E’ indubbio che la “materia” moreschiana sia complessa e compressa allo stesso tempo, ragione per cui può essere compreso e goduto da pochi; i pochi potranno, a questo punto, verificarne la portata di capolavoro. Insomma moresco è la sua opera, l’opera d’arte è moresco, o no?
Altre domande: sarebbe interessante, molto interessante, sapere cosa pensasse/scrivesse/facesse moresco a 30 anni.
C’è una automortificazione sistematica nella sua opera. Non c’è relazione in moresco, tutto passa per le sue fauci, ingoia tutto, assorbe, vampirizza, poi lo vomita. L’automortificazione sistematica, il masochismo sono divenuti, anzi sono esplosi, ad un certo punto della sua vita, in “visione”
Faccio ancora l’avvocato del diavolo, non cvoglio in alcum modo maliziare, sia chiaro.
Puo la visione “fare danni” alla letteratura, in tal caso? Insomma, mi interrogo, per farla breve, sul ruolo della letteratura.
In moresco la scrittura parte come patologia, e si sistema in opera, puo essere? Appunto questo stato di dissociazione non potrebbe configurarsi come gioco “reazionario”?
Puo esserci l’auspicato rivoltamento dei gusti e delle classifiche, di cui parla la o’ connor?
Mi pare che talmente la corda sia tirata, forse perché “primigenia”, che non ci puo essere fruizione…si può abusare del talento, del genio? Ok, moresco se ne frega della fruizione, si potra dire
E se rispondessi che il “mondo”, così facendo, continuera a morire, e che lui forse ha salvato sì se stesso, ma ha avuto la tracotanza di gettare una immensa patata bollente autoriferita?
Mi pare, insomma, che leggendo moresco alla fine non si diano i mezzi perché possa aprirsi la voragine rivoluzionaria di cui sopra.
E se il grottesco moreschiano lo si potesse tacciare di millanteria? Manca in moresco la capacità di dare veramente la parola al mondo agli altri; moresco non empatizza, soffre per sé, ha l’egoismo di Dio?!
La sua è un’opera autoriferita, sgorgante automoreschità. Moresco è Dio.
E se cominciassimo a ridere a questo punto? E se moresco avesse la forza delle mode, continuando di questo passo?! Ogni personaggio è moresco. La sua, è poesia lirica sulla merda che, paradossalmente, rima con sentimentalismo; cosa altro è la esibita pornografia, se portata al punto di fusione, e di bianco massimo?
E’ grazia o sentimentalismo? Mi chiedo
Moresco vorrebbe rendere soli, ma in una maniera sbagliata, saltando molte tappe, ora si sta vendicando, compartecipa a questa opera di vendita del pianeta.
Faccio altre domande: poniamo che la “visione” moreschiana fosse “chiudente”, apocalittica, che cosa ce ne facciamo? è nell’iperuranio. È santità.
Ma il mondo di oggi ha bisogno di scrittori-santi? O forse ci vorrebbe una operatività massima, di questi tempi?
(a me piace carlo levi, ad esempio; altri tempi, altra temperie, d’accordo, però però…alla fine della sua vita scriveva quel “Quaderno a cancelli” che poi postumo apparirà, scriveva una “giustificata” opera “totale”. Levi ha lottato per sé e per gli altri, per chi lotterebbe ora moresco? Penso che alla fin fine sia messo lì davanti, inerme, compatito dal pubblico, inascoltato. Muore così il senso dell’essere scrittore, si perde l’azione che propria dovrebbe essere di ogni scrittore)
paradossalmente moresco è il senso di colpa inconscio della postmodernità.
Ho come l’impressione che non possa incidere, il mondo è tutto suo, gli altri, l’altro chi è?
Finisco. Sono pensieri buttati lì, cerco chiarimenti io stesso sul fenomeno Moresco, riflewtto sui “virus” che questa lettura potrebbe trasmettere.
Sopporto poco l’automortificazione sistematica che è di moresco, è la passività che porta all’estasi. Ma la gente muore di fame, di ingiustizie e via discorrendo, ad un certo punto della vita un autore, per quanto toccato dalla grazia o, dall’altra parte, da “derive mistiche”, deve sterzare verso il “veramente rilevante”: il mondo, gli altri, e non avere il “suo” mondo…come a dire: tutto è mio!
Le forze demoniache vanno risolte, almeno incanalate, dialettizzate.
Tutto questo per dire che moresco è sì il piu grande scritore italiano vivente, si può dire, ma non mi basta!
(a volte di tutto ciò che ho detto non ne sono sicuro, cerco altre opinioni, appunto; moresco ha la portata del capolavoro.
Ma non ne sono ancora convinto…:))
Io purtroppo non ho capito un cavolo dell’intervento di Angelo Rendo. Questo è l'”effetto di lettura” che registro, essendo purtroppo nient’altro che un “insegnante di scrittura/lettura”.
Come testo autonomo, rapsodico, di impossessamento platonico, generato dallo stimolo della lettura dei Canti del Caos, lo trovo interessantissimo, pieno di folgorazioni; che entri “nel merito” di farci capire se esiste o non esiste un problema Moresco, dovuto a una forbice aperta fra valore intrinseco e fruibilità diffusa, è cosa che mi lascia alquanto in dubbio.
Lo dico con il rispetto e l’attenzione che merita chi ha scritto queste parole, che è un vecchio (nel senso di anzianità!) frequentatore di NI.
Non ho letto nulla di Moresco, ma l’intervento di Montanari ha stimolato la mia curiosità. Ne avevo sentito parlare, di Moresco, ma poi le cose, i casi,i casini della vita… Ora leggo quest’intervento e scatta la famosa curiosità che uccise il gatto ma non me, almeno finora… Bene, il paragone con Cecil Taylor mi ha un pò “spaventato”, debbo ammetterlo. (Le mie orecchie lo ritengono inascoltabile). Ma lo spevento durerà poco. Andrò a leggere la “musica”, il free di Moresco, cercherò di andare avanti se Moresco mi emozionerà, se mi farà entrare nel suo mondo permettendomi di uscirne non troppo ammaccato.
Franz Krauspenhaar
Smentisco anche quest’ultimo “mio” intervento che offende persone e utilizza paralocce. Per quello che a questo punto può servire. Non è che me ne freghi più di tanto, comunque. Per fortuna ho usato un nick in questa triste tana di lupi. Addio.
“Non ho fatto altro, nella mia vita, che spingere agli estremi ciò che voi tutti non osate fare neanche a metà, stimando per giunta ragionevolezza la vostra vigliaccheria e con questo inganno consolandovi».
Con buona pace dei detrattori di Moresco..lui può parlare come un personaggio di Dostoevskij (e scusate se è poco).
La risibile strategia (?) di Adele Astarita di seminare zizzania e metterci uno contro l’altro fa tenerezza. Raul Montanari non è un nostro problema, ma una nostra gioia. Nostra, cioè anche sua di Raul: sì, perché Nazione Indiana non si divide in redattori e non-redattori. Lo siamo tutti, Raul Montanari compreso. Quindi non ha senso appellarsi ai “redattori”, contro questo o quell’altro. Gia’ che ci sono, ne approfitto per ringraziare di cuore chi contribuisce fattivamente a queste belle discussioni.
Cara Adele, scusa il mio piccolo oltranzismo, ma non riesco a capire qual è il post che smentisci. La tana di lupi ti ha dato e continua a darti ospitalità, quindi non esagererei. Io mica ti chiamo virus!
Però gradirei che si riflettesse su questo piccolissimo casino che è capitato qui dentro, senza lupi e virus. Solo focalizzandosi sul problema della copertura anonima. E’ evidentemente un’arma a doppio taglio. Scarpa aveva già messo in luce il problema tempo fa, se vi ricordate. Ora, io magari non sarei così netto come Tiziano, e mi potrebbero anche andare bene i post anonimi, i nickname, tutto quello che volete, se il contenuto dei messaggi fosse sensato. Constato però che se uno ha delle cose sensate da dire, è molto probabile che le dica firmandole col proprio nome. Non è così? Non vi pare che sia così? Non vi sembra che ci sia una correlazione fra l’assenza di argomenti e la lettera anonima? Ripeto, può essere solo una correlazione contingente, niente di più. Diciamo allora che io sto ancora aspettando il post anonimo che dica qualcosa. Non lo dico con sarcasmo: spero davvero che arrivi, prima o poi.
Ciao
Per Raul. Io comprendo il senso di soffocamente, di tutto pieno che comunica la lettura dell’ultimo Moresco (per me, fino a un certo punto, poi c’è quello che ho abbozzato come ‘salto quantico’). Il problema di un salto di specie irrappresentato sotto nonforma di salto di letteratura, secondo me, è proprio questo. Se io leggo la trilogia di Zanzotto, senza gli a capo tra verso e verso, mi chiedo, che sensazione provo? Di soffocamento. Eppure, a questo punto, dopo i secondi Canti, io ho l’impressione che Moresco vada più in là di Zanzotto, salti oltre Zanzotto. Forse qui un’esigenza che viene espressa dal testo di Moresco è quella di buttare via la gabbia critica, persino quella percettiva, e fare un salto quantico di lettura. Il critico Guido mazzoni, classe ’69, secondo me destinato a diventare uno dei migliori in Italia, mi diceva proprio questo l’altro giorno: bisogna che ci si metta a capire quale slittamento tra poesia e narrativa implica la forma-canto di Moresco. Lui è un kantiano, io no. Io parlo in termini di trascendimento di piano, lui di slittamento. Ma, credo, all’incirca leggiamo Moresco allo stesso modo…
Evidentemente qui c’è qualcosa di diverso nella partenza, visto che sull’arrivo siamo abbastanza d’accordo. La partenza, per me, è che trovo ossigeno e non soffocamento, libertà e non costrizione, nelle pagine di Antonio. Come mai?
Ringrazio Andrea per aver citato le parole che avevo scritto il 3.8.03, cosi’ non le sto a ripetere.
Ringrazio Raul Montanari per le idee che porta a questo blog, per la generosita’ con cui risponde ai commenti, per il suo mettersi nella discussione senza riserve e senza risparmio. Sono molto contenta che pubblichi qui dentro.
Chi vuole gli muova pure delle critiche(come ho fatto anch’io una volta per un suo pezzo), ma si prenda lo stesso rischio che corre lui e chiunque pubblichi qui dientro, firmandosi con il proprio nome.
Chi pubblica si espone alla possibililta’ del dissenso, anche duro. Tutto cio’ che scrive potra’ essere usato contro di lui. Perche’ dovremmo correrlo solo noi redattori questo rischio?
Un caro saluto
Carla Benedetti
Grazie a Carla e Tiziano, naturalmente.
Mi piacerebbe moltissimo dire a Adele che la sua scrittura è bella, è piena di intelligenza, e che a me dispiace che non abbia avuto voglia di dare un contributo diverso alle nostre discussioni. Se la tua antipatia per me risale al famoso pezzo sul sesso di quest’estate, Adele, non puoi aver dimenticato che di quel pezzo, o più esattamente delle reazioni di pelle che poteva aver suscitato in qualche lettrice o lettore, io mi ero scusato, cercando di spiegare con un discorso sui contenuti quello che avevo voluto dire senza offendere la suscettibilità di nessuno. Mi piacerebbe molto che restassi con noi, anche con un altro nome (fra gli “indiani”, io sono forse il meno sensibile alla questione dei nick; Andrea ha sempre detto cose intelligenti anche quando era semplicemente il quasi anonimo Andrea; il punto è di non usare il nick per entrare e uscire dall’ombra quando si assume un atteggiamento di punzecchiatura puramente distruttivo, è chiaro); ma forse questa ti sembrerebbe l’ennesima “furberia” da parte mia, perciò non ti faccio nessun appello. Se avrai voglia di usare la dialettica e l’acume, che mi pare tu abbia in abbondanza, per dare una mano a tutti a chiarirci le idee sui contenuti che ci stimolano, lo farai sicuramente senza bisogno di rispondere a un mio invito.
Giuseppe, sul modo di leggere Moresco secondo me siamo più o meno tutti d’accordo. Non a caso Angelo Rendo più che leggere ha scritto: si è sentito mosso dalla pagina di Moresco a una propria reazione di scrittura, non a un’interpretazione critica vera e propria. Sono tutti segnali di mobilitazione di fronte a una novità potente.
Rimangono le differenze individuali (vedi Dario) sulla questione che potremmo definire dell’abrasività di questa scrittura, e della conseguenza pratica di questa abrasività: lo sconcerto del lettore medio, anche del lettore colto e preparato. Anche di Pontiggia, insomma, che di questo gusto medio/colto era il perfetto interprete (come potrebbe essere ora un Magris, per capirci).
Naturalmente, visto che a questo problema non c’è rimedio perché sta insito nello statuto della scrittura di Moresco, si possono prendere costoro e buttarli nel cesso, o dirgli: fatti in là, che non capisci!
Però è un peccato.
E secondo me è un peccato anche dal punto di vista di Moresco, che non a caso ci racconta del suo stupore, del suo sentirsi ferito dall’incomprensione di Pontiggia. Moresco non si aspettava di non essere capito, amato da Pontiggia, non si aspettava di irritare il suo gusto di lettore; io credo, proprio perché conosco quasi quanto voi la dolcezza della persona di cui parliamo, accoppiata ma non uccisa dall’orgoglio e dalla “necessità” di seguire fino in fondo la propria matrice creativa, che Moresco vorrebbe essere letto da tutti, non dagli happy few.
generoso.
è l’aggettivo che mi viene in mente di fronte all’articolo e ai successivi contributi di Montanari. e, come lui, ho letto con piacere i commenti di Voltolini.
non sono un gran lettore (e putroppo neanche un lettore grande, per citare l’immortale pubblicità dei pennelli ginghiale) e non ho esperienza umanistica alle spalle.
seguire la propria curiosità, gli impulsi che arrivano all’improvviso per scegliere quanti/quali libri comprare/leggere: non so se sia un modo condivisibile per affrontare il mondo dei libri e l’impegno che loro mi chiedono, anzi esigono. perchè non solo del piacere di leggere si parla, ma ha la sua importanza, è chiaro.
provare ad affrontare un argomento con logica di esposizone e riflessioni (parlare del ruolo di scrittore e lettore per uno che scrive per vivere o vive per scrivere: bellissimo, inutile girarci attorno; parlare di suspense, di invasione, di free jazz, ricchezza di invenzione, visionarietà, rapidità e logica interna nello sviluppo delle metafore, ritmo del periodo), esponendosi agli altri, correre questo rischio, offrirsi nudi a noi in attesa. poi ci sono altre valutazioni, altre sensibilità che sono emerse, qui, come sempre.
poi, come può succedere, qualcuno rischia di perdere di vista un punto importante: leggere Moresco.
Grazie Raul
Lorenzo
Gentile signora Benedetti, mi perdoni, ma adesso che anche lei si mette a fare questa questione sterile sui nomi, devo proprio dirla una cosa. A me la faccenda di chiedere di declinare le generalità a chi scrive in un blog o dovunque sia, mi sa tanto di fascistiazione di un luogo, o quantomeno di sottomissione a controllo poliziesco. Declinare le genralità io lascerei che lo facciano i poliziotti, che cosa me ne frega del “chi è” di un discorso, se quel discorso mi convince? Io capisco la sua intenzione di esprimere la solidarietà a Montanari, ma non caschi anche lei nella logica fascistoide che pure tanto sembra vituperare. i sa tanto di minatorio questo chiedere a chi parla di lasciare il suo indirizzo. Un conto è criticare gli autori dei blog e tutti i giochetti legati alla creazione di false identità, un conto è delegittimare chi parla in un forum solo perché non si firma, e magari, anche senza pensarci, o per semplice timidezza, o per paura, si firma con un nick. Non crede che il problema non è il nome, bensì la sostanza di quello che uno dice?
‘fascistizzazione’, volevo dire
Scusa F. Deterio, per evitare equivoci, una volta ho postato il mio nome e indirizzo, ma solo per convincere un nick anonimo (poi si firmò) che per me non era un problema far conoscere la mia identità. Ma nessuno della redazione di NI si è mai sognato di chiedere nome e indirizzo. C’è stato un articolo della Benedetti di critica dell’uso di nick anonimi nei blog. In sintesi quello che intendeva dire (mi rendo conto che ho iniziato la frase in modo rischioso) era: siete certi che questa presunta libertà della rete, legata all’anonimato, non sia una tecnica per chiudervi in un recinto di voci irrilevanti, per togliervi la libertà in modo raffinato. All’inizio me l’ero presa per questo attacco ai nick name, poi vedendo come procedeva NI ho cambiato idea, cioè ho pensato che ci fosse una buona fede in quella critica. Il problema è che il lavoro della Benedetti è abbastanza anomalo, non è soltanto critica letteraria, sembra più un’erede di Foucault per l’impegno nel mettere a nudo meccanismi del potere. I giudizi estetici sono abbastanza rari, le ricostruzioni dei fatti prevalgono. Ma sono fatti che hanno rilievo per capire che opera si ha per le mani. A me sta bene questo lavoro, chiedo a un critico soprattutto di farmi avere un’immagine chiara di un’opera d’arte, gli elementi di fatto aiutano a vederla, come se una fotografia fosse sviluppata meglio. Quello che finalmente vedo, potrò decidere autonomamente se ha valore o no. Ma anche far conoscere è importante, Kentridge non sapevo chi fosse. A volte serve anche buttare lì un nome, far nascere una curiosità.
Comunque in “Patrie impure” (rizzoli 2003) c’è un intervento della Benedetti che fa capire bene che tipo di lavoro fa.
Caro Andrea,
adesso dico una cosa molto ingenua, che si potrà anche usare contro di me. Però è la verità. Leggere i tuoi commenti mi rallegra, mi fa venire voglia di dedicarmi di più a Nazione Indiana(e non solo, credimi, perché hai cercato di spiegare quello che volevo dire). Kentridge è un artista sudafricano, nato nel 1955 a Johannesburg, mi aveva colpito molto la prima volta che ho visto le sue ‘ombre, senza nemmeno sapere cosa fossero e di chi fosse, sulle scale del PS1 di New York. Sei andato a vedere su Internet qualche sua opera? Che impressione ti ha fatto? Le sue opere sono narrative,nel senso che con quei disegni realizza dei film di animazione.
Caro F.Deterio, grazie per l’intervento in questa colonna di commenti. Vorrei solo risponderle, pacatamente e con la massima gentilezza, che – almeno per quello che mi riguarda – non esiste affatto una delegittimazione di chi si firma cl nickname. Io penso che sia importante quallo che uno dice, naturalmente. Altri hanno opinioni diverse dalle mie, sebbene credo che a nessuno venga in mente di farne ua questione di legittimità. Io mi limito però a constatare il caos che questo uso porta con sé. Ma soprattutto devo essere netto e rilevare che dietro al nick può benissimo esserci una persona timida ecc, ma sovente grazie proprio allo scudo e al paravento del nick, la persona che ne fa uso si permette di spararla più grossa di quanto farebbe in una conversazione meno schermata.
Detto questo, mi permetto – non la prenda come una censura: non vuole né può esserlo – di contestarle questa locuzione, “logica fascistoide”, che lei riferisce a qualcosa che riguarda qualcuno di noi. Bene, lei è libero di usare le locuzioni che crede. Io però vorrei che lei provasse magari anche un po’ di vergogna, a farlo.
In questo momento sono sintonizzato su radiotre :-)
Non provo vergogna, perché le frasi che uso non le uso a caso. La “logica” da regime è la stessa di chi chiede le generalità in un forum a una voce che si sta esprimendo, perché l’idea amministrativa della voce è un’idea vecchia quanto il potere: chi parla deve essere controllato, perché al momento opportuno deve “pagare” (questa è l’idea amministrativa). Tutto ciò Carla Benedetti e il signor Andrea, che cita Foucault, dovrebbero saperlo bene. Nelle “Parole e le cose” (se non erro), nell’introduzione, proprio Foucault parla della necessità di fare a meno delle carte d’identità, quando si scrive o si “parla” in genere. I documenti di riconoscimento, dice, son roba per l’anagrafe, e cioè per le amministrazioni. Analogamente, io non vedo assolutamente la necessità della carta d’identità quando si sta facendo un discorso serio. Certo, se interviene uno che dice stronzate, come si fa? Semplice: non lo si calcola, se ci teniamo davvero alla discussione seria. Altrimenti vuol dire che anche a noi interessa, in fondo, più il casino che la discussione seria. Il discorso sui blogger della Benedetti era chiaro anche a me, l’ho capito benissimo. Mi risulta molto più oscuro, invece, il motivo per cui Carla Benedetti interviene qui dentro, cioè nei COMMENTI, dopo mesi e mesi, solo per porre una questione di “declinazione delle generalità”. Pare che predichi in un modo e razzoli in un altro. O tutto quello che si è commentato fin qui, in decine e decine di post, non le interessava, oppure… non so.
Caro F.Deterio, ma è proprio perché lei NON usa le parole a caso che io mi sono indignato. Non me la prendo certo con i refusi! Trovo che una cosa è dire la propria, un’altra è tirare subito in ballo la contumelia “fascista!”. Può capitare che uno non la prenda poi così leggera, una cosa simile. Poi è facile arrivarsene con i Foucault e tutti gli altri a pezza d’appoggio. Cosa si vuole ottenere? Una serqua di risposte colte come: “per Barthes il fascismo non è impedire di dire, ma costringere a dire”?
Facciamo sfoggio di citazioni? E come pensiamo di cancellare la prima mossa, quella con cui si è dato del “fascista” come se fossimo nel più squallido dei bar? Prima il rutto e poi l’endecasillabo?
Non mi convince.
A me non mi convince lei, Voltolini, che evita puntualmente le questioni che le vengono sottoposte, ma che io non voglio far l’errore che hanno fatto gli altri di replicare all’infinito. Anche per quieto vivere.
Rispondo a Carla Benedetti. Mi piace molto la strada che ha scelto Kentridge di produrre immagini semplici. Voglio dire se guardiamo Bacon o Burri o Tiziano, a nessuno verrebbe in mente che quei quadri si possono in qualche modo copiare. Un quadro astratto di Burri per esempio fa pensare a qualche divinità che gli ha permesso di combinare i colori in modo assolutamente perfetto. Kentridge non suscita tanta meraviglia. Ci sono fumettisti che hanno uno stile simile al suo. Viene da sentirlo vicino, un po’ come si sente più vicino il rock rispetto alla musica classica. Ma quello che riesce a realizzare con quello stile colpisce bene, così come funzionano i quadri di Pettibon che sono disegni a china come li potrebbe fare un fumettista degli anni ’50, accoppiati a didascalie, o come funzionano le canzoni di Dylan. Da un’intervista su: http://www.undo.net/Pinto/gene4/kentridge.htm si capisce molto sul suo lavoro. Poi espone tutto in modo chiarissimo, senza teorie idiote, o intenzioni-significato, tipo quelli che mettono un oggetto da qualche parte e pretendono che questo abbia una efficacia performativa. Il suo lavoro parte dalla memoria della sua infanzia e dalla storia del suo paese. Realizza dei film di animazione con un procedimento strano, disegna, fotografa, modifica il disegno, fotografa e così via, per cortometraggi dai 4 ai 9 minuti. E’ pazzesco pensare che distrugga i disegni precedenti per realizzare l’animazione. Eppure se ci si pensa quante installazioni vengono create appositamente per una mostra e poi sono distrutte. E un’altra cosa, dietro quelle opere c’è una soggettività, mentre dietro la transavanguardia, per citare una corrente che ha fatto del nomadismo dello stile una bandiera, nonostante il manifesto di Bonito Oliva, di soggettività se ne sente poca, mentre c’è una sapienza estrema nel citare/copiare/riutilizzare (naturalmente se uno cita/copia/riutilizza difficilmente mette la sua soggettività in gioco). Comunque nell’intervista Kentridge spiega tutto, vale la pena leggerla.
Caro F. Deterio, siccome non è la prima volta che mi si dice che evito le questioni che mi vengono sottoposte, vorrà dire che qualcosa di vero c’è. Cercherò quindi di correggere il mio atteggiamento.
Quello che io penso dei nomignoli finti e delle generalità vere è presto detto: ognuno fa quello che gli pare. Dopodiché ci sono delle conseguenze. Preferisco in generale chi parla a proprio nome rispetto a chi si fa scudo dieto a un nome finto, che per me equivale all’anonimato. Dopodiché andiamo a guardare quello che uno dice, perché è lì la cosa importante. D’accordo, ma non è del tutto indifferente se una cosa importante la dice uno che si firma o uno che non lo fa. Se io dico “Mi chiamo Dario”, dico una cosa vera se sono Dario, falsa se non sono Dario. Ma a parte questi sofismi, e a parte anche il caos che può – si è visto – generarsi dall’uso dei nomi finti, vorrei dire una cosa. Lei taccia chi chiede di sapere con chi sta parlando di autoritarismo e di atteggiamento da controllore. Ma io posso dire altrettanto male di chi non si firma o resta anonimo. La lettera anonima di delazione, per esempio, le pare una bella cosa? Lei dice che uno può non firmarsi per timidezza, ma io dico che può farlo anche per spargere veleni. Non è così?
Queste sono le mie perplessità. Mi rendo conto che sono banali e povere, ma un discorso più netto su questi temi l’ha fatto scarpa tempo fa, qui su N.I.
Quanto a Carla Benedetti, ci risiamo: uno non può assentarsi e poi riprendere la parola al suo ritorno? Ma mi spieghi perché!
Comunque apprezzo il suo desiderio di non tirarla all’infinito. Spero di averle risposto almeno un po’. Se restiamo nell’ambito della discussione ragionata, sarò lieto di sforzarmi ancora insieme a lei per arrivare da qualche parte. Ma per favore, cerchiamo di evitare i “fascismi” e altre parole più roboanti che pertinenti. Io mi impegno a … impegnarmi.
Cordialmente
Dario Voltolini
Ringrazio tutti quelli che sono intervenuti sul mio lavoro di scrittore, anche se sono un po’ imbarazzato perché sarebbe meglio parlare il meno possibile l’uno dell’altro all’interno del sito e perché non vorrei che questo argomento togliesse tempo e spazio per altre cose in Nazione Indiana.
Raul mi chiede di raccontare come vivo la mia scrittura. Poco fa, sinceramente, ci ho provato, ma poi ho cancellato le poche righe che avevo scritto, perché mi sembravano nello stesso tempo troppo intime e troppo astratte. Mi riesce difficile esprimere, in modo separato, qualcosa di sensato a questo proposito.
Quanto agli aspetti più generali, ho cercato di dire come la penso in quella nota che ho buttato giù questa estate mentre ero a Leuca e che poi è uscita in Nazione Indiana. Mi piacerebbe che si potesse parlarne, non solo nella forma ambigua e sfuggente della rete, ma faccia a faccia. Magari (la butto lì) che Nazione Indiana organizzasse un incontro tra scrittori in carne e ossa, nei prossimi mesi, per parlare e confrontarci sui problemi che ho cercato di sollevare e su altri ancora che potranno via via emergere. Anzi, non solo tra scrittori ma anche tra persone che -qualunque cosa facciano- stanno come noi dentro questo sbrego che mi pare si stia cominciando ad aprire e ad allargare sempre più in questi anni. Perché ci sono anche molte divisioni artificiali e funzionali da sbaragliare ed è venuto il momento di raccogliere tutte le forze e le libertà e le irriducibilità e di farle tracimare. Forse Nazione Indiana, nel suo piccolo, può fare la sua parte e dare un contributo reale perché questo avvenga.
La proposta di Antonio mi pare ottima, sarebbe davvero imorante se riuscissimo a realizzarla.
Io in questo momento non sono in Italia, tornerò tra due mesi. E queta è anche la ragione per cui ho scritto di meno su Nazione Indiana in questo periodo.
Quanto ai nicknames e all’identità vorrei precisare una cosa. Non ha molto senso discutere in astratto se è giusto firmarsi o non firmarsi. Ci sono contesti in cui è giusto mantenere l’incognito, per difesa, pudore o altro. Ci sono contesti in cui l’anonimato è condizione di libertà. Questo è ovvio.E mi are anche ovvio che ci sono dei forum di discussione in cui la firma non ha alcuna importanza. Ma se non ha importanza è perché è così per TUTTI I PARTECIPANTI. Qui invece, nei commenti di questo sito, succede qualcosa di molto diverso. Da un lato ci sono persone con un’identità (es. Raul Montanari), di cui puoi sapere molte cose (cosa fanno nella vita, cosa scrivono, cosa pubblicano, come si guadagnano da vivere, a quale giornale collaborano, cosa pensano del capo del governo ecc.) e a cui perciò potrai sempre rinfacciare di aver sparato una cazzata, di essere stato incoerente ecc. Dall’altro ci sono persone anonime (Adele)che accusano le persone con un’identità di aver sparato cazzate, di essere state incoerentei ecc. A Adele non importa di far sapere chi è. Però le importa moltissimo di sapere che è Montanari che firma certi pezzi. Insomma nessuno sa chi è Adele, ma Adele sa chi è Montanari, ed è proprio per questo che lo attacca. Chiamare questo diritto all’anonimato è solo ipocrisia.
d’accordo, sia con dario che con carla (scusate se vi chiamo per nome, io mi chiamo francesco), ma ho ancora qualcosa da dire.
a dario. è ovvio che uno può anche non firmarsi per spargere veleno, ma in alcuni casi io non vedevo veleni, bensì solo argomenti di disaccordo, che, invece che essere approfonditi, sono stati subito ridotti a questioni di indentificazioni e generalità. voglio dire che non bisogna stare troppo sulle proprie, e non perdere mai la calma. tu, dario, ad esempio, sei un eccellente esempio di questo atteggiamento calmo e disteso, anche se alle volte svicoli troppo, ma questa è un’altra storia. quando ho parlato di “fascismo” ne ho parlato per dare immediatamente il senso di quello che volevo dire, ma naturalmente non mi sogno di appiopparvi simili definizioni, altrimenti non sarei qui. la mia iperbole, in soldoni, voleva solo indicare che a me qualcosa ancora sfugge di questa faccenda internettiana della comunicazione-incomunicazione: io mica capisco ancora bene se l’anonimato, alla fine, giova o meno ai “discorsi”, così come non capisco bene se vengono prima i “discorsi” o i nomi, le parole o le cose, etc. carla si sforza e si è sforzata molto in questa direzione, ma io credo che anche a lei qualcosa ancora sfugga. per quanto mi riguarda, aspetterò, non so, prima o poi mi si schiariranno le idee. però questa è una cosa importante, non credete, se davvero vi interessa la microfisica del potere.
a carla quindi vorrei solo far notare che, considerati i toni usati spesso da montanari nell’approccio con molti utenti (non anonimi!) di questo sito, forse è comprensibile l’anonimato di adele. uno che chiama “ignoranti” i suoi interlocutori e usa metafore oscene a pie’ sospinto, non mi sembra incoraggi molto la declinazione delle generalità, non ti pare? certo, è una logica terroristica, difensiva-aggressiva, quella di adele, ma non credi che in qualche modo sia stato lo stesso montanari a innescare un meccanismo del genere?
senza nulla togliere a moresco, ma mi pare che la proposta dell’incontro sia stata già fatta da altri prima di lui. il problema non è l’incontro, ma le modalità in cui svolgerlo, secondo me. replicando quelle di queste discussioni, sinceramente, se me lo dite prima, me ne resto a casa. bisogna pensare una forma particolare, in cui non ci siano esibizioni e, soprattutto, che tutti siano messi in condizione di esprimere liberamente le proprie idee. solo così si arriva a vasocomunicare o comunicare.
Secondo me la letteratura è una cosa talmente importante che non si può nemmeno pensare che il primo dovere non sia arrivare alla gente.
Penso che Carla Benedetti nel suo ultimo post abbia ragione da vendere. Faccio una piccola proposta da ultimo arrivato (questo blog mi è stato segnalato da Raul e devo dire che mi piace molto):perchè non elimninare i nicknames, e firmarci con i nostri nomi, dunque? Tutti quanti, redattori e non? Altrimenti che vero scambio di idee è? E’ come se io, lettore che si firma, stessi parlando, in un ipotetico faccia a faccia, con un interlocutore mascherato. Redattore o lettore che sia.
Franz
Ok. Non mettevo nome e cognome più che altro per non sembrare esibizionista. Uhm, comunque per alcuni il nome è nella mail.
OK!
Grazie per aver aderito alla mia piccola proposta.
Mi scuso e mi riscuso anticipatamente per il lenzuolone!
Trovo sia molto onesto ciò che si sta facendo – anche se alcuni potrebbero pensare che si stiano a lavare i panni sporchi davanti a tutti; che c’è di male poi?! È naturale, è ciò che moresco fa , ad esempio, quando scrive, cioè svela, mostra le cose per quelle che sono – si creano i presupposti per una fruizione totale dei pensieri, del sentire( che è di tutti, non solo di alcuni!). gli incontri è giusto che ci siano, vengono, verranno; per ora il mezzo è un altro, e non è detto che sia ambiguo o fuorviante. L’atmosfera è più informale, serena, anzi. Non deve essserci separatezza.
Queste non sono rese dei conti, piuttosto dialogo, apertura. Si parla alla luce del sole, no?questo sta avvenendo…
Ci si interroga sul ruolo della scrittura, sul senso della letteratura, e parlare di Moresco è solo un pretesto per parlare di tutto gli altri, di come la vedono gli altri.
Montanari sta iniziando, per esempio, a svelare ora ciò che non ha scritto prima ne “Il problema Moresco”, e cioè chiede e si interroga sulla fruizione di un certo tipo di scrittura, sull’interesse che puo destare, quanto puo incidere e se puo incidere nelle coscienze. Mi pare questo sia il suo intento.
Montanari è l’unico che sta aprendo, e si sta aprendo, qua dentro, ed è da apprezzare; voltolini nicchia, si limita a parlare di abrasività(dica ciò ad un lettore medio: come dire: mi avvicino al fuoco senza tuta d’amianto e mi brucio tutto); scarpa dice che segue e ringrazia gli intervenuti; genna legge legge e legge, sentenzia e pontifica, e poi mi scrive delle recensioni(?!) inutili( cfr. quella sull’ultimo romanzo di scarpa nel suo(di genna) blog http://www.miserabili.com ),sputi filamentosi di cammello, pappette avariate, lesive dell’opera di uno scrittore, in tal caso; la benedetti sorveglia.
Inglese, dimenticavo, inglese ha voglia di verificare, di aprirsi, il suo pezzo è sintomatico e molto interessante.
È meglio dirsele, le cose, piuttosto che giocare di sottigliezze o, peggio, malignare.
(Ancora, sotto: prendete tutto quel che segue, come sempre, col beneficio del dubbio, che mi anima)
La “visione”, ogni tipo di visione, diventa reazione, fa il gioco del potere, anche se- c’è da dire- opera/scava lentamente nell’inconscio, si infiltra, la sua azione è lenta, allegorica. Moresco, per esempio, lo si vede dall’accoglienza che riceve, è gia ben bene neutralizzato, normalizzato, mi pare, credo, e dico questo ricollegandomi a ciò che scrive montanari sulla ricezione/incidenza di una scrittura tale. Moresco va amato, letto, questo sì, poi bisogna “distanziarlo”, disinnescarlo, e proseguire. E per fare questo la lettura deve essere omeopatica.
mi chiedo: ma è possibile che oggi non si possa scrivere e testimoniare del “veramente rilevante”?
in questi giorni mi è capitato di leggere un invito di Zavattini agli scrittori italiani, riportato su “Il Rinnovamento d’Italia”, 4 agosto 1952. Un documento vibrante, appassionato, giusto. Freschissimo, semplice semplice.
Roba datatissima, non c’entra un cazzo, mi si dirà, ma mi piace parlarne lo stesso perché mi ha dato forza e coraggio.
Questo invito era stato letto 5 anni prima in una conferenza alla Casa della Cultura, zavattini proponeva un bollettino degli scrittori, li chiamava a compilare un bollettino dii notizie e di denunce sulla miseria nazionale. “Bollettino” o “Bollettino degli scrittori” voleva intitolarlo.
Scrive Zavattini: “ Che cosa scriverebbero gli scrittori italiani in questo bollettino? Non di certo, novelle, poesie, saggi: scriverebbero ciò che hanno visto e udito sulle condizioni di vita del popolo italiano. […]
In questo “diario d’Italia” non si dovrebbero trovare commenti, si dovrebbero trovare soltanto fatti e nomi[…] Importa che i fatti testimoniati dagli scrittori abbiano una larga eco[…] Sarebbe bello che gli scrittori italiani si unissero in una milizia tanto costante e presente.[…]io credo dunque che con un libro, lo scrittore non abbia pagato il suo debito verso la società. Troppi <asseriscono che il libro non è soltanto un momento dello spirito, ma IL momento.[…] Nella mia ignoranza è apparsa spesso l’idea che saremo migliori solo quando non avremo piu bisogno di scrivere, ma la nostra partecipazione alla vita sarà così aperta-ad angolo piatto- che l’essere e il raccontare si susseguiranno come il baleno al tuono, anzi si identificheranno.[…] “Ma io ho messo nelle mie pagine – dice lo scrittore che vuole eludere l’immediato- ho messo nelle mie pagine il dolore del mondo” Uno scritto r mi disse così, una volta che gli chiesi mille lire. Io insistetti. Egli continuò a dire di no. Mi parlò dei suoi romanzi e che sentiva di aver dato al suo prossimo piu di mille lire. Mi citò dei passi di alcuni dei suoi saggi, dove non c’era il dolore del mondo ma c’era davvero la comprensione di molti problemi che assillano lo spirito moderno. D’accordo, gli dissi; tuttavia dammi le mille lire. Finì con l’indignarsi, trovò addirittura deamicisiana la mia polemica e disse che le vie per aiutare gli uomini sono infinite.[…] dirò che quei suoi libri, per quanto bellissimi, non mi farebbero mai esprimere parole di ammirazione per il loro autore se questo aautore non avesse coscienza della destinazione sociale di quei libri. […]
A me sembra che l’essenza della vita moderna sia quella dell’immediatezza, cioè della necessità di comunicare agli altri quello che si ha, quello che si è, nel più breve tempo possibile[…]…voglio giovare agli uomini che ho davanti…[…]
Ciò che vedo oggi di ingiusto ha bisogno del mio grido immediato che dice: è ingiusto. Se il grido è fermato sulla carta o sul marmo o sulla tela, cio non è importante quanto il fatto che io l’abbia detto e divulgato. Come si inserirà nella storia o in una delle tante storie possibili questo grido coevo alle emozioni che io ho fatto prorompere, questo grido grezzo, vorrei dire, non importa o meglio io non lo so. Sento che non puo che contribuire per il meglio al disegno delle forme della vita.[…]
Non bisogna aver paura. Bisogna perfino essere crudeli in mezzo a una civiltà il cui sforzo maggiore è quello di allontanare la coscienza della verità.[…]
Se il bollettino sarà monotono non faremo niente per farlo diventare meno monotono. Capiremo noi per primi, e capiranno tuttti gli altri, che non ci sarà che un modo per farlo diventare meno monotono:trasformare la società.[…]
Il compito del bollettino sarebbe quello di rendere palese, costante, direi ossessiva, certa realtà.[…]Parliamoci francamente, noi scrittori teniamo il piede in due scarpe. Abbiamo tutti i difetti dei borghesi, la vanità, l’orgoglio, la superbia, la difesa di noi stessi fino alla spasimo, soprattutto il facile oblio delle numerose ingiustizie che vediamo e di cui ci ricordiamo solo nell’attimo cosiddetto creativo.[…] ci spogliamo sulla pagina, e così la nostra coscienza si placa. Noi sappiamo che proprio lentamente quei nostri avvertimenti entreranno nel patrimonio del tempo, tuttavia ce ne accontentiamo sfuggendo quell’altra battaglia.[…]
Io credevo che la novità spirituale degli italiani potesse consistere in questo dopoguerra nel considerare ad gni costo il problema dei poveri, degli infelici. Ma noi abbiamo una troppo soave pietà di noi stessi come se ci guardassimo essendo ancora bambini.[…]
Il bollettino potrebbe essere principalmente proprio una liberazione dalle favole, e il nostro più vero documento di un principio di solidarietà”.
Una considerazione preliminare che gronda invidia e (non più muta) ammirazione per i lettori di NI: come fate a leggere i pezzi (mediamente lunghi, forse anche troppo lunghi per stare in un blog – sempre che NI sia SOLO un blog), capirli, meditarli, lasciarli decantare…e poi scriverci su, e tenere sotto controllo la colonna dei commenti, e leggere gli interventi degli altri, e rispondere… io, che sono impegnato – credo – né più né meno della maggior parte delle persone normalmente e accettabilmente impegnate, mi son dovuto prendere mezza mattinata per leggermi tutto con un minimo di attenzione…
Comunque.
Ho letto l’articolo di Montanari qualche giorno fa, e ho pensato subito che Raul aveva scritto un testo pressoché definitivo su Moresco (meglio, e con più understatement: sul modo in cui è oggi possibile – forse doveroso – leggere Moresco, le cose che scrive. Cioè, le cose che scrive in questa FASE della sua scrittura, della sua..lo dico?…poetica. Ecco, l’ho detto. Perché – e qui non c’è mica bisogno di raffinati strumenti critici per capirlo, basta aprire a caso, dopo averli messi in successione su una superficie, Gli esordi, Canti 1 e Canti 2, e leggerne qualche pagina – Moresco scrive e pubblica SEMPRE testi diversi, differenti, metamorfici, che prendono le mosse da direttrici di fondo uniformi e coerenti ma che finiscono con l’esplodere e zampillare sulla pagina in parole e frasi e immagini e visioni mai uguali, mai avvitate intorno alle iniziali proposte letterarie e soprattutto mai riciclabili (Moresco – al di là delle considerazioni tutte opinabili e perciò tutte rispettabilissime sulla sua grandezza letteraria, sulle quali Raul ha, appunto, scritto parole definitive – penso sia, qui e ora, nelle Lettere patrie ed estere, l’autore più, riconoscibile, inattaccabile,inimitabile, protetto da un copyright intrinseco alla sua sintassi e da un bollino metallizzato Siae che brilla, in filigrana di scrittura, dietro ogni sua pagina).
Ma – come al solito, qualunque cosa faccia o dica o scriva da qualche tempo a questa parte -l’intervento di Raul mi ha colpito per l’imprevista (e certo involontaria!)stura che ha dato alla lunga colata di interventi/commenti (a volte) intelligenti, (a volte) grati e ammirati, (una volta) incredibilmente triviali e di bassissima lega umana, oltre che intellettuale. Continuano a restarmi in gran parte oscuri e incomprensibili i meccanismi sulla base dei quali due volte su tre che Raul scrive qualcosa si scatenano lunghe, tortuose e sostanzialmente cretine catene di post che esulano DEL TUTTO dai contenuti dei pezzi, per concentrarsi su questioni che vanno, nella maggior parte dei casi, a toccare aspetti della vita privata, del carattere e della personalità di Montanari (le persone di cui – si dice – (s)parla; le scopate che – beato lui – si fa; IL MODO IN CUI SI VESTE!!!…). Non è la prima volta che ritrovo Montanari nella veste di “imputato” in un forum (in altre occasioni, e non su NI, si erano lambiti i confini della degenerazione neuronale con veri e propri goduriosi gossip delatori – naturalmente falsi e ampiamente smentiti dallo stesso Montanari, e non fa niente che la smentita è una notizia data due volte -).
A volte mi chiedo cosa succeda nei forum dei siti di… Patrizia Pellegrino o Guido Bagatta (sempre che esistano, sia i forum che i titolari): sbaglio quando penso che i lettori di NI siano lettori colti, intelligenti, curiosi, capaci di smontare un pezzo o un’idea con considerazioni di merito solide, apprezzabili se non condivisibli?
A volte penso che gli autori di NI (che cerco sempre di leggere con puntualità, provando a stamparmi gli articoli o leggendoli off line) concedano un po’ troppo ai lettori: un Autore Autorizzato parla per bocca di quello che scrive (o filma, o musica, o dipinge) per la pubblicazione (parla anche con e-mail, sms, fax, segnali di fumo, codice Morse… e voce: ma in quel caso lo fa in quanto PERSONA, uomo o donna, rivolto ad altri uomini e donne coi quali intrattiene rapporti interpersonali che vanno al di là del rapporto Autore-Lettore. Il mezzo è il messaggio e pure i suoi destinatari…). Bisognerebbe “scontrarsi” solo con quello, in un confronto forse assai poco dialogico, ma certo più onesto, per l’autore e per il lettore.
A me fa sempre immensamente piacere pensare che, proprio come vorrebbe poter fare – e NON può, se non passando per il filtro di agenti, uffici stampa, segretarie…, un fan di Eros Ramazzotti – posso scrivere a Carla Benedetti, Dario Voltolini, Tiziano Scarpa (ma anche, che ne so, a Marco Drago sul forum del Maltese e a Tommaso Pincio sul suo sito), confrontarmi con loro, leggere (in privato o in pubblico forum)le loro risposte, replicare, aspettare eventuali loro obiezioni alla mia replica…ma a volte sospetto che qualcuno, questo, lo dia ormai per scontato, considerandolo un Diritto Imprescindibile Del Lettore (cosa che NON è, in realtà)col quale provare – come scrive Tiziano, e qui chiudo perché davvero mi sono allargato un po’ troppo – ad attuare “risibili strategie per seminare zizzania”.
Ciao a tutti, piero
au,
ma questo topic è bellissimo. non posso mancare. così posto una mail che avevo mandata a dario tempo fa.
Santo cielo Dario,
e deve essere veramente santo un cielo che tollera i miei pensieri.
Dunque, ho letto “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Ora, è sano chiarire subito che ho il cervello cementato da studi universitari che puntano a quanti più possibili e rapidi esami anadialogici (ecco, tutto ciò è una meschina e logica giustificazione per quanto dirò, che di logico invece…).
Mi è successo questo: mentre leggevo “Se una notte d’inverno”, la mia fragile mente, pronta a smottare in associazioni, subiva lampi che richiamavano non so se lo stile la poetica i personaggi, o chissà quale altra diavoleria, de “Gli esordi” e di “Canti del caos” di Antonio Moresco (hai sentito bene? Speriamo di no).
Credimi, nonostante abbia tentato di soffocarmi col cuscino, sopravvissuto, non sono riuscito ad annientare queste limbatiche idee che rinunciavo pure a capire coi brandelli di lucidità che mi erano rimasti. Ma visto che il nemico ormai si era impossessato di me decisi di analizzarlo.
All’inizio pensai che il personaggio dell’Editore in “Se una notte”, cioè il dottor Cavedagna, fosse da Moresco parodiato attraverso il Gatto de “Gli esordi” e di “Canti del caos”; e per me l’infinita grandezza di Moresco non faceva che crescere. Ma proseguendo nella lettura, la mia testa, ormai per conto suo, si diceva come fosse impossibile parodiare una parodia, infatti il dottor Cavedagna è già una parodia, e in un certo senso anzi pare l’anima buona del Gatto, cioè colui che, anziché cavalcare l’onda della frenesia editoriale, la subisce. Eccolo là: il ragionamento, che mi staccò in un sol colpo la testa dalle spalle, era fatto: avevo estratto intertestualità tra Calvino e Moresco.
Così, una volta che il cervello passeggiava per le vie eteree come un palloncino, si poteva continuare tronfiamente.
A me la metaletteratura non piace: “Se una notte d’inverno” mi è piaciuto, e molto; perché? E’ una gioiosa danza sul vuoto. Calvino sembra partire da una tremenda depressione che constata la limitatezza dell’arte, e di ciò che l’arte rispecchia: la vita. In “Se una notte” scrive diversi incipit facendo pastiche di generi diversi: gialli, western, nipponici, sentimentali, thriller, noir che sembrano scorrere sul libro come si dice scorra la vita davanti a colui che sta per morire. E Calvino proietta il loro scorrere con la leggerezza divina di chi muore sereno perché ha sofferto tanto. Ridendo, con un totale fastidioso controllo sull’opera, scrive un’opera sulla mancanza d’appigli e perdita di controllo. Perché mi è piaciuta allora quest’opera pulp, postmoderna e metaletteraria? (Non lo chiedere a me…), perché esattamente come in Moresco, si apre in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” una voragine di concretezza, un’utopia molto più reale del “Barone rampante” (che invece alla fine viene raffreddata dalla metafora metaletteraria). Senti qua da ‘Se una notte d’inverno”: ‘Era lei la vincitrice, era la sua lettura sempre incuriosita che riusciva a scoprirne verità nascoste nel falso più smaccato, e falsità senza attenuanti nelle parole che si pretendono più veritiere. Cosa restava al nostro illusionista? Pur di non spezzare l’ultimo filo che lo collegava a lei, egli continuava a seminare la confusione fra i titoli, i nomi degli autori, gli pseudonimi, le lingue, le traduzioni, le edizioni, le copertine, i frontespizi, i capitoli, gli inizi, i finali, perché lei fosse obbligata a riconoscere i segni della sua presenza, quel suo saluto senza speranza di risposta. ho capito i miei limiti – mi ha detto – nella lettura avviene qualcosa su cui non ho potere.’
Ecco qua, la letteratura è davvero un miracolo. Infatti, passiamo a Moresco. Moresco non concede nulla alla limitatezza della vita, Moresco, che pare avere un approccio all’esistenza più ritirato e rancoroso rispetto all’illuminato Calvino, la vita la crea nei romanzi, plasma la piattezza dell’esistenza e la fa sbalzare dalle pagine come un acido che corrode ogni pessimismo e avvolge ogni lettore costringendolo a esserci nel mondo. E’ pazzesco sono esattamente opposti. Calvino, malinconicamente maturo, colma lo spazio tra la vita e la morte, Moresco adolescenzialmente rivoluzionario pretende dalla vita tutto ciò che non gli dà. Però, e qui è il miracolo, così come Calvino fa incarnare dal centro della sua opera metaletteraria una forma di resistenza alla non vita, alla cieca disperazione: parlo della tenera e dolce Lettrice di “Se una notte”, la quale distingue, con parametri intimi, ciò che è falso da ciò che è sincero, che scevera l’inferno dal paradiso, nei libri e quindi nella vita. Moresco al centro del suo libro, libro che è fatto di creazione, anzi ri-creazione della realtà: che con giochi d’illusioni ci fa credere che tutto ciò che leggiamo è sogno, mentre è vita nuova vissuta. Al centro del suo libro, dico, fa incarnare dal sogno un sogno vero, una speranza, che, per un’unica volta nel libro, si esprime in termini realisti ed esprime un sogno, un’utopia: è il momento in cui il Narratore de “Gli esordi” sogna di stare con la donna che ama.
P.S.
ripensando a pensieri miei mentre leggevo canti del caos: in calvino qualsivoglia storia diventa metaletteratura, in moresco anche la metaletteratura diventa storia.
addio(?) dario
ale