Racconto espiatorio in morte del padre
di Fabio Santopietro
Da bambino si affacciava al belvedere della chiesa dedicata al patrono san Bartolomeo incantato dal panorama.
A perdita d’occhio, l’inconcepibile ma dolce distesa dei colli; sulla cima di molti di quei colli i paesi; qua e là, lungo la costa dei colli al di sotto dei paesi le cascine sparse, una vasta distesa che si spalancava davanti ai suoi occhi con l’onnipotenza di una divinità, per spingersi fino ai piedi delle montagne, ben visibili nei giorni tersi. Guardando quella distesa, che nell’estrema lontananza lasciava intuire la sua sfericità, da bambino pensava sbalordito alle dimensioni della terra, e quella che in realtà non era altro che una minuscola porzione del pianeta gli sembrava rappresentarne non solo la totalità, ma addirittura qualcosa di ancora più vasto e immenso di quella totalità impossibile da abbracciare e che a lui non era dato di vedere altrimenti che con l’immaginazione.
Anche in seguito, non avrebbe mai perso il gusto di affacciarsi di tanto in tanto a rimirare il paesaggio dal belvedere della chiesa, che col tempo avrebbe contribuito a farlo sentire sempre più minuscolo e insignificante. Fu probabilmente quell’immaginosa vastità a imbrigliarlo, così che la sua vita si sarebbe stabilmente divisa fra la città vicina e il belvedere, il belvedere e la città, come volesse tracciare un solco lungo la strada che separa le due località così diverse, e come se la grandezza del mondo percepita da quel belvedere lo avesse indotto a non avventurarcisi mai, sottraendogli al contempo qualunque idea di appartenenza. Non fosse che per quelle forti e indistinte sensazioni, doveva dire grazie alla madre, che da quelle parti ci era nata, e soprattutto al padre, che lì aveva voluto stabilirsi, incantato dagli stessi paesaggi campestri, ma prima ancora dai natali della donna con la quale aveva voluto dividere la vita e al fianco della quale era morto.
Mio padre anziano sedeva in un angolo contro la parete in fondo al corridoio e mi osservava in silenzio mentre montavo la libreria. Appariva contento della novità della libreria, del vedermi lavorare con le mani a quella novità, contento solo di restare lì seduto senza dire una parola, guardando il figlio che gli ha sempre dato qualche preoccupazione dedicarsi a un’attività che non destava nessuna preoccupazione, senza pensieri. Mio figlio è a casa, si sente a casa e monta la libreria, qualcosa del genere doveva pensare mio padre, ora che la mia vita sta finendo la sua finalmente comincia, con questa nuova libreria, guarda quanti libri, mio figlio è un ragazzo colto. Io facevo il mio lavoro senza parlare e di tanto in tanto gli lanciavo un’occhiata. Sul pavimento del corridoio appoggiavo i fondali bianchi, sceglievo le viti e avvitavo i montanti, sollevavo il pezzo e l’appoggiavo alla parete, infilavo le mensole e le fissavo. Di tanto in tanto lanciavo un’occhiata a mio padre. Taceva. Lo vedevo lì in fondo con gli occhi attenti e il respiro fioco come la luce del corridoio, piccolo e smunto teneva il bastone da un lato, aveva gli occhi lucidi e azzurri di un uomo che aspetta la fine e guarda la vita del figlio con malinconica dolcezza, dolce e mite come solo un vecchio può essere, molto più- di qualunque bambino, senza voracità e senza pretendere niente, soltanto sapendo. Se ne sarebbe andato di lì a sette mesi, alle tre di notte, per un cosiddetto aneurisma dissecante dell’aorta, esplosione emorragica che secondo il manuale provoca ‘un dolore lancinante’ (il corsivo è mio), paragonabile a quello dell’infarto miocardico acuto, localizzato prevalentemente al torace. Avevo sentito e visto gli effetti di una simile morte una notte passata in ospedale. L’uomo era coricato in un letto nella penombra e nel silenzio del corridoio, perché tutte le camerate erano piene; stava davanti ai finestroni, c’era una flebile luce proprio sopra il suo letto con le ruote, in giro non si vedeva anima viva e la stanzetta dell’infermiera per il turno di notte era in fondo a un altro lungo corridoio, nessuno si lamentava e tutti sembravano dormire profondamente nell’orribile quiete notturna degli ospedali, dove in verità nessuno può/è davvero in grado di riposare. Io guardavo l’uomo domandandomi quale fosse il suo male. Il tubicino della flebo infilato nel braccio, teneva gli occhi chiusi come se dormisse. D’improvviso ha cominciato ad agitarsi e poi a urlare, rantolava e urlava, sono rimasto stordito, la voce aveva un suono profondo e roco ma fortissimo, cavernoso, l’uomo gridava ma non sembrava davvero gridare, sembrava che la voce uscisse con una nuova potenza, con questa voce gemeva e diceva aiuto muoio, l’ha ripetuto due o tre volte e poi è morto prima che l’’infermiera potesse accorrere. L’infermiera è accorsa non so se per le grida o per il campanello che qualcuno deve aver suonato. Io sono rimasto lì. Non come uno che non sappia agire, paralizzato come chi si accorge che non c’è niente da fare. Sapevo di assistere all’ultimo istante di quell’uomo, all’ultimo istante di un uomo. Invece mio padre non aveva emesso nemmeno un sibilo, aveva sbarrato gli occhi e spalancato la bocca soltanto. Nel giro di un anno era stato sottoposto a una piccola serie di operazioni non devastanti ma che lo avevano frustrato e quindi fortemente depresso, molto provato nell’umore, scosso nella più elementare voglia di sopravvivere. Non che la voglia di vivere gli fosse passata, era solo scossa, il che tuttavia non è poco. La prima operazione era stata quella al cristallino per via della cataratta, in seguito alla quale leggere gli era diventato impossibile. Io non ho mai compreso la gravità della sua condizione. Mi sembrava che i suoi atteggiamenti fossero improntati a una patetica esagerazione, benché mio padre fosse tutt’altro che un uomo patetico, o al quale piacesse indulgere nei patetismi. Talvolta aveva qualcosa di teatrale, questo sì, ma non patetico. Passava molto tempo ad ascoltare la televisione e ogni tanto s’accendeva una sigaretta. Con quella storia delle sigarette noi gli abbiamo sempre rotto le scatole, non fumare qui e non fumare là, direi davvero tormentato, specialmente mia madre: hai sentito cos’ha detto il dottore, ma mio padre dei dottori se ne infischiava e in questo caso aveva avuto tutte le ragioni. Lo schermo del televisore faceva le righe e lui stava lì davanti, soltanto in ascolto. Non era cieco ma vedeva male, probabilmente non riusciva a mettere a fuoco, non l’ho mai capito. Qualche volta apriva ancora il giornale per richiuderlo subito dopo. Sembra che in seguito a simili operazioni la vista possa essere almeno parzialmente ripristinata con delle lenti o con qualcosa d’altro, non lo so, ma mio padre cocciutamente non voleva sentirne parlare, come se con l’operazione il suo declino fosse inesorabilmente cominciato e lui non avesse intenzione di intralciarne il corso, o forse perché s’era messo in testa che quelle lenti dovessero costare parecchi soldi e lui non voleva darne ai dottori, ne aveva pochi e quei pochi glieli succhiavano i figli, e io pensavo chissà se da vecchio non avrò i soldi per un paio di occhiali, oppure chissà se da vecchio, pur avendo i soldi, rinuncerò a migliorare la mia vista per non dare quattrini ai dottori, chissà, mi chiedevo, fino a che punto sarò travolto dalle stesse idiosincrasie di mio padre. Che figlio spregevole, pensavo anche.
Anche camminare, le sue orgogliose passeggiate per i campi e le vigne che s’era sudati, gli erano diventate penose, perché un’altra delle minuscole operazioni che avevano finito per mandarlo in pezzi poco alla volta era quella alla gamba, in seguito alla quale aveva perso la sensibilità e l’efficienza muscolare. Così camminava col bastone, e l’antico piacere del piccolo proprietario terriero che contempla e respira gli umori dei suoi possessi, passione che dovevano aver conosciuto anche i suoi genitori, i nonni che io non ho mai conosciuto, gli era per forza di cose venuta meno.
Poco prima della libreria era stato operato anche alla lingua per una specie di tumore, gliene avevano asportato un pezzetto, quasi la metà, parlava con fatica e a causa della chemioterapia che aveva annientato le papille gustative non sentiva più- i sapori. Mangiare per mio padre era diventato un penoso rituale. Aveva sempre mangiato di gusto, e ora doveva soffrire. Dalla guerra in poi, tutta la vita non aveva fatto altro che pensare al mangiare, riuscire a mangiare era il segno del benessere, di giorni soddisfatti. Io, che non capivo, gli avevo sempre rimproverato questa propensione come una mancanza di argomenti. Il mangiare mi era diventato semplicemente odioso. Siccome pensarla in questo modo sul mangiare è un grave peccato a vent’anni mi è venuto il diabete, un malanno che non sembra tale ma che disgraziatamente lo è a tutti gli effetti, e che rivoluziona il legame col cibo rendendolo semplicemente un rapporto essenziale e fisiologico, e questa fisiologica essenzialità mi aveva ricondotto alla stessa essenzialità che mio padre attribuiva al mangiare, anche se espressa in modi affatto diversi. Lui che era stato un felice mangiatore, che godeva delle poche cose di suo gusto, ormai non poteva più goderne. Diceva di sentire un sapore amaro, come di sabbia, ma io, che da tempo avevo cominciato a conoscere i brontolii del corpo e con essi ad acquisire una certa dimestichezza descrittiva, non lo capivo e non riuscivo a credergli, le sue spiegazioni erano sempre così confuse e seccate che finivo per non tenere conto della difficoltà oggettiva implicita nel descrivere un sintomo, pensavo che il suo lamento fosse vittimismo e il suo male soltanto ipocondria. Quei sapori cattivi che gli invadevano la bocca invece del buon gusto dei cibi da sempre preferiti li dico io, sono io a descriverli e così li immagino ora. Perché mio padre ha sempre avuto difficoltà a parlare di cose del genere, una difficoltà dettata credo dall’impazienza e dallo sprezzo delle parole inutili. La maggior parte delle parole per lui erano semplicemente inutili, solo parole. Con ciò non voglio dire che fosse un uomo duro e d’azione, anzi per molti aspetti era fin troppo morbido, e raccontare della guerra gli era sempre piaciuto. Mi era sempre piaciuta la sua sincerità nel farmi sapere che in guerra se l’era fatta sotto. Quando a tavola raccontava della guerra si animava, faceva i suoi resoconti con un piglio da narratore, metteva enfasi nei modi e nelle parole, le drammatizzava. Ogni tanto questi suoi modi, che pure mi erano sempre piaciuti, sembravano un’altra faccia della sua ipocondria, perché io con la guerra ce l’avevo su, non ero mai riuscito a considerarla con quella fascinazione che hanno le cose passate come se non possano mai più- tornare, vedevo la guerra come un rischio costante, e ogni volta che la si era combattuta si era commesso l’errore di perpetuarla. Ma mi piaceva l’orgoglio di mio padre narratore di guerra, e mi piaceva pensare che avesse avuto il coraggio e la paura di farla, di non scappare a gambe levate che ne so, come mio zio, figlio di Maria, che aveva fatto finta di fare il partigiano, che della guerra non ha niente da raccontare, e che ha un livore verso il mondo il quale a mio modo di vedere gli viene soltanto dalle frustrazioni causate dal sentimento della propria viltà, e dalla baldanza dell’essere stato più- furbo degli altri. Detestavo l’idea stessa della guerra, e allo stesso tempo pensavo che se c’è da combattere un uomo deve combattere.
La gamba, gli occhi e il cibo infelice sommavano nuova tristezza al già triste declino. Ne ho viste di persone anziane per le quali il cibo era rimasto l’ultimo godimento, persone che mangiavano con patetica ingordigia, ai familiari veniva il nervoso e perciò li trattavano con stizza, se non perfino con disprezzo. Anche Maria era stata così, a 92 anni fino al giorno prima di morire ha sempre mangiato voracemente, e se prima della morte i familiari deploravano quella sua ingordigia, dopo il decesso ne parlavano come di un segno di gagliardia: ha mangiato come un vitello fino all’ultimo! E’ così anche la zia Virginia, stenta a camminare e riempie i mutandoni ma non rinuncia a gettarsi sul cibo. I sapori li sente eccome, questo mi piace quest’altro no. Non divora, mangia mite a capo chino, sembra voglia nascondersi, dire non faccio del male a nessuno, mangio soltanto, per prevenire gli scatti irosi della nuora e soprattutto del figlio. Mio padre comunque non aveva ancora nemmeno sfiorato quella tremenda voracità e tanto meno quella condizione senile, era semplicemente stato sempre un buon mangiatore che preferiva non mettersi troppo in mostra, e s’era immaginato di andarsene quietamente gustando in pace le sue ultime vivande, coi figli realizzati e qualche soldo da parte. Invece, nonostante le case e le vigne che ha comprato s’è spento quasi povero, nella preoccupazione per i figli che arrancano con in testa il sottoscritto, e aver comprato quella bianca libreria era un fatto simile a un avvenimento. Non l’avevo comprata io, l’aveva comperata mio fratello per riordinare la mia stanza la quale veniva paragonata a un luogo pieno di ciarpame dove a un certo punto fosse
esplosa una bomba. Non solo per generosità, l’aveva comprata anche perché in fin dei conti quella che da allora in poi sarebbe stata la mia libreria potesse dirsi una libreria di mio fratello. Prende tutta una parete, fin quasi al soffitto alto tre metri, di un corridoio lungo sei. Io la montavo in silenzio, era un lavoro lungo, e mio padre in silenzio mi guardava da un angolo del corridoio.
Quando a tavola davanti al cibo si discuteva accanitamente, si litigava su qualche faccenda politica, con le parole fronteggiavo mio padre e con le parole lo disarmavo. Sembravo uno di quei sapientoni che non hanno visto niente e pretendono di sapere tutto. Un normale tono discorsivo in casa nostra non è mai esistito. Appena uno apre bocca, un altro ha subito da ridire in modo pungente. Oppure tace con un’espressione di sprezzo dipinta in volto, o di degnazione o sufficienza. E’ sempre stato impossibile esprimere un’opinione pacatamente, pacatamente condividerla oppure contestarla. La si contesta sempre, e la contestazione è sempre accesa, stizzosa e brusca. Sembrava che in ognuna delle nostre brusche opinioni fosse in gioco l’onore, la vita e il destino dell’umanità. In quelle discussioni lui diceva fai della filosofia; salvo in questi casi, che finivano dopo l’irritazione soltanto col rattristarlo per l’impossibilità di portarmi dalla sua parte o semplicemente perché invece di parlare si bisticciava, altrimenti la loquela che mio padre intendeva per mia cultura l’aveva sempre inorgoglito, diceva a tutti che ero colto. Dopo quei fatti anziché avercela con lui, come di solito capita nel litigio quando si pensa di avere ragione, mi vergognavo; mi vergognavo per averlo offeso, mi vergognavo perché avevo offeso un uomo anziano, mi vergognavo perché quell’uomo anziano era mio padre e stentavo a rendermene conto, mi vergognavo perché non avevo la più- pallida idea di quante ne avesse viste e passate, mi vergognavo perché avevo alzato la voce o per il tono brusco che avevo usato e mi vergognavo infine per la mia cultura, come la chiamava lui, che era tale soltanto per mio padre, perché mi vedeva sempre coi libri e s’immaginava con ingenuo orgoglio che grazie a quei libri stessi edificando qualcosa, perché i libri di per se stessi sono già le fondamenta di un solido edificio. Non è soltanto una questione di colpa, è che le cose sono pi-ù importanti delle parole. In quelle discussioni dimostravo in realtà a mio modo di vedere una specie di grossolana ignoranza idealista. Ancora oggi sono sempre a metà strada, mai del tutto in libri e parole e mai del tutto nelle cose. Quando sono nelle parole non credo alle parole e al contempo ci credo fino in fondo e quando sono nelle cose alle cose non credo, e penso che con mio padre avrei dovuto fare un mucchio di cose e dire meno parole, anche se in realtà con mio padre di parole ne ho sempre dette pochissime e di cose ne ho fatte anche meno, si può anzi dire che abbia solamente litigato, e i litigi erano pesanti, spesso volavano anche gli insulti e le offese, spesso le offese erano tremende, specialmente le mie nei suoi confronti, anche negli ultimi tempi, quand’era debole, e allora si alzava da tavola e se ne andava, semplicemente, e lui era triste e vecchio e io mi vergognavo, avrei voluto strapparmi la gola e masticarla, restare per sempre senza voce seduto su una sedia a veder scorrere il sangue che mi usciva dalla gola masticata, ma ogni volta, invece di parlare, con mio padre litigavo. E la lingua
anziché al sottoscritto l’hanno tagliata a lui. Quando sono nelle cose sento sempre le mie parole e le cose mi cadono addosso, quando sono nelle parole le cose sono ormai cadute.
Di mio padre, di me e mio padre, del nostro vederci, si può dire ricordi soltanto il pomeriggio in cui montavo la libreria e lui mi guardava, e poi il suo viso nella notte di sette mesi appresso mentre moriva, nel dolore lancinante, come aveva detto il manuale, un dolore che evidentemente stava sperimentando sapendo, se sapeva, che era l’ultimo dei dolori e finalmente il più- forte. L’aggettivo lancinante è forse l’unica parola che per me sia anche una cosa, comunque la più- cosa di tutte, una parola che fino ad allora non avevo mai visto come cosa, della quale conoscevo il significato solo in astratto. E’ dal vigore dell’aggettivo ‘lancinante’ che oggi penso di dover recuperare il valore delle parole che mi cadono addosso e che crollano addosso agli uomini e che questi scansano abilmente. Con l’aggettivo ‘lancinante’ vedo la maschera del volto di mio padre, gli occhi sbarrati, occhi così sbarrati che non potevano essere inconsapevoli, la gola gonfia, la schiena inarcata, la bocca senza denti spalancata con le labbra ripiegate sulle gengive, mia madre che vagava per la stanza gemendo in quel modo che ormai non posso più- sopportare e mia madre geme sempre, in continuazione, per qualunque cosa e ogni volta che sento quel gemito mi viene in mente quella notte, e mio cugino, che lavora alla croce rossa e stava lì impalato nella stanza accanto a mia madre e guardo con la coda dell’occhio l’espressione del suo viso e mi sembra quasi ridere, la faccia del cugino, e intanto capivo che non c’era assolutamente niente da fare, non m’incazzavo neanche col cugino che aveva l’ambulanza e non faceva niente, e carezzavo il volto stupefatto di mio padre che stava morendo nel tentativo di alleviargli il dolore soltanto con la delicatezza che mai una volta gli avevo concesso, carezzavo quel volto che era ancora rosa vitale, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, lo carezzavo piano, assurdamente, lui stava morendo e io lo accarezzavo, e sapevo che stavo guardando la morte di mio padre, il dolore della morte lancinante di mio padre, e in un lampo avevo pensato a tutti quelli che avevano dovuto sopportare la vista della morte dei loro cari, ma ancora non piangevo, e avrei pianto molto poco, soltanto da solo, soprattutto a cominciare da un anno e mezzo dopo, in circostanze apparentemente incongrue e insignificanti di colpo mi sarebbe venuto da piangere.
Mio fratello aveva portato i pezzi della libreria impacchettati nel cartone e nel cellophane, la libreria bianca comprata in un grande magazzino svedese molto alla moda, ci vanno tutti, e mio padre era contento: la libreria! chi la monta. Nessuno pensava fossi capace di montare una libreria. Mio fratello m’aveva aiutato a trasportare e disporre in verticale quei grossi e piatti parallelepipedi ancora impacchettati che pesavano, ma io cercavo cocciutamente di portarmeli da solo, salivo le scale con quel peso in precario equilibrio, e mio padre, col suo bastone, stava attento a ogni movimento, e ogni suo sguardo trasudava triste contentezza, ogni tanto, quando al principio c’era anche mio fratello, mio padre ci intralciava i movimenti, allora si scansava mite e solerte di lato per evitare la mia stizza, finché non ha deciso di prendersi una seggiola e accomodarsi nell’angolo in fondo, vicino alla porta del bagno, sotto l’attaccapanni.
Il corridoio era quasi in penombra, nel corridoio non ci sono finestre, solo un vecchio lampadario nel centro con una sola lampadina fioca; nell’entusiasmo della libreria si parlava addirittura di mettere nuove luci, forse dei faretti, per leggere bene i titoli sulla costa dei libri, ne parlava mio fratello e io dicevo sì svogliatamente, sarebbe una buona idea, anche se i faretti mi hanno sempre addirittura commosso, con quella loro bruttina e pretenziosa ostentazione di modernità.
Mio padre taceva e guardava inorgoglito del fatto che i suoi figli avessero pensato persino ai faretti, che lui manco sapeva cosa fossero, che avessero addirittura i soldi per rinnovare l’illuminazione di quella grande casa che aveva comprato lui quarant’anni prima e che cadeva in pezzi, l’intonaco si scrostava lungo le scale per l’umidità, le prese di corrente erano tutte marce, il tetto era da rifare e nel salone quando pioveva bisognava mettere delle bacinelle per raccogliere l’acqua che gocciolava, sul soffitto della stanza detta degli ospiti allo stesso piano dove abitavo c’era una enorme macchia di umidità che s’allargava a vista d’occhio per via di un serbatoio nel sottotetto che non teneva più, in tutta la casa le luci venivano e andavano per colpa dell’impianto elettrico installato all’epoca da un solerte e loquace incompetente del paese, il signor Rossi, morto anche lui, nell’anno di mio padre in un paese di ottocento anime la morte è stata molto avida, ne ha presi una decina, è morto il Camillo, è morto il Bigin, soltanto questi due nella minuscola frazione dove sorge la nostra casa, in paese è morto Gaudio, è morto Rossi, sono morti insieme il padre e la madre della Luisa e altri ancora che adesso non ricordo, è morto anche il nonno di Angelina, che però non conoscevo, e il padre poco dopo, quell’anno è stata un’ecatombe, le campane a morto rintoccavano in continuazione e sono morti quasi soltanto uomini, gli uomini a quanto pare se ne vanno sempre prima delle donne, non so se soltanto perché quelli della mia generazione hanno spesso genitori con una gran differenza d’età, mi sembra piuttosto che le donne mostrino una tenacia, nell’attaccarsi alla vita dell’attesa, che agli uomini è sconosciuta, gli uomini mostrano più tenacia di fronte a un nemico visibile, non è neanche da dire che nel corso dell’esistenza gli uomini facciano un lavoro più- duro delle donne, tutto il contrario, è solo che sono più fragili, penso.
Colla sua più- recente sequela di malanni, mio padre s’era semplicemente lasciato andare. Non poteva leggere e non poteva camminare che a fatica, né poteva mangiare. Ma era contento nel guardarmi occupato al montaggio della libreria, quando lo sbirciavo seduto lì nell’angolo i suoi occhi azzurri erano commossi, anche il suo occhio opaco per la cataratta. Con mio padre sono sempre stato privo di delicatezza, negli ultimi tempi avrebbe avuto bisogno soltanto di delicatezza. La delicatezza può apparire una cosa leggera, da donnette, ma nel mio caso era la sola cosa giusta che potessi fare nel rapportarmi a mio padre che stava scomparendo. Mi ricordo una cosa. Un giorno, molti anni prima, si era a tavola e mio padre osservando mio fratello servirsi dal piatto di portata in modo scomposto gli aveva detto non potresti essere più delicato? Quella parola ci era sembrata
strana, quasi impalpabile fra le labbra di nostro padre, piuttosto incongrua all’operazione “servirsi dal piatto di portata con delicatezza”; allora mio fratello aveva cominciato a servirsi dal piatto di portata con gesti ostentatamente volteggianti, come una ballerina, per mimare la delicatezza, e mio padre invece di ridere, come noi facevamo, al principio s’era offeso e poi addirittura infuriato, come solo una persona delicata nell’infrazione della delicatezza può infuriarsi, mio padre infatti era delicato e anche permaloso, come me e come mia madre, infuriato perché mio fratello continuava a volteggiare e a ridere e anch’io ridevo. Alla fine, secondo la regola che vede il minore vittima della scaltrezza del maggiore più vicino in età, il quale per antica gelosia suscita il riso fino all’estrema soglia, e attira le sberle per scansarsi astutamente all’ultimo, con ciò incrementando l’iracondia del genitore, io mi sono preso la sberla e la faccenda è finita lì. Nessuno di noi aveva mai nemmeno sfiorato l’idea della delicatezza di quell’uomo molto taciturno e sulle sue che era nostro padre, nemmeno immaginato che anche lui potesse un giorno avere un bisogno assoluto di delicatezza, senza che fosse in grado di dirlo, perché la delicatezza non la si può domandare, è troppo cosa intima, e più ne si necessita e meno la si può elemosinare, deve soltanto accorgersene colui al quale tocca darla. Soltanto quand’è stato in punto di morte gli ho fatto una carezza delicata, ma dubito che lui abbia potuto accorgersene, non credo, non s’è accorto d’altro che del sopraggiungere della morte attraverso il dolore lancinante, per quello aveva ancora energie sufficienti, non per gemere o parlare o dire muoio, solo per spalancare occhi e bocca, inarcare la schiena e tendere il collo all’indietro e poi sollevare la testa in avanti.
Dopo un po’ mio fratello aveva smesso di aiutarmi con la libreria e se n’era andato per i fatti suoi lasciandomi solo con mio padre. Sono andato avanti a montare la libreria per due pomeriggi e mio padre era sempre lì seduto, in silenzio, col bastone dritto di lato. Era contento di stare a guardare e pensava lo fossi anch’io, di avere la libreria e un padre che mi guardava. Ma io mi sentivo nervoso. Sentivo il nervoso crescere col silenzio e lo assecondavo come gli irosi assecondano la loro ira, in modo abietto. Anziché dire ti piace la libreria non dicevo niente e anzi cominciavo a odiare quella mia libreria di mio fratello.
Avvertivo come un peso il silenzio di mio padre e mi rendevo conto della spregevolezza del mio nervoso, montavo la libreria che aveva ormai cominciato a prendere forma e mi dicevo perché sta lì in silenzio, perché non parla e perché non parlo io. Perché non gli dico ti piace, cosa ne pensi, una cosa qualunque. Era per il rumore delle mie incapacità. Per quel rumore io non riesco mai per tempo a sentire ciò di cui son capace, e ogni volta che qualcuno elogia una qualche mia capacità io sempre stento a credere alla sincerità dell’elogio, non perché diffido dell’altrui sincerità, ma perché per crederci bisogna sentire e per sentire bisogna che ci sia silenzio. Non che diffidi della sincerità altrui, credo piuttosto che ci s’inganni per il semplice fatto che io non posso avere capacità, e perché è molto facile ingannarsi sulle capacità altrui. Io stesso, intanto che montavo la libreria, una cosa semplice che a parte la forza muscolare avrebbe saputo fare anche un bambino, sapevo di non esser capace di montare la libreria, sapevo che, alla fine, mi sarei accorto di qualche danno, che quel danno sarebbe stato irreparabile, e che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno a rilevarlo, che quel danno sarebbe stato una catastrofe, direttamente connessa con la mia più- assoluta incapacità di stare al mondo, la libreria che io montavo era il mondo in procinto di rovinarmi addosso, qualcosa del genere.
Mio padre invece sedeva nell’angolo col bastone al fianco e mi guardava con entusiasmo montare una libreria che io non ero assolutamente capace di montare, la montavo in effetti, procedevo nel lavoro e sarei giunto alla fine, ma senza esserne capace. Lui guardava. Lo faceva con la dolcezza di un ottantenne che rimira il figlio con timida amorevolezza, che quel figlio lo teme perfino un po’, come certi uomini di vecchio stampo e d’animo campagnolo temono coloro i quali si circondano di troppi libri, che non vorrebbe mai contrariarlo, che se mai l’aveva contrariato era stato soltanto per il suo bene, per il bene del figlio, che al proprio bene chissà da quanto tempo non ci pensava più-, o ci pensava, senza retorica, soltanto nella forma del bene dei figli. Il suo dimesso entusiasmo e il rumore della mia incapacità di lì a poco si sarebbero scontrati. Il rumore sarebbe venuto a galla come fango e avrebbe oltrepassato gli argini seppellendo mio padre, il suo silenzio e la sua delicatezza senile.
Mentre alzavo verso la parete il terzo dei cinque mobili che compongono la libreria e infilavo cunei di legno alla base per evitare che si piegasse in avanti, e poi cominciavo a prendere alcuni dei libri negli scatoloni per sistemarli sopra gli scaffali, mio padre sedeva e guardava contento. Poco a poco, tutto il suo tacere e la sua fragilità di vecchio mi conquistavano e si mutavano in un segno opposto, la sua serafica contentezza era il segno della mia incapacità, lo stupore sincero di mio padre per l’abilità con la quale avevo montato la libreria bianca senza l’aiuto di alcuno, diventavano nel frastuono del mio rumore l’espressione di un’ipocrisia che dissimulava il suo vero pensiero, il quale per questo con ancora più- tenacia sottolineava la mia inettitudine e nient’altro che la mia inettitudine.
All’improvviso, mentre fissavo le ultime mensole, gli ho detto: perché stai lì senza dire una parola, cosa vuoi. Dolcemente, ma già temendo il peggio, mi ha detto soltanto “ti guardo”. I mostri si scatenano di fronte al delicato. Ti do fastidio?, ha soggiunto mio padre. Sì, gli ho detto io, mi dai fastidio.
Piano piano, con fatica di vecchio lui s’è alzato dalla seggiola, ha preso debolmente il bastone e a capo chino ha oltrepassato la porta che dal corridoio porta alle scale. Ho sentito il suo passo incerto scendere e poi lentamente svanire, sepolto dal mio fango. Di mio padre non ho ricordi. Ricordo teneramente i suoi racconti di guerra fatti a tavola, ricordo il suo volto in punto di morte e la sua schiena, la seggiola nel corridoio, le sue gambe deboli, il bastone, il volto triste, il capo chino, soprattutto il capo chino, quel capo rimpicciolito e prostrato di lui che se ne va dopo la mia aggressione, se ne va oppresso dalla mia aggressione causata dalla sua sola silenziosa presenza, solo perché era lì a guardare, se ne va sapendo che presto dovrà andarsene e che il suo respiro e la sua senilità mi hanno infastidito, il capo chino e la schiena curva sono il suo viso in punto di morte, me li ricordo, fin lì lo portano e lo accompagno io, fino alla stanza dove mia madre geme con gemiti acuti e strascicati per me intollerabili, il cugino lettighiere ha una smorfia patetica che sembra un riso mentre mio padre spalanca la bocca; la gamba zoppicante mi ricordo, la libreria bianca, il capo chino, la schiena curva che si allontana, il rumore dei suoi passi incerti scendere le scale, il mio fastidio e il suo ultimo respiro con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata a implorare ossigeno, il dolore ‘lancinante’ e una carezza, il mio primo e ultimo gesto delicato, che gli ho lasciato su una guancia ormai ignara, incosciente. Dopo tutti i dolori della vita sarebbe bello potersene andare più morbidamente, sarebbe bello che la morte fosse meno atroce, almeno nei modi, che somigliasse un po’ di più alla degna conclusione di una vita vissuta nel dovere.
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E’ bellissimo! Forse perchè fa vibrare note a me conosciute…se avessi l’autore di fronte glielo direi sottovoce, sussurrando: per non distorcere la delicatezza e l’intensità del racconto.
Io non so dove la signora J. riesca a trovare scrittori sempre così noiosi: De silva, Santopietro, etcet., però è certo che per scoperte del genere ci vuole un fiuto particolare.
imperfetto ma molto bello. imperfetto e troppo lungo come ogni desiderio di espiazione. Ricordero’a lungo il padre sulla sedia che guarda il figlio e dice “ti do noia”. forse c’e’ troppo di me ma non importa.