Esperienza e narrazione: un tentativo
di giulio mozzi
Quello che segue è l’intervento che ho preparato per la serata padovana su Letteratura come verità: 2, Esperienza (lunedì 17 novembre, ore 21.30, Cinema Excelsior). Mi rendo conto che è vagolante e confuso, ma pazienza. E’, come al solito, un tentativo – un tentativo di tenere insieme qualche generalità e la mia esistenza. Nella stessa serata interverranno anche Romolo Bugaro (che leggerà qualche pagina dal suo romanzo Dalla parte del fuoco appena uscito per Rizzoli; Umberto Casadei che leggerà qualche pagina da Maltempo, un romanzo al quale sta lavorando da anni; Roberto Ferrucci che leggerà un capitolo, intitolato Respiro, da un romanzo in corso d’opera e ancora senza nome.
L’esperienza, la narrazione, le nude cose, l’invenzione
un tentativo di giulio mozzi
Buona sera.
Questa sera non vi leggerò un racconto o un brano di romanzo. Vi leggerò invece un testo nel quale cerco di dire qual è la relazione, secondo me, tra l’esperienza e la narrazione.
Di questo testo che sto iniziando a leggervi, non sono tanto sicuro. È venuto fuori un testo un po’ filosofico, e io non sono molto competente in filosofia. E poi ogni volta che provo a parlare di questa cosa, di esperienza e narrazione, finisco col dire delle cose un po’ diverse.
In somma: non sono in grado di offrirvi un pensiero perfettamente definito. Sono in grado, al massimo, di dirvi che tipo di pensieri si agitano nella mia mente.
Vado per punti, dicendo: «Uno, due, tre…», non perché il mio pensiero sia sistematico (ve ne accorgerete) ma perché inizio raccogliendo pensieri davvero molto sparsi.
Uno. Qualche giorno fa una mia giovane amica mi ha detto: «Vado a lavorare sei mesi in Africa».
«Perché?», le ho domandato.
«Per fare un’esperienza», mi ha risposto.
Due. Quindici giorni fa, qui, in questa sala, a Marco Franzoso è capitato un piccolo incidente. Cercava di aggiustarsi il leggio, che era troppo basso per lui, ma il tubo della parte superiore si è sfilato dal tubo della base, e lui è rimasto così, con in una mano il libro da quale voleva leggere e nell’altra la parte superiore del leggio.
Ha avuto un momento di imbarazzo.
Naturalmente, abbiamo messo a posto il leggio in due minuti. Ma per quei due minuti, Marco è stato in imbarazzo. Vabbè: lui è timido, gli succede. Ma questo piccolo imbarazzo mi ha fatto pensare.
Tre. Ho pensato che tutti noi siamo nel mondo. Ci viviamo. Facciamo continuamente esperienza del mondo. Ma tutti noi siamo, come si usa dire, uomini di mondo. Ossia: conosciamo il mondo. Sappiamo che cosa aspettarci dal mondo. Qualunque cosa accada nel mondo, ci trova preparati. Di qualunque cosa accada abbiamo, chiamiamola così, una precomprensione.
In altre parole: noi non facciamo mai esperienza del mondo. Facciamo esperienza, al massimo, della nostra precomprensione del mondo.
Allora, quattro: succede, raramente ma succede, che qualcosa accada e ci trovi impreparati. Qualcosa che non possiamo precomprendere, e nemmeno comprendere.
Pensate all’etimologia della parola «comprendere»: è un prendere-con, un portare-dentro di noi.
Ciò che comprendiamo, lo portiamo-dentro di noi.
Ciò che precomprendiamo, lo abbiamo già dentro di noi.
Marco, durante quel piccolo incidente, si è trovato in imbarazzo. Si potrebbe dire: si è trovato in una situazione che non poteva precomprendere, e quindi nemmeno comprendere. Una situazione da niente, sia chiaro: una sciocchezza. Eppure…
Cinque. Alla mia giovane amica ho domandato:
«Ma a che cosa ti serve, andare in Africa?».
«A niente», mi ha detto. «Ma così faccio un’esperienza. È da tanto che volevo fare un’esperienza importante».
Attenzione. La mia giovane amica ha detto: «Per fare una esperienza». Non ha detto: «Per fare esperienza».
Se si tratta di «fare esperienza», allora siamo tutti d’accordo. Si accetta un posto di lavoro non perfettamente consonante con le nostre aspettative, per «fare esperienza». Si accetta di essere sottopagati, per «fare esperienza». Magari ci si trasferisce a Milano, con tutti i rischi del caso, perché abbiamo un’occasione di «fare esperienza».
«Fare esperienza» non è imbarazzante. È, invece, consolidante. Di una persona diciamo: «Ha esperienza», per dire che se ne intende del mondo, che è capace di precomprendere quasi tutto quello che può capitargli.
L’esperto, colui che ha esperienza, è colui che non si stupisce mai e non è mai in imbarazzo.
Ma quando parliamo di «fare una esperienza», intendiamo un’altra cosa.
La mia giovane amica andrà in Africa per «fare una esperienza», ossia andrà in Africa allo scopo di trovarsi in una situazione che non è capace di precomprendere. Potremmo dire, e scusate se paragono una cosa così seria a una cosa così futile, che la mia giovane amica intende andarsi a cacciare di propria volontà in una situazione imbarazzante, come quella nella quale si è trovato, non di sua propria volontà, qui, quindici giorni fa, il povero Marco.
Tutti i miei auguri alla mia giovane amica.
Sei. Qualcuno si ricorderà, forse, di quel film con Benigni e Troisi che s’intitola Non ci resta che piangere. Un film che è tutt’altro che un capolavoro: la storia bislacca di due giovanotti che all’improvviso, per caso e senza ragione, vagando nelle campagne vicino a Firenze, si trovano trasportati nel tempo: fino al millequattro, quasi millecinque. Lì, ovviamente, si sentono un po’ fuori posto. Si sentono, e sono davvero, del tutto inadeguati.
A un certo punto i nostri due eroi, un po’ per guadagnare punti nella società del tempo e un po’ nel tentativo donchisciottesco di adeguare quel mondo arcaico a loro stessi — cioè di trasformare quel mondo in un mondo che loro possano precomprendere —, cercano di introdurre nel millequattro, quasi millecinque, le innovazioni tecnologiche del ventesimo secolo. Hanno la fortuna di incontrare Leonardo da Vinci. Cercano di spiegargli il treno, la lampadina, la lavatrice, perfino la scopa (il gioco di carte). Leonardo li ascolta attentissimo. Loro parlano, parlano, spiegano, spiegano, ma tragicamente mentre parlano e spiegano si rendono conto di non essere capaci di spiegare alcunché. In realtà, non sanno minimamente come funzionino il treno, la lampadina e la lavatrice; e anche con la scopa hanno dei problemi.
In somma: i nostri eroi scoprono che la loro precomprensione del mondo — del loro mondo, del mondo dal quale provengono, quello a noi contemporaneo — è tutt’altra cosa da una comprensione. Scoprono che del loro mondo, che credevano di avere compreso, ossia di conoscere, per filo e per segno, non sanno un accidente. Non sanno nemmeno come funziona una lampadina: la sanno usare, ma non sanno che cos’è.
Poi nel film succede questo: Leonardo ascolta e ascolta i nostri eroi, crollando il capo come difronte a due cretini. Ma in una delle scene finali, compaiono dei binari; e sui binari arriva, a bordo di una locomotiva a vapore rombante e sbuffante, un Leonardo entusiasta e felicissimo.
Lui sì, Leonardo, è capace di comprendere.
Be’: spero proprio che la mia giovane amica, laggiù in Africa, non si comporterà come i due eroi del film. Direi che non mi sembra proprio il tipo.
Se pensate che stia divagando, avete ragione. D’altra parte, non so bene come affrontare la faccenda. E allora ci giro intorno.
Sette. Se io ora cominciassi a urlare come un disperato, mi spogliassi nudo, tirassi fuori dallo zaino un coltellaccio e cominciassi a infierire su me stesso, probabilmente voi entrereste in imbarazzo. Non avreste una precomprensione disponibile, per questa cosa.
Ma se domandaste: «Che cosa sta succedendo?», e qualcuno vi rispondesse: «È un artista contemporaneo, sta facendo una performance», voi direste: «Ah, sì, vabbè: è un artista contemporaneo, sta facendo una performance». Magari direste anche: «Che schifo», oppure: «Per me è fuori di testa», oppure: «Non c’è più religione». Ma, comunque, avreste una precomprensione disponibile.
Avere una precomprensione significa, tra le altre cose, non avere bisogno di capire.
Allora, otto, adesso entro dentro la questione.
Dico che noi facciamo un’esperienza quando, per un motivo o per l’altro, ci troviamo sbalzati fuori dal mondo, e gettati in mezzo alle nude cose.
Il mondo è ordinato. Il mondo è precompreso. Il mondo ha senso. Il mondo ci dà soddisfazione. Il mondo è ciò che noi siamo.
Le cose sono un caos, non sono comprensibili, non offrono nessun senso, non danno soddisfazione. Le cose sono un altro.
Marco, qui, quindici giorni fa, per un momento è stato sbalzato fuori dal mondo, e gettato in mezzo alle nude cose.
Per lui, in quel momento, niente aveva più senso. Lui doveva leggere, era lì per quello, e non poteva farlo. Il leggio doveva stare ben fermo, e invece non stava. Il clima doveva essere raccolto, e invece c’era già chi ridacchiava (giustamente). Lui è una persona seria, e si sentiva esposto al ridicolo.
Ecco: in quell’istante, Marco ha fatto un’esperienza. Futile quanto volete, ma un’esperienza era.
Nove. Pensate al povero Giobbe. Amava il dio, lo adorava secondo tutte le regole prescritte, e viveva felice: circondato da persone che lo amavano, da figli che lo rispettavano, da greggi abbondanti, da campi rigogliosi e da servi fedeli.
Poi, un giorno, succede che il dio è lì che guarda il mondo, e contempla Giobbe tutto contento. Passa di là l’avversario, e il dio non resiste: «Guarda là Giobbe», dice il dio all’avversario, «guarda come mi adora, come mi è fedele».
«Sfido io», dice l’avversario. «L’hai ricoperto, come si dice, di ogni ben di dio».
Anche se la battuta è vecchia, a questo punto il dio ride.
«Làsciamelo un poco», insiste l’avversario, «méttilo nelle mie mani. E vediamo se poi ti adora ancora».
Il dio accetta la scommessa, e lascia Giobbe nelle mani dell’avversario.
L’avversario fa morire le mogli, i figli, le bestie, i servi di Giobbe; fa inaridire i suoi campi, crollare le sue case; fa venire a Giobbe ogni sorta di malattia schifosa. Non lo uccide perché evidentemente, per vedere se Giobbe continuerà o no ad adorare il dio, bisogna lasciarlo vivo.
Che cosa fa Giobbe? Da ricco che era, si ritrova a essere solo e nudo, ricoperto di croste; ormai abita in un letamaio, e l’unico suo bene è un pezzo di coccio con il quale si gratta le croste.
Allora Giobbe si volta in su, verso dove presume che abiti il dio, e comincia a protestare: «Perché mi hai fatto questo, tu, a me che ti ho sempre amato e adorato?».
Alcuni amici che la sanno lunga vanno a trovare Giobbe. Si siedono a rispettosa distanza da lui (lui puzza, è contagioso, eccetera) e cominciano a martellare: «Se il dio ti ha punito, vuol dire che hai peccato».
«No che non ho peccato!», urla Giobbe.
«Se non hai peccato tu, avranno peccato i tuoi padri, i tuoi figli, le tue mogli, le tue bestie, i suoi servi», dicono gli amici.
«Qua nessuno ha peccato!», urla Giobbe.
«Non può essere», dicono gli amici.
Ora: gli amici di Giobbe, sono dei difensori del mondo. Il problema sollevato da Giobbe — come possa un uomo che ama e adora correttamente il dio non esserne ricompensato — loro semplicemente lo negano. Se non vieni ricompensato, vuol dire che non hai amato e adorato correttamente il dio.
Ecco: Giobbe è stato sbalzato fuori dal mondo, e gettato in mezzo alle nude cose. I suoi amici negano: sei ancora nel mondo, dicono.
La storia finisce così: che a un certo punto il dio si stufa di sentire Giobbe che urla e strèpita e i suoi amici che dicono sciocchezze. Allora squarcia le nubi, e appare a Giobbe.
Giobbe dice: «Oh!».
E il dio dice: «Chi sei tu, per mettere in questione ciò che io ho fatto? Dov’eri tu, quando io creavo il cielo e la terra? Io sono il dio e faccio quello che voglio, perché sono il dio».
Giobbe dice: «Mi scusi».
Nota: il dio non dice: «Ho lasciata mano libera all’avversario». Il dio si prende in prima persona la responsabilità di ciò che è stato fatto a Giobbe. Se il dio può prendersi la responsabilità di ciò che ha fatto l’avversario e quindi, alla lettera, identificarsi con l’avversario, allora il mondo è insensato.
Seconda nota: se il dio dice che lui fa quello che vuole semplicemente perché lo vuole, quindi del tutto irresponsabilmente e senza sottostare nemmeno alle regole stabilite da lui stesso, allora il mondo è insensato.
Ossia: il dio dice a Giobbe che il mondo non esiste se non provvisoriamente, per finta; le nude cose esistono veramente, e lui è la nuda cosa più nuda cosa di tutte.
Avere che fare col dio, è pericoloso.
Il mondo esiste così per finta, che dopo questa sparata il dio — che non si capisce bene se, alla fin fine, abbia vinta o persa la sua scommessa con l’avversario — ripristina la condizione di Giobbe. Gli dà altri figli, altre mogli, altre bestie, altri servi, altri campi.
Giobbe è quindi di nuovo felice?
Provate a immaginare. Provate a immaginare che tutte le persone care vi siano sottratte e, dopo un po’, sostituite da altrettante persone care. Non vi sembreranno, queste nuove persone care, queste persone care sostitutive, dei semplici simulacri? Non sono persone finte? Non è forse un incubo, quello che il dio ha regalato a Giobbe per ricompensarlo della sua sostanziale fedeltà — o perché non rompesse più i coglioni?
Era uno dei peggiori sogni che facevo da bambino, questo: che mia madre morisse, e che venisse sostituita da un’altra mia madre, perfettamente uguale, ma non quella. Non una madre-mondo, ma una madre-cosa.
Dieci. Certo: ci sono esperienze, ossia uscite dal mondo, non così futili come quella capitata a Marco e non così terribili come quella capitata a Giobbe. La perdita. L’esclusione sociale. La povertà improvvisa. La violenza immotivata. Il fare male nel tentativo di fare bene. L’avere male da chi dovrebbe dare bene.
Nelle pagine che leggeranno Romolo, Roberto e Umberto, questa sera, troverete delle esperienze, cioè delle uscite dal mondo, anche brutali.
Undici. Che cosa facciamo, noi, quando ci troviamo sbalzati fuori dal mondo e gettati in mezzo alle nude cose? Facciamo il possibile per tornare nel mondo.
Possiamo, ad esempio, decidere di fare finta di niente: una bella rimozione, ed è come se niente fosse stato. Dimentichiamo.
Oppure possiamo razionalizzare: cerchiamo, nell’intrico di cause e conseguenze che è la nostra vita, di dimostrare che quelle nude cose non sono nude cose, ma sono mondo. È quello che tentano di fare i saputelli amici di Giobbe.
Oppure possiamo decidere, magari perché siamo stanchissimi e non ne possiamo più, di restare in mezzo alle cose: allora diventiamo matti. E così via.
Oppure possiamo decidere di accettare il nostro passaggio in mezzo alle cose, e ci mettiamo a costruire un altro mondo. Un altro mondo che, di quelle cose in mezzo alle quali siamo stati, conservi una memoria, una traccia, un sentore. Un altro mondo che non tenti né di includerle né di escluderle, ma che accetti la loro presenza: là, fuori.
Questa, beninteso, è una cosa che ha dell’impossibile.
Tentare di costruire un mondo che accetti la presenza delle cose, là fuori, è come tentare di concepire una totalità che sia una totalità (il mondo è una totalità), ma che abbia comunque qualcosa d’altro, là fuori.
È più o meno come tentare di pensare che esista il dio.
Dodici. E adesso comincio, finalmente, a parlare della narrazione. Che cosa fa la narrazione? Le narrazioni, si dice comunemente, costruiscono dei mondi. Che relazione c’è tra la narrazione e l’esperienza? La narrazione, dirò così, tenta appunto di costruire dei mondi che accettino la presenza delle cose, là fuori.
Addirittura: la narrazione è il tentativo di portare-dentro nel discorso l’esperienza delle nude cose, e/o addirittura di produrre un discorso che sia, per chi lo legge, un’esperienza.
Tredici. A questo punto parlo un momento dei poeti. Chi di voi legge poesia, sa che i poeti sono capaci di dare un brivido. È un effetto specifico della poesia: noi leggiamo, e improvvisamente abbiamo un brivido.
Che cosa succede, quando abbiamo il brivido? Succede che la poesia ci ha messi istantaneamente, cioè per un istante, in contatto con le nude cose. La poesia fa questo, di solito, almeno nel nostro tempo, per mezzo di quella cosa che, con una semplificazione brutale, chiamiamo: la metafora. La poesia giustappone due parole (una detta, l’altra non detta), e questa giustapposizione produce il brivido.
La parola detta, è mondo. La parola non detta, è cosa.
La poesia è sempre stata considerata un’attività più alta della prosa — anche oggi che non la legge nessuno — proprio perché ha il potere, per mezzo delle parole, di metterci istantaneamente a contatto con le nude cose. Meglio: di ammetterci istantaneamente alla presenza delle nude cose.
Quattordici. Ho letto tempo fa un libretto di Manlio Sgalambro che s’intitola La consolazione. Che cos’è la consolazione?, si domanda Sgalambro. E si risponde: la consolazione è un’attività di pure parole con la quale modifichiamo una situazione reale. Il mio amico ha persa la donna amata; io gli parlo, lo consolo; dopo, il mio amico è meno addolorato, è più vivo.
Strabiliante.
La parola può assopire il dolore più vivo.
Come fa?
Fa nel solito modo: il dolore è un sintomo, è il sintomo di un male che c’è, di una nuda cosa che è presente; questa nuda cosa, con la sua sola presenza, sia pure velata e nascosta dal dolore, fa sì che il mondo attorno a me si sfaldi, crolli, svanisca; l’amico che mi discorre, che parla, letteralmente mi ricuce addosso un mondo. Chirurgicamente taglia il filo che lega il dolore (il sintomo) al male (la cosa). Così io ho ancora dolore, ma non ho più il male. E col dolore è molto più facile cavarsela.
Questo è un esempio della potenza del discorso. Di un discorso che, ambivalentemente, ammette la presenza delle cose fabbricando un velo che ne nasconde la presenza, che nel nascondere la presenza delle cose ci permette di conservarne una memoria, una traccia, un sentore.
Quindici, cercando di arrivare a una qualche provvisoria conclusione. Io dico: la narrazione è un’attività di discorso che serve alla costruzione di mondi. E la relazione tra esperienza e narrazione è questa: la narrazione tenta di costruire mondi che ammettano, che accettino, la presenza delle nude cose, là fuori.
La narrazione, per così dire, include le nude cose senza includerle.
Ora: la narrazione è una lingua. La vicenda, la separazione degli amanti, le peripezie, i colpi di scena, le agnizioni: la narrazione ha la sua sintassi e il suo lessico, come una lingua. Articolare una narrazione è come articolare una lingua.
La narrazione, come la lingua, è ordinata, ha le sue regole. Appartiene al mondo. Narra il mondo avvolgendolo, ricoprendolo, esaurendolo. Occupa tutto il mondo e sta sempre dentro al mondo.
Allora io immagino una narrazione, che è nel mondo, che in un certo senso è il mondo stesso — che cos’è la precomprensione, se non un esercito di narrazioni sempre pronte a venire in mio soccorso? —, che da dentro il mondo, che per così dire da dentro sé stessa, si protenda fuori, fino a toccare le nude cose. E che poi rientri in sé, come si dice di chi è andato fuori di sé, portando di queste nude cose una memoria, una traccia, un sentore.
Io so di che cosa parlo.
Io, se non avessi fatto questo, se almeno una volta nella mia vita non fossi riuscito a farlo, sarei morto.
Sarei — semplicemente — morto.
Sedici. Ancora un esempio. Non so se qualcuno di voi usa farmaci omeopatici. Ma tutti voi sapete, immagino, che l’omeopatia usa farmaci disciolti nell’acqua in diluizioni e ri-diluizioni successive. Si arriva, a forza di diluire, ad avere un’acqua nella quale è arduo sostenere che la sostanza medicinale sia ancora presente.
Bene. Così. La narrazione, sono disposto a dirlo, ha una memoria delle nude cose in infinite diluizioni. È un’acqua dotata di memoria.
Diciassette. Credo che, oggi come oggi, il segno del tentativo della narrativa di portare una memoria delle nude cose stia nella lentezza.
Non so se ci avete fatto caso: sempre più, nelle narrazioni contemporanee, in quelle che ci lasciano il segno, avvengono rallentamenti quasi insopportabili.
I pezzi che Romolo, Roberto e Umberto leggeranno tra poco, contengono di questi rallentamenti.
Ci sono narrazioni nelle quali due minuti di un’esistenza vengono raccontati in duecento pagine. Narrazioni che hanno una durata di lettura superiore a ogni credibile durata degli avvenimenti che raccontano.
È come se il narratore d’oggi tentasse una infinita diluizione del tempo.
Prolungando il tempo, riempiendo ogni istante della narrazione di atti, dialoghi, descrizioni, documenti, elucubrazioni, letteralmente stipando la propria pagina, saturando il tempo quanto più possibile, il narratore produce un’acqua sufficientemente diluita da poter contenere la memoria delle nude cose, ed essere bevibile.
Le nude cose in soluzione concentrata, uccidono.
Tra i principi dell’omeopatia c’è quello — da cui il nome, che significa: «curare con l’uguale» — di curare un male introducendo nel corpo, in dosi diluitissime, la stessa sostanza che genera il male.
Magari, nella narrazione, le nude cose non ci sono nemmeno più, tanto estesa è stata la diluizione. Ma ne è rimasta, se non una traccia, almeno una memoria. La narrazione ci ammette alla presenza delle nude cose, che uccidono, accogliendo dentro di sé dosi diluitissime delle nude cose stesse.
Ciò che i poeti fanno con la metafora, con la giustapposizione di una cosa che viene detta a una cosa che non viene detta, i narratori lo fanno con la lentezza, con l’infinita diluizione del tempo.
Magari ci sono altri strumenti. Non so. Io ho visto questo. Se ne può parlare.
Infine, diciotto, mi domando: se la lentezza è lo strumento che consente alla narrazione di diluirsi per ammettere la presenza, magari solo in memoria, delle nude cose; che cos’è invece che permette al narratore, prima della narrazione, di entrare in contatto con le nude cose? Qual è, chi è, che cos’è, quel mediatore che mi permette di stare alla presenza delle nude cose senza esserne bruciato?
La mia risposta, per il momento, è: l’invenzione. L’invenzione è la facoltà che mi permette di pensare il mondo come una vacca gravida di infiniti mondi possibili. E quindi di pensare la narrazione come una vacca gravida di infinite narrazioni possibili.
Io sono l’ostetrico che, con tutta la lentezza di cui è capace, cerca di far sì che la vacca partorisca un mondo, una narrazione.
L’invenzione è un mediatore sensibilissimo. È capace di sostituire istantaneamente un mondo con un altro, una narrazione con un’altra, una totalità con un’altra.
È capace addirittura di produrre parti di mondo e parti di narrazione che possono appartenere contemporaneamente a più mondi e più narrazioni diversi e incompatibili.
È capace, addirittura, di pensare a una narrazione che dica tutto, che ricopra interamente il mondo, e che tuttavia ammetta la presenza, là fuori, delle nude cose.
Invece la finzione, la fiction, è l’incubo. Le nuove mogli e i nuovi figli di Giobbe sono fiction, incubo. L’invenzione è il contrario della finzione. La finzione imita, l’invenzione produce. La finzione fa come se le nude cose non esistessero, non fossero mai esistite. L’invenzione ci ammette alla loro presenza.
Sono arrivato a pensare fin qui. Non posso dire di sentirmi sicuro di ciò che ho detto, né di avere presenti le conseguenze di ciò che ho pensato.
Vi prego di accettare ciò che ho detto come un tentativo di fare una narrazione della mia esperienza.
Grazie.
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Notevole per gli spunti di riflessione
FANTASTICO!
Molto ben scritto. Personalmente mi destano qualche perplessità un paio di aspetti, che voglio provare a sottoporti. Lo “sfondamento” è da intendere tra precomprensione e nude cose? Ma se è così, se la precomprensione cade, come si può, di fronte a supposte “nude cose”, non essere semplicemente e totalmente inghiottiti dal silenzio? E invece si parla (anzi, si scrive). Che ruolo, che statuto ha la scrittura in tutto ciò? Da dove salta fuori? Pare data per scontata, trattata da strumento proprio mentre viene esaltata (destino che mi ricorda il modo un po’ superficiale con cui Heidegger tratta del linguaggio, proprio contestualmente alla sua esaltazione in funzione poetica). Siamo sicuri che si tratti di uno s-velamento, dell’essere posti di fronte a un segreto che poi è la nullificazione dei significati precompresi (con tutto il retroterra di esistenzialismo che vi sta dietro) e non di una “piegatura” della nostra capacità di “attribuire sensi”, del “quadrato” operato dalla scrittura sulla nostra relazione di senso con le cose? (il suo fruttificare, sfondarsi, esordire, per dirla con Moresco). La caduta dei “significati consueti” non allude forse a una poetica aristocratica della grazia, dell’intuizione, dell’elezione che assomiglia molto a quella di fronte alla quale Fortini metteva in guardia (il montaliano “ognuno riconosce i suoi”, cui Fortini rispondeva: “dove si parla di grazia e intuito, voi sospettate dominio”- cfr. Fortini, Nuovi saggi italiani)? La chiusa di questo pezzo, con la critica alla fiction – alla cultura industiale di massa – che fatico a non ritenere idealistica, mi aggrava il medesimo sospetto. Non so, non sono per nulla sicuro di aver centrato la critica, che ne dici?
Heidegger tratta il linguaggio in modo superficiale? E come strumento? Ho capito bene o fraintendo? Sobbalzo dalla sedia!!! scusami b.georg per il mio tono umorale che ti potrà sembrare acceso. Tra l’altro quello che dici nel tuo commento è interessante e parecchio, ma di Hiedegger che scrive in modo quasi certamente abominevole (Borges), si può dire tutto tranne che tratta il linguaggio in modo superficiale.
L’attenzione di Heidegger al linguaggio è assoluta, estrema, estenuante, si pose davvero in una sfida nell’ascolto del linguaggio, del logos, e certo l’esito abominevole della sua espressione scritta è conseguenza anche di questo ma non priva di punti di arrivo fondanti tutte questioni con cui si confronta tutto il pensiero occidentale contemporaneo. L’esegesi in questo senso di George Steiner su Heidegger rimane esemplare. Conosco quasi tutte le obiezioni che i critici di Heidegger hanno sollevato alla sue etimologie, ma il suo lessico risulta internamente coerente come pochi hanno saputo ormai delineare chiaramente. Penso a Emil Staiger, a Karl Reinhardt, K Riezler, H. Bollack, Donald Carne-Ross o alle osservazioni di C.F. von Weiszacker sull’influsso di Heidegger all’ascolto nei più soggettivi aspetti della fisica particellare. Per non dire del suo influsso linguistico nella poesia e prosa di Ilse Aichinger, Bachman, Char, Celan. La sua attenzione al pensiero poetante è l’attenzione massima all’ascolto del linguaggio, è das kunfitge Denken, il “pensiero avvenire”. Il punto inoltre non è tanto sapere dove è arrivato Heidegger con la sua ricerca ma se le domande che si è posto sul linguaggio sono legittime. A me sembra di sì. Ti segnalo un opera tra le più profonde del 900 che tratta di questo: L’ontologie du secret, di uno degli uomini più ostici della Terra ma con una memoria spaventosa: Pierre Boutang. Il suo tema è quello che da forza alla metafora. Quali assenza sono implicite nell’uso del predicato?
ehmm evidentemente ho scelto male la parola, chiedo venia. Dicevo che H. ne esalta il ruolo (tutto ciò che dici sul ruolo che egli assegna al linguaggio poetico è vero) ma che forse utilizza la radice platonica (Cratilo) e aristotelica del modo di intendere il rapporto tra “segni e cose”, limitandosi magari a rovesciarne il segno (ovviamente, come si è stracapito, la mia fonte è la lettura che di Heidegger fa Sini. Mica sono così originale, mi limito a scopiazzare i miei ricordi universitari, peraltro piuttosto vecchiotti e probabilmente superati :). Si tratta tuttavia, e ti prego di coglierlo, di una questione assolutamente secondaria in questo contesto che lascerei cadere senza nessun problema (può darsi che i miei ricordi abbiano bisogno di una bella spolveratina, nel qual caso sii clemente :). Il punto della mia domanda a Mozzi era il resto. Ciao :)
Questo dialogo è molto interessante dal punto di vista stilistico.
Mozzi è un narratore, quindi è abituato a nascondere l’intelligenza dietro la semplicità. Dice cose alquanto complesse (non entro nel merito della loro eventuale opinabilità) con un linguaggio la cui arte sta tutta nella semplificazione e nel raggiungimento di un tono piano, che procede per lento accumulo di argomenti e materiali, senza spaventare nessuno.
B.Georg e Luminamenti non sono narratori, per cui non fanno niente per nascondere la loro intelligenza e cultura; il loro dialogo si può definire filosofico.
Per quanto mi riguarda, l’effetto che mi fa l’intervento di Luminamenti è che dopo circa dieci righe ho un calo, o piuttosto un ingarbugliamento, dell’attenzione. Non è una critica, affatto: è solo un’osservazione. Colgo qua e là cose che conosco e ho studiato, ma perdo l’insieme perché arrivo alla fine stanchissimo, come se avessi camminato dentro la scomposizione prismatica di una casa che un tempo era mia. Questa è, banalmente, la differenza fra un narratore e uno che non lo è. La fatica del narratore deve avere come esito l’assenza di fatica in chi legge.
Naturalmente questa, o “tutto questo”, è anche la differenza fra un ignorante (io) e un savant.
non penso si possa dire “nascondere o non nascondere” intelligenza e cultura, come fosse un fatto intenzionale. Si tratta di esprimersi per come si è capaci. Male, per quel che mi riguarda. Sapendolo, cerco di supplire con la sensatezza degli argomenti. Dio ci liberi da chi fa l’inverso. (ps: che ne sai che non sono un narratore? ;-)
Suggestiva e, senza ironia, generosa, la frase di Montanari:”La fatica del narratore deve avere come esito l’assenza di fatica di chi legge”. Ma, allora, Moresco non è un narratore? Se non ricordo male, proprio tu, Raul, dicesti in un vecchio commento della tua “fatica” nel leggere Moresco. E, pur tenendo conto delle differenze abissali, cosa sono Joyce, Proust, Musil? ;-)
Credo che la frase di Montanari, con le sue contraddizioni, contenga tuttavia in sè proprio una parte delle questioni che ha posto b.georg. Nel suo intervento, Mozzi scrive: “La finzione, fiction, è l’incubo”. Sembra usare i due vocaboli come sinonimi, almeno io l’avevo intesa così. Tanto è vero che, nella mia testa, avevo cancellato la parola “fiction”, che a me suonava incongrua, e mi ero concentrata solo su “finzione”, con il suo significato contrapposto a “invenzione” come lo pone Mozzi. Antitesi su cui non sono d’accordo ma questo non conta. Poi arriva b.georg che, invece, nel suo commento fa risaltare la parola “fiction” nel senso di letteratura popolare e “industriale” osservando che il disprezzo mozziano si potrebbe conciliare, eventualmente, con una sorta di “grazia” assai sospettabile, che metterebbe lo scrittore in grado di passare dalla “precomprensione” all’invenzione-scoperta delle “nude cose”.
Ora, si potrebbe dire che la “fiction” è letteratura che “ha come esito l’assenza di fatica di chi legge”? Ma, se così fosse, anche quella di Mozzi lo è. E invece no, almeno Mozzi si adopera perchè non lo sia. Eppure lui è narratore apparentemente “facile”.
A complicare le cose, sta poi il fatto che la scrittura di Mozzi è stata distillata da lui stesso in una serie di canoni, di regole, di passaggi, in un lavoro che è tanto tecnico e operativo da poter essere insegnato, come il mestiere che lui di fatto insegna. Il che sembrerebbe portarci ben lontano dal concetto di scrittura come “grazia”, dal platonismo e, magari, dal decadentismo dell’ intuizione veggente. Mentre ci riporta, invece, all’ambito della “fiction”, della sua costruzione operativa e diciamo pure “industriale” nonchè della facilità di fruizione connessa. Niente di aristocratico, dunque, anzi, più democratico e antitetico al dominio di così! (C’è sempre quella questione dell’invenzione vs finzione ma, vabbè.) Allora: Mozzi è “facile”, non faticoso da leggere, quindi popolare (e vendibile), tecnico nella scrittura, persino seriale, financo realistico, come Crichton quando mette insieme E.R. e i Medici in prima linea. E’ pure un blogger. Ma non scrive fiction.
La faccenda che Mozzi propone a me sembra traducibile, piuttosto, nei termini da lui esposti di “imbarazzo”. La letteratura, facile o difficile, realistica o fantastica, finzione o invenzione che sia, è ciò che produce imbarazzo in chi legge, ma prima di tutto, credo, in chi scrive, rompe le attese consuete e le abitudini, aprendo un varco di mancanza di senso. Un varco che la letteratura non richiude e la fiction invece sì.
In virtù di cosa la letteratura tiene spalancato questo varco?
In virtù della sola retorica, ovvero delle parole ordinate in modo tale da produrre l’effetto voluto. Un ordine costruito come gli ingegneri costruiscono i ponti, con lo studio, l’attenzione, il lavoro e, certo, la capacità individuale. L’imbarazzo è l’esperienza che il lettore fa del caos, l’ordine delle parole costruisce un cosmo che non protegge, non consola attraverso l’evasione e la rimozione ma può transitoriamente ospitarci, fragile e precario, esso stesso esposto continuamente allo scompaginamento del caos.
Erica
Per George e più sotto per Montanari (mi spiace se ti viene l’esaurimento!). Mi era chiaro che il tuo discorso non era centrato sulla mia osservazione critica.
Ho solo – nel senso del proficuo – ap-profittato di quella tua osservazione sul linguaggio di Heidegger, per delimitare volutamente dei margini di senso a una delle cose che hai detto, proprio oltrepassando il centro del tuo discorso.
Problema di diramazioni in un discorso! Di temi e sottotemi, di uso dei collegamenti neuronali. Mi premeva chiarire quel punto. Poi sul resto a dopo eventualmente. Non tutto insieme, già Montanari si stanca!!! ahahah!!!
Per Montanari che dice: “B.Georg e Luminamenti non sono narratori, per cui non fanno niente per nascondere la loro intelligenza e cultura; il loro dialogo si può definire filosofico”.
Quindi i narratori nasconderebbero o non fanno niente per nascondere intelligenza e cultura?
Non credo che occorra che scriva una solo riga per dire che questa è una fesseria (che non fa di te un fesso ovviamente Montanari,anzi ti leggo con piacere e interesse e difficoltà, non c’è la benché minima mia intenzione di s-valutarti! non potrei, non ti conosco, esattamente come tu non mi conosci a parte la limitata conoscenza che di me puoi avere leggendo in giro sul web i miei post e che fanno di me un signor nessuno: né narratore, né poeta, né filosofo, le categorie non m’interessano, gli altri poi facciano pure dove inquadrarmi. Non è che quello che faccio lo metta su Internet se non per il tempo che occorra a fare scorrere la sabbia dentro la clessidra della mia vita! E la clessidra è un’immagine in movimento che ha i suoi significati che puoi trovare solo faticando un poco!).
Mi sembra che nei post sopra quelli miei, su questo argomento c’è chi ha già risposto. Quando leggo Beckett o Peter Handke o Burroughs o Celine o Nabokov o Faulkner (che se ne fotteva altamente non dei lettori ma di quello che “sa” leggere il lettore, anche perché se lo “sa leggere” a che gli servirà leggerlo?) fatico eccome, e per me e anche per qualche altro sono dei narratori, ed è proprio la fatica che faccio che mi restituisce tantissimo!
Inoltre per alcuni quello che tu definisci dialogo filosofico è meno faticoso di una narrazione! Elias Canetti dette ad Albert Einstein un libro di Kafka, America, e dopo un poco Einstein glielo restituì dicendo: troppo complicato, non riesco a leggerlo, non sono abbastanza intelligente. Ora, la critica ha sempre detto che Kafka è complesso, molto complesso, ma certamente non faticoso da leggere, eppure per Einstein era impossibile da leggere. Accogliere il linguaggio altrui è sempre cortesia e ospitalità! Si può o non si può! si vuole o non si vuole. Chi smette di leggere ciò che un altro scrive deve fare i conti solo con se stesso!
Talvolta, mi sembra, che si venda, si getti via la com-prensione in cambio della facilità di lettura.
Riuscire a leggere senza fatica un testo può essere un ottimo alibi per arrivare alla fine del libro senza avere capito nulla o quasi (ancor peggio credendo di aver capito), senza che dentro ti rimanga nulla o molto poco, senza che il tempo di lettura diventi tempo di trasformazione ma solo tempo da occupare con una parvenza di piacere ed emozione, un divertissement.
Infatti Montanari dice:”La fatica del narratore deve avere come esito l’assenza di fatica in chi legge.”
E’ un’opinione rispettabile. Come esattamente il suo contrario! Non è un argomento! Potrei dire che la leggerezza a me che leggo mi venga restituita, che levito quando “supero” la fatica che mi renderebbe inospitale l’idioletto e la narrazione dell’autore che leggo. Quando supero la mia pre-comprensione, il mio sapere dato. Solo allora, ciò che ho penetrato, sfondato, spezzettato, diluito viene da me assimilato!
Ma forse dovresti indagare un pochino di più su cos’è la fatica (della lettura), su una fenomenologia della fatica (che non è contro, adversa “anche” alla leggerezza, né la leggerezza può essere ridotta all’assenza di fatica)! a cui sono collegabili altri aspetti cognitivi della lettura.
Poi, detto questo, ognuno di noi può chiudersi nella sua idea solipsistica e soggettiva di cos’è la lettura e la lettura narrativa e non; poi ognuno di noi può chiudersi nei suoi limiti di ricezione o come diceva Konrad Lorenz nella sua educazione data alla ricezione delle forme.
Preferisco demolirla di volta in volta questa mia educazione alla lettura. Proprio in quel momento ap-prendo piuttosto che credere di sapere!
Ma se vogliamo fare un esame oggettivo della questione, perché ciò è possibile, credo che si possa arrivare ad altre conclusioni. E non saranno i fatti a smentire le conclusioni.
Se il libro Va di porta il cuore di Susanna Tamaro è stato superletto, per me significa che i suoi lettori hanno ragione! Ma non la verità!
Le prove stancano la verità!
Poi dici: “Naturalmente questa, o “tutto questo”, è anche la differenza fra un ignorante (io) e un savant”.
Non ho proprio di me la percezione del savant che non so neanche cos’è ( a parte le romantiche e inconsistenti descrizioni mitologiche-letterarie).
Penso, invece, che non sarebbe male che proprio perché si è (tutti) ignoranti, un poco di fatica a leggere “anche” fuori dalla narrativa, possa essere proficuo a quello che il narratore vorrà dire narrando. Il limite del narratore che narra “ignorando” gli altri linguaggi, le altre forme espressive di scrittura e di pensiero, matematica, musica, pittura compresa, è quello di non riuscire a guardare oltre il proprio sguardo. Finisce per guardare e sentire, molto spesso (non dico sempre perché gli accadimenti che non sono atti di lettura nel senso stretto del termine, possono influenzare il nostro modo di cambiare occhio e orecchio), in maniera ripetitivamente eguale.
Detto tutto questo – che è pochissimo – rimane il fatto che Mozzi non nasconde la sua intelligenza e cultura che si può “vedere” e “sentire” nei suoi testi. Non sono nascoste!
Se lo pensi allora esemplifichi quanto ho detto sopra.
Detto questo, Mozzi ha il suo stile e non è il problema del narratore quello di scegliere uno stile più o meno faticoso o congeniale al lettore (quale lettore? e io che lettore sarei? potresti sorprendere nel cercare di individuare quali sono le mie letture fondanti, quelle che mi hanno lasciato cicatrici, caratteri, gioia), ma piuttosto quello di avere quel proprio stile (il problema dell’assenza di stile non è dentro l’atto dello scrivere ma nell’atto che accoglie nudamente il mondo che si percepisce, si esperisce. Posizione squisitamente fenomenologica nel senso classico delineato da Husserl! e che ha implicazioni pratiche ed etiche importantissime! avrebbero un impatto sul mondo reale! lo stile è ciò che io riesco a restituire al mondo!) che gli con-sente secondo la sua natura e le sue esperienze di dire “Delle cose intelligenti e colte” mostrandole con la sua grammatica e il suo idioletto più adatti a scavare nelle “sue” catacombe, nel suo rapporto con la vita e con il mondo. Ma quello che vale per Mozzi non può essere paradigmatico del modo di narrare o di come si dovrebbe narrare. Chi lo pensa introduce senza saperlo o meno, una metafisica della narrazione, i suoi principi primi, che mi può stare bene se è una scelta singolare, mentre la respingo con tutte le mie forze se vuole essere la regola sovrasensibile della narrazione. Più semplicemente, mi sta bene che un romano creda che Roma è la città più bella del mondo, mi preoccupa quando vuole che tutti gli altri lo credano! Ci sono migliai di modi di narrare diversi. Al lettore la sfida di penetrare ciò che non si può capire degli altri!
Non amo confenzionare mondi per lettori che già li conoscono. Non è apprendimento!
E infine: perché mai si dovrebbe nascondere l’intelligenza e la cultura? Invito Montanari a riflettere sulle migliaia di ragioni buone e cattive intorno al mostrare o al contrario nascondere intelligenza e cultura (compreso il complesso di invidia…invidia anche rispetto alla fatica, alle energie profuse nella propria ricerca…e ci sono anche dialoghi filosofici privi di intelligenza e cultura)
A me sembra che il problema è che d’intelligenza e cultura non ce ne sia molta in giro, magari si vedesse! E’ sempre più elitaria, ahimé!
Fermo restando che sono assolutamente contrario a una meritocrazia dell’intelligenza e della cultura, mentre sono favorevole non tanto a dire: io sono intelligente e colto, quanto piuttosto a disseminarla a modo proprio, rifuggendo l’idea di comunicazione.
Bella discussione, vi ringrazio tutti.
Volevo solo dire che la lettura dell’intervento di Mozzi per me è stata un’esperienza. Grazie Giulio.
Da parte mia considero il linguaggio molto più potente. Non riferito a nude cose (che sono già da un pezzo dentro il linguaggio) ma creatore di prassi entro la quale possiamo parlare sensatamente di trascendenza e approccio fenomenologico al reale. Il problema è semplice: se c’è qualcosa prima del linguaggio, qualcosa che esso s’incarica di “tradurre” o “riportare”, allora facciamo come una persona che ha bisogno di un secondo dado per sapere cosa è uscito col primo.
L’argomento è stimolante e ci scriverò su.
Tutte le reazioni al mio commento sono interessanti e giustificate, e mi costringono ad ampliarlo.
E’ sicuramente vero che un “prosatore” (adottiamo per il momento questa definizione neutra) può essere molto difficile da leggere.
Anche tralasciando le idiosincrasie personali di cui giustamente parla Luminamenti, possiamo concordare tutti sul fatto che Moresco può essere anche MOLTO difficile da leggere, e lo stesso vale per i nomi classici che si fanno in questo caso, il Joyce di Ulysses, il Faulkner di The Sound and The Fury (meno quello di altri titoli, forse), e così via.
Io riproporrei qui, senza nessuna ambizione sistemica, una vecchia distinzione.
Fra gli autori di prosa letteraria esistono due polarità; non dico due tipologie, perché in effetti lo stesso autore può oscillare, nelle sue opere, fra queste due polarità.
Esiste l’atteggiamento dello scrittore, ed esiste l’atteggiamento del narratore.
A Tiziano, con il quale abbiamo spesso discusso di questa distinzione, non piace assolutamente l’uso della definizione “scrittore”, ma io cerco solo di farmi capire.
Come si distinguono le due polarità?
Semplice.
Il narratore è attento in particolare a trama, personaggi, atmosfera. Tende a scomparire dietro la storia che racconta (anche quando è autobiografica). Nel lavoro sulla lingua, di solito cerca la massima semplicità e trasparenza.
Lo scrittore è attento anzitutto proprio alla lingua, che adopera e reinventa in modo estremamente creativo. In casi estremi, la storia che racconta è quasi un pretesto per far vivere quella lingua, la lingua alla quale lui lavora.
Effetti sulla lettura: quando leggi un narratore leggi spesso abbastanza velocemente (a seconda); in certi casi (soprattutto nella narrativa di genere, che appunto è quasi sempre narrativa, non scrittura) leggi solo per “vedere come va a finire”; più in generale, leggi godendoti la compagnia dei personaggi, della storia, delle atmosfere. Quando leggi uno scrittore, sei anzitutto in compagnia delle parole, delle frasi, insomma della lingua. Quasi sempre leggi più lentamente, centellinando.
Ecco, dicendo che Mozzi è un narratore volevo dire solo questo.
Esempi di prosatori delle ultime generazioni orientati alla narrazione? Ammaniti, Lucarelli. Ammaniti ha lavorato eccome sulla scrittura: la sua scrittura è riconoscibilissima; però non è un caso che questo lavoro sia stato di scavo, di prosciugamento, un lavoro a togliere.
Esempi di prosatori delle ultime generazioni orientati alla scrittura? Ovviamente Moresco, Nove, Scarpa (quest’ultimo con maggiori oscillazioni fra le due polarità: il romanzo Kamikaze d’Occidente apre ampie lasse narrative, in cui la tipica tensione scarpiana verso l’invenzione lessicale, la concentrazione espressiva e il paradosso concettuale si stempera in pura, piana scansione di dialogo o di descrizione). Interessante il caso di Nove, che può essere rifiutato a priori, in blocco, ma può costituire un’esperienza di lettura molto originale perché “apparentemente” la sua prosa lirica è superfacile, non presenta ostacoli, si colloca “al di sotto” dell’orizzonte linguistico del lettore medio.
Sono molto interessanti poi gli esempi di oscillazione marcata fra le due polarità, specie quando segnano periodi diversi nella creatività di un autore. Duerrenmatt, per esempio, è decisamente “scrittore” nelle sue primissime opere (di forte taglio espressionistico). Diventa più “narratore” nei polizieschi della sua stagione matura, come Il Sospetto, Il giudice e il suo boia, La promessa: qui il linguaggio assottiglia il suo spessore, si concede perfino qualche banalità, perché la geometria terrificante della trama ha il sopravvento su tutto. Ridiventa più “scrittore” da vecchio, in opere come L’incarico (un romanzo i cui capitoli constano tutti di una sola lunghissima frase) o La valle del Caos.
In Aldo Busi, la tensione verso la scrittura non viene mai meno; però è possibile distinguere un periodo giovanile in cui la scrittura è alluvionale e, non a caso, i testi narrativi sono molto lunghi, da un periodo maturo (attuale) in cui i testi si riducono a circa 100 pagine con un’attenzione insolita verso l’intreccio. Esemplare il bellissimo Un cuore di troppo, che si può schematizzare così: A parla a B del proprio amore per C, e forse lo fa per sedurre B.
Ripeto, comunque: questa distinzione, molto empirica, si può accettare soltanto evitando di irrigidirla.
Che le due polarità esistano mi sembra evidente; l’ho riscontrato nella mia esperienza di lettore, nella mia esperienza diretta come scrittore, e in quella indiretta (parlando con i miei colleghi o seguendo i tentativi di autori esordienti o di allievi dei corsi di scrittura creativa).
Ciao a tutti, concordo con Tiz sul fatto che la discussione è davvero interessante.
PS Uno stranissimo pendant della discussione si trova in un commento del Superficiale all’ultimo pezzo di Moresco: “Sembra Io non ho paura scritto da un letterato”. Ho chiesto al Superficiale doi spiegare meglio, perché l’osservazione mi sembrava molto interessante, ma si è sottratto e mi ha dato una risposta arguta ed elusiva.
Qualche giorno fa, leggendo del secondo incontro “letteratura come verità”, ho deciso di parteciparvi. Avevo voglia di ascoltare i vostri pensieri in proposito. Dando un’occhiata ai testi in programma per la serata mi sono imbattuto in quello di Umberto Casadei. Ho letto le prime sette o otto righe e poi ho lasciato perdere. Non mi ha catturato. Non saprei dirti perchè. Poi ieri sera l’ho ascoltato e ne sono rimasto folgorato. Intenso, violento, fortissimo. Oggi sono qui che rifletto amaramente sul valore intrinseco della scrittura e penso che forse aveva ragione Manganelli quando sosteneva che “la voce è la sola custode della purezza dei concetti”. E’ una bella questione, questa, per chi scrive ma anche per chi legge. In ogni caso ti volevo ringraziare per avermi dato modo di incrociare Casadei. Gran personaggio, mi è piaciuto molto. Per il fragile equilibrio che lo contraddistingue, per il suo stare in bilico tra lo sparire e il resistere, per la confidenza con la perdita che si coglie nelle sue parole (la vicinanza con le nude cose, come diresti tu). Ecco, in generale mi pare che queste sue caratteristiche abbiano molto a che fare con l’arte. Dove per arte intendo l’esperienza dell’agguato, dell’inatteso, del non precompreso. Insomma gran bell’incontro, Giulio. Grazie.
Quello che dici tu Raul è parecchio importante.
Tutti i commenti meriterebbero molto sviluppo, su alcune cose vorrei ritornare per comprendere come ognuno di voi percepisce quello che sta accadendo in narrativa. Quando tu dici:
“Il narratore è attento in particolare a trama, personaggi, atmosfera. Tende a scomparire dietro la storia che racconta (anche quando è autobiografica). Nel lavoro sulla lingua, di solito cerca la massima semplicità e trasparenza.
Lo scrittore è attento anzitutto proprio alla lingua, che adopera e reinventa in modo estremamente creativo. In casi estremi, la storia che racconta è quasi un pretesto per far vivere quella lingua, la lingua alla quale lui lavora”. (questa distinzione che fai meriterebbe di per sé ampia demarcazione di differenze all’interno del dualismo che certo schematicamente per semplificazione, suppongo, poni)
Ma ti chiedo e chiedo a tutti: vi sembra che il narratore, nel senso delineato da Raul, sia ancora presente nella narrativa? I romanzi che si scrivono adesso seguono questa strada o piuttosto l’altra? E’ possibile che non si possa più scrivere come “narratori” (sempre nel senso delineato da Raul)?
Scrivo qui sotto qualcosa che ho scritto su King Lear.
La modernità. Il modernismo cattedratico vuole che il romanzo si sbarazzi dell’artificio del personaggio, nel quale vede, in fin dei conti, solo una maschera che invano dissimula il volto dell’autore. Se prendo i Sonnambuli del grandissimo Hermann Broch mi accorgo che l’io dell’autore non lascia traccia. Il modernismo cattedratico ha messo al bando la nozione di totalità, quella parola che Broch usa invece volentieri per dire: nell’epoca della decisiva visione del lavoro, della specializzazione sfrenata, il romanzo è una delle ultime postazioni dove l’uomo possa ancora mantenere un contatto con la vita nel suo insieme.Secondo il modernismo cattedratico, il romanzo “moderno” è separato dal romanzo “tradizionale” (definizione questa, sotto la quale sono state affastellate alla rinfusa tutte le fasi di quattro secoli di romanzo) da una frontiera insuperabile. Nell’ottica di Broch, il romanzo moderno continua la stessa indagine alla quale hanno partecipato tutti i grandi romanzieri da Cervantes in poi.Dietro il modernimso cattedratico c’è una candido residuo di fede escatologica: una Storia finisce, un’altra (migliore) incomincia, fondata su basi interamente nuove. In Broch, ad esempio, invece, c’è la melanconica consapevolezza che una Storia sta giungendo al termine in circostanze profondamente ostili all’evoluzione dell’arte e del romanzo in particolare.
Il romanzo non può più vivere in pace con lo spirito del nostro tempo. Se vuole continuare ancora a scoprire quello che ancora non è stato scoperto, se vuole ancora progredire come romanzo, può farlo solo andando contro il progresso del mondo. L’avanguardia ha visto le cose altrimenti, era posseduta dall’ambizione di essere in armonia con l’avvenire, cioè con lo spirito del tempo. Non sono d’accordo con l’avanguardia, ma questo non significa assolutamente concepire un romanzo di stampo “tradizionale”, e questo per la specifica ragione che all’interno della tradizione del romanzo ci sono quattro secoli e dentro questi ci sono state molte diramazioni solo accennate, incompiute, morte, non sviluppate o al contrario esaurite e quindi se non ci si sofferma sulla storia del romanzo e con molte esemplificazioni delle tipologie dei romanzi comparsi (contemporanei compresi), risulterà impossibile comprendere dove secondo me può andare il romanzo del futuro, la sua possibile continuazione e sopravvivenza efficace.
Se avrò tempo ed energia, e se questa discussione avrà ancora seguito e interesse, proverò a dirvi come vedo e ipotizzo il romanzo futuro, senza certezze ma con spirito di confronto che non potrà che essere proficuo a chi si spende nella nobile arte del raccontare.
ieri ho fatto un salto a una libreria dell’usato (roma, una traversa di viale angelico), dove ci sono libri nuovi appena usciti – c’è kamikaze di scarpa, per esempio, e l’ho preso (mi dispiace, tizia’, ma ultimamente sono a corto), e c’è quello di bugaro, che di libri usati se ne intende (a proposito, era una copia con dedica: a lorenzo, eccoci di nuovo…messaggio per bugaro: mazzolalo a ‘sto lorenzo, non si vendono i libri con dedica!). e poi c’era quello di moresco, l’ultimo, quello caotico. moresco quello con la faccia che gronda sangue. be’, me lo sono rigirato un bel po’ tra le mani, ho letto l’attacco, sono andato un po’ avanti, il matto, l’account, meringa, poi ho detto: va be’, lo compro. 8 euro. poi mi sono fermato. no, no, che lo compro a fare tanto mi conosco, non lo leggerò mai. ma come, genna dice che è un’esperienza assurda, tipo peyote. lo so lo so, ma adesso no, non me la sento. lo lascio qui, lo nascondo dietro quest’altro mattone, magari nessuno lo vede. ripasso domani, dopodomani…
Sentite, ma perchè Raul Montanari non si dimette da fare lo scrittore? Chi se lo fila uno che dice le cavolate che ha detto a Luminamenti? Ancora siete al “cosa dobbiamo fare” per “fare i narratori”? Ma se vendete sì e no 300 copie a libro, buffoni! E venite a parlare di come si tiene desta l’attenzione! Luminamenti va bene così. Parla di Heidegger complica la vita a questi finti lettori con le loro regolucce, questi villani villeggianti! Bueeeeeeeeeeeeeeeaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhh!
Che Mozzi sia il terzo scrittore più grande d’italia non lo scopriamo adesso. Dopo di Lui tutti i partecipanti a NI, possono andare in ritiro spirituale a Montermarzino. ciau
vi invito a visitare il weblog di marco candida. quest’uomo è un vero narratore! riesce a essere dieci persone (tanti sono i commentatori dei suoi interventi) contemporaneamente. ahò, manco pirandello!
Aggiungo anche che Giulio Mozzi mi copia. Attinge a piene mani a quel che io dico. ciau.
ragazzi,appena leggete questo post andate sul sito di genna. in questo momento ha pubblicato tre cose che parlano di lui. c’è solo lui sul suo sito. è impazzito. è in preda a un delirio megalomane. me lo immagino a casa, col cappello da napoleone…andateci adesso, prima che levi le recensioni e rimetta al volo la foto di moresco che sanguina…
Secondo me invece Giuseppe Genna fa BENISSIMO a pubblicare la recensione del New Yorker sulla traduzione del suo romanzo “Nel nome di Ishmael” in angloamericano.
Vedi, caro Superficiale, qui in Italia la situazione è questa: siamo alla Riunione di Condominio culturale. Piccineria, sospetti di volersi soffiare a vicenda lo sgabuzzino, “tu dici questo perché vuoi accaparrarti il bugigattolo con i bidoni per la raccolta della plastica, e tu invece fai quest’altro perché sei invidioso di chi ha il posto macchina”… E il CIELO? E le STELLE oltre il cortile? Vi suona strano che noi artisti abbiamo la dissennata ambizione di occuparci anche e soprattutto di QUELLE? Suona ridicolo in quest’epoca sventurata affermare che cerchiamo bellezza, verità, intensità, conoscenza, brivido?
Guarda due o tre post fa: c’è il simpatico provocateur Marco Candida che rinfaccia agli autori nostrani di vendere 300 copie… (a parte il fatto che se non vendi sei uno sfigato, ma se vendi sei un venduto: se sei brutto, ti tirano le pietre, se sei bello, ti tirano le pietre… Qualunque cosa fai…). Non è così. Non è vero che vendiamo 300 copie (e il buontempone Marco Candida lo sa bene). Siamo tradotti in molte lingue (Raul Montanari, tanto per fare un esempio, ha sfondato in Germania: un mercato editoriale quadruplo rispetto al nostro, una nazione dove la gente LEGGE davvero). Che qualcuno, come Genna, abbia il coraggio di dirlo, esponendosi EVIDENTEMENTE a FACILISSIMI ludibri, alle accuse di megalomania napoleonica, io lo trovo fantastico. Ha tutta la mia approvazione.
Giuseppe Genna dà tantissimo, pubblica in rete decine, centinaia di recensioni, informazioni, traduzioni, interviste… C’è mai qualcuno che lo RINGRAZI? Che esprima un sentimento positivo, di affetto culturale, di riconoscenza umana? Che cosa fanno, i criticoni ridacchioni di Giuseppe Genna, per contribuire alla vita culturale?
Questa Italiuccia gossippara non si rende conto (fa finta di non rendersi conto) di avere artisti, scrittori, pensatori, intellettuali che hanno una dimensione che oltrepassa le frontiere e parla anche ad altri, RIESCE a parlare anche fuori, tocca corde universali, e non se ne sta ad aspettare i dati auditel o i tabulati dei rendiconti di copie vendute: gli artisti se ne fregano di queste cose, sono occupati a cercare di dar forma al prossimo capolavoro.
Allora mi sembra giustissimo, DOVEROSO che Genna faccia sapere la vera dimensione delle cose, senza falsa modestia, segnalando proprio la risonanza all’estero di quello che fa. Bravo Giuseppe. Altro che Narciso! La tua rubrica in miserabili.com dovevi intitolarla al re Salomone.
Scusa, mi sento un po’ in causa, anch’io ho detestato Genna, poi dalla recensione di Moresco e dalla scoperta dei Miserabili ho cambiato idea completamente e gli l’ho scritto in una mail. Tra l’altro nei Miserabili si trova la coraggiosa “lettera al Corriere sul nuovo illuminismo”.
http://www.miserabili.com/archives/004698.html
Posso aggiungere che Genna in questo periodo si sta facendo un mazzo tanto per difendere la libertà di esprimere opinioni fuori dal coro(vedi caso Luttwak,Guzzanti,Moresco). Oltre tutto ha postato la recensione del suo ultimo libro nella categoria “narcisismi”, con buona dose di autoironia.
Oltre a reggere il sacco scrotale di Montanari(come qualcuno ha scritto una volta…), reggo pure quello di Genna e già che ci sono, aggiungo anche quello di Scarpa! ;-)
ho lanciato l’amo e ho preso una scarpa.
(genna però non ha abboccato…è più ironico e autoironico di quello che credevo.)
Complimenti per la battuta, proprio una cosa da schiantare dal ridere… Io almeno il mio cognome lo metto a tutte lettere. Vedo che stimola spassosi wit e originalissime agudezas .
Mi spiace, ma sull’arte, la vocazione, il talento, le opere mie e altrui, io non sarò MAI né ironico né autoironico. Ciò che faccio lo prendo sul serio. Tanti cari saluti
eri vestito da scolaretto alla puntata dei cannibali, sette o otto anni fa. e giocavi a campana col tuo libro. via, su’! ma quale serietà!
Ero vestito da scolaretto a Ricercare, Reggio Emilia, maggio 1996, per una serissima performance artistica.
Ho citato il gioco della campana in televisione, autunno 1996, per prendere in giro la trasmissione. Il gioco della campana è serissimo, ha una nobile tradizione secolare.
Un caro saluto a tutti, ho cose più importanti da fare che continuare a dialogare con chi non si firma col suo nome. Questo sì che è stato un gesto poco serio da parte mia.
Caro candida, ma è così divertente per te dire quello che dici? non pensare che non mi piace scherzare, divertirmi, ridere, ma perché mi fai piangere? ora rido: ahahahaha…(metti un poco più di arte, per favore, se vuoi pro-vocare, invece di dare voce a un tuo sbadiglio, perché non provi a dire quello che vuoi dire o non pensi mettendoci humor e ironia? cmq mi sei simpatico, se no non perderei questi quindici secondi per scriverti)
Punto Uno:Raul Montanari non dice cavolate! dice cose intelligenti, magari poi si può o meno essere d’accordo e si può dialogare con lui.
Ha detto in questa discussione parecchie cose che vale la pena di pensare!
Non sapevo che è tradotto in Germania, ora che lo so sono molto contento per lui.
Punto Secondo su Genna: ma ci mancherebbe che Genna non parlasse dei suoi libri! E’ sacrosanto che faccia – di tutto? (ma se fa così poco in questo senso e con tanta ironia!) per promuovere e far parlare dei “suoi” libri. Oltre ai suoi libri nel sito straordinario dei Miserabili c’è una montagna di altri libri, articoli, questioni.
Nazione Indiana è un bel luogo e già da tempo ho dato l’indirizzo del sito a molti miei amici.
Devo dire che Tiziano Scarpa comincia a starmi veramente simpatico. Ecco, lui, Mozzi (e altri più vecchi) possono anche vendere sette coppie delle cose che scrivono che non importa. Il problema è quando parli come un Ken Follet e non lo sei. Oppure parli come una specie di scrittore di nicchia ma non lo sei. Tutto qua. E poi ci vuole più rispetto per un lettore che lascia un commento; oppure insultalo pure, ma con intelligenza, ché si capisca che gli vuoi insegnare. Non puoi stare lì a fare una specie di aziendalismo o corporativismo, di difesa di ‘noi scrittori’, tutte le volte che uno mostra coraggio e ‘sfida la tigre’ – o qualcosa del genere – o smette di fare il ‘piccirillo’ – mi riferisco a un pezzo che è cult del blog di Tiziano Scarpa. Insomma le comunità hanno bisogno dei casinisti. Io sono un casinista. …Poi sul fatto che ci sia tutta Italia che mi copia, mi sembra evidente. E se chiedeta a Mozzi lui per primo lo ammetterà. ciao.
Mi chiedo da un paio di giorni se questo di Mozzi sia più una poetica o un manifesto di estetica. Che dite?
Credo, Giuseppe, che sia semplicemente un racconto, un’interpretazione dell’atto creativo. Altro è dire, come intendevo maldestramente fare nel mio primo commento ormai dimenticato, che dentro questo racconto vi sia quella che si può chiamare in modo roboante “ontologia implicita”. Secondo me c’è. Se posso dire, a mio parere è questa: le cose sono già ciò che sono, indipendentemente da noi. Noi possiamo accedervi solo per lampi, per fratture, per rotture limitate dell’ordine, dello schermo costituito dai significati abituali, dall’ordine del discorso. Questi lampi, questi accessi im-mediati alle cose, non sono comunicabili direttamente perché essi coincidono con la messa tra parentesi del linguaggio “comunicativo”. Alcuni tuttavia sono in grado di creare degli oggetti linguistici – anche attraverso particolari tecniche – che non hanno un immediato “scopo” (nemmeno comunicativo), e che proprio per questo sono in grado di riattivare quel medesimo accesso prelinguistico alle cose: contengono cioè la memoria delle cose e dell’accesso alle cose. Questi oggetti, questi “mondi secondi”, possono riprodurre lo stesso lampo-straniamento che ci fa accedere alle cose per come sono e non per come le vediamo. Dentro questi mondi secondi, anche altri oltre il creatore possono abitare. E’ una posizione, questa (che non so, voglio precisare, quanto sia di Mozzi e quanto un mio fantasma) cui io non sono favorevole e in cui vedo dei limiti e che, se mi è prmesso l’ardimento concettuale, assimilo a posizioni mistico-religiose (o anche semplicemente esistenzialiste). A cui opporrei, se fossi capace, una diversa ontologia, in cui materialità e produzione dei significati sappiano intrecciarsi diversamente. Ma non sto ad allargarmi perché giustamente dubito che la mia ontologia esplicita interessi quanto quella implicita di Mozzi, per ovvi motivi :-)
basta con queste polemiche inutili. piuttosto, diteci come sta moresco. sanguina ancora?
superficiale, sono discorsi importanti, non polemiche inutili; e ringrazio b.georg per esserci tornato su. cambiando discorso: mi associo ai complimenti a g.genna e all’invito a non nascondere i successi/insuccessi all’estero; ma lo sapevate, a proposito, che martino baldi, poeta pistoiese (del 1970) di quelli che conosco direttamente, è stato tradotto in albanese con una silloge del 2001?
scarpa, se tu scopi come un riccio non devi sentirti in colpa nei confronti di genna (che, a sentire lui, non scopa mai). è chiaro che lo difendi perché ti senti in colpa. è chiarissimo. invece di scrivere post in sua difesa, scopa meno. oppure, fai scopare pure lui, presentagli qualcuna. secondo me apprezza di più.
Secondo me, Giuseppe Genna è un idiota, giuseppe genna è un bravo ragazzo, gg è uno stronzo, io sono indecente, ” ” è uno scrittore, ” ” non lo è. Inoltre: l’estero non esiste, l’Italia sì ma non si sa come né perché, la cultura è un after eight, il dadaismo ci ha salvati tutti, la filosofia è morta un po’ dopo dio, Mino Martinazzoli fu implicato nei Sessanta in uno scandalo detto “delle banane dello Zimbabwe” ma nessuno se lo ricorda. Le donne sono dee, sono troie, sono misteri, sono un mito. C’è da pensare, come si vede. Raccoglo l’invito di tiziano (che ringrazio, anche insieme a gabriella, a cui ricordo che ho una sacca scrotale fossilizzata, e agli altri tutti, compresa la superficie parlante): inizio a meditare sulla merda misteriosa. òs èkon òta…
sei veramente schizofrenico. sei pesante e paranoico come pochi, ma anche ironico e bandinesco (da arturo bandini). quest’ultimo aspetto è quello che preferisco.
bel messaggio. finalmente.
vi ricordo che il superficiale è il periodico dell’uomo mediocre. lo trovate on line.
http://www.ilsuperficiale.it/
visitateci!
Molto interessante quello che dice nel suo ultimo commento B.George. Certamente nel discorso di Mozzi vi è una ontologia implicita.
In quanto al resto dell’intrigante discorso d B. George, penso invece all’idea di Maturana di mettere tra parentesi l’oggettività (Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina editore). Il discorso è sì filosofico, concettuale ma ha implicazioni anche per le scelte di un narratore, per come percepisce.
Samuel Beckett metteva l’oggettività tra parentesi. L’oggettività tra parentesi implica che l’esistenza sia costruita dalle distinzioni compiute dall’osservatore, e che ci sono tanti domini d’esistenza quanti sono i tipi di esistenza operati dall’osservatore. L’esempio più emblematico di questo è in Watt di Beckett
http://www.miserabili.com/archives/005009.html#005009
Lumina, mi piacerebbe, però, che almeno una volta dicessi il tuo nome in pubblico? Quello che dici mi piace molto. Ciao. P.
Mi chiamo Emanuele Giordano, nato a Palermo nel 60, vivo (per adesso) a Palermo. Il nick, come ho detto altre volte, non ho mai pensato di usarlo per nascondere. Vi sono affezionato come una mamma con la sua creatura.
Grazie cmq.
mi sono piaciute soprattutto le risposte dell’autore. Davvero illuminanti. Grazie :-))