L’ultimo nostos di Ulisse #2

di Alessandro Garigliano

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Il viaggio di ritorno di ‘Ndrja è un ripiegamento e una fuga dal continente negativo alla positività dell’isola, dalla terra al mare, dalla guerra alla pace, dal presente della disfatta al passato di Cariddi. Ma attuandosi il viaggio il rapporto etico si ribalta. Passando dal tempo della memoria e della prospettiva mentale (speranza, volere, parole) al tempo dell’azione, l’eroe passa dal positivo al negativo, da un passato pieno di valori a un presente corrotto, dall’illusione giovanile a una breve e disillusa maturità subito seguita dalla morte. Si potrebbe dire che passando dalla fabula e dal linguaggio all’azione l’opera passa dalla sfera dell’epica a quella del romanzo, e accoglie il destino storico di quest’ultimo come rappresentazione dello scacco dell’individuo nella negatività del mondo.(24)

Come si legge da più parti il viaggio di ‘Ndrja Cambrìa è una profonda e
intima nekuia,(25) nel senso anche simbolico. Il punto più eclatante, il luogo in cui,
diciamo così, la metafora dell’immersione negli inferi emerge con più chiarezza, è il
momento di trapasso del “due mari dello scill’e cariddi”. A traghettare all’altra
sponda, verso cui è destinato, ‘Ndrja è una femminota chiamata Ciccina Circè: la
memoria vola subito alla dea omerica, maga seducente che trasforma gli uomini in
porci. Ciccina Circè è davvero una figura ammaliante, ogni lettore incantato cerca di
interpretarla come più gli aggrada, e allora la si può vedere come madre, maga,
puttana, misteriosa donna.(26) Qui sotto riportiamo in maniera estesa un brano di
snodo del romanzo, perché si possano godere, oltre che capire, molti dei temi di
Horcynus Orca, che, come spesso accade, vengono concentrati come frattali nella
pagina. Attraversano lo stretto come clandestini, i due maestosi e complessi
personaggi del libro, e Ciccina Circè così parla:

“Qua è così pieno di morti che non ve lo potete immaginare nemmeno, è
tutto un grande viavai di nudità mascoline sfigurate. Ci furono miserande
roncisvalli di marinai italiani come voi, nei mari qui dintorno e sti nomi di
strage, certo v’arrivarono pure a voi all’orecchio: a noi, fatevi un conto, ci
arrivava persino l’eco del cannoneggiare e lo sconquasso dei siluramenti che
ci mandava il cielo e il mare di vampa, di qua dietro alla Calabria, di qua in
basso di canale e in specie di Malta. Si partirono allora e ancora navigano, sti
meschinelli che vi dico, sti naviganti in cerca di ‘maro approdo. Chi
l’ammazzò, forse non se ne ricorda più, ma essi ancora navigano, girano,
esposti a sole e luna, si rivoltano nelle onde, si risentono nelle ossa di tutti i
venti che si levano e cadono sopra di loro. Prima o poi, fatalmente, da quelle
roncisvalli viciniori, solitari o in compagnia, arrivano, stracqui stracqui, in
questo riconco di mare e qui la rema morta, se non è Jonio, è Tirreno, si
presta a mettergli un fermo temporaneo, dato che i loro caratteri,
medesimamente morti, ben s’incontrano: per quattr’ore, insomma, la morte
se li incamera, non li fa andare né avanti né indietro. Voi allora varate, perché
infallibilmente vi dovete guadagnare la vita, buscandovi, notte per notte,
mare e Sicilia, varate e come stanotte, vi capita di varare a rema morta: allora,
che succede? Succede che varate a morto, succede che c’impuntigliate in
mezzo, a sti meschini alla deriva, e li sentite, là di prora, che v’imbrogliano la
navigazione, li sentite sotto, li sentite contro le sponde, che vi battono sul
legno implorandovi sepoltura sepoltura. Le altre che fanno, quelle lì, le
ammiratrici vostre? Manovrano col remo e li scansano, ma il cuore, quelle ce
l’hanno di roccia. Io invece, che faccio io, che il cuore non l’ho di roccia? Gli
suono alle fere sto dindin qua io, dindin di campanella, e quelle lasciano
denaro a contare, corrono e cadono nell’incanto, si asserragliano attorno a sta
barca e così mi servono…” Qui un solo istante s’interruppe e poi subito
ripigliò con tono quasi di sfida, a denti stretti: “Sì, mi servono a farmi andare
liscia e senza impedimenti, mi servono a sbrogliarmi la navigazione di tutti
sti fantasmi di marinai che se ne stanno impantanati qua, piedi piedi, mi
servono a questo, sì, a pilotarmi in mezzo a st’anime vaganti… Mi servono
per remo, paravento, salvaguardia, o per come volete dire voi, mi servono
per non farmeli arrivare sino alla barca. Sì, per questo mi servono le fere,
pirdeu, e non me ne vergogno…”(27)

La maga Ciccina Circè. Per chi ha letto il libro, la stregoneria che Ciccina Circé
compie incantando le fere col suo dindin, è non solo strabiliante, ma anche
sovrannaturale, come l’atmosfera di cui è circonfuso il passo. Le fere sono i delfini
dei continentali, sono animali infernali anch’essi, e a volte si ha l’impressione che
siano infernali perché troppo umani. Andiamo con calma. Il trapasso. La forma
delle acque dello stretto è facilmente accostabile a un collo uterino, per cui il
viaggio di ‘Ndrja sarebbe anche un regressus ad uterum. La madre di ‘Ndrja,
l’Acitana, è morta a causa di un parto, e, secondo W. Pedullà,(28) Ciccina Circè non è
che una figura sostitutiva della madre. È come se la creatura di D’Arrigo volesse
ritornare a rifugiarsi in un mondo prenatale, nel mezzo delle acque amniotiche che
lo riparino dal disordine del mondo. Profondamente si sa: il il nido è tomba. La
“discesa nel grembo” è verso la morte, e avviene per aver constatato “la perdita
irredimibile della mitica unità di umano e di divino”;(29) ciò da un punto di vista
mitico-letterario. Dal punto di vista sociologico, leggendo il libro come un
Bildungsroman, il rifugio nel grembo materno appare come una forma di paura ad
affrontare un mondo violentemente maturo, un rifiuto a crescere, il tenero desiderio
di restare “muccuso” impedendosi di diventare “pellisquadra”.(30) Da un punto di vista
squisitamente psicoanalitico, abbiamo pensato, che i morti che galleggiano sullo
stretto in cerca di sepoltura possano essere considerati come un correlativo oggettivo
della depressione. Melanie Klein, per esempio, osserva che: “Sia in bambini che in
adulti affetti da depressione, io ho portato alla luce il timore di albergare dentro di
sé oggetti morenti o morti (specie genitori) nonché identificazioni dell’Io con
oggetti siffatti”.(31) Il deserto che il protagonista attraversa, la sua memoria che
illumina spesso ricordi di morti, i personaggi spettrali e in pena che incontra – per
non parlare dell’Orca che si stabilisce sullo stretto, definita dall’autore incarnazione
della Morte – danno il senso di una realtà vista attraverso il filtro della depressione.
‘Ndrja risulta incapace a elaborare l’accumulo di dolori che si porta dietro e che
Freud elenca: “Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona
amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà,
o un ideale o così via. La stessa situazione produce in alcuni individui – nei quali
sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica – la melanconia invece
del lutto”.(32) La differenza tra lutto e melanconia consiste nel fatto che dal lutto si
guarisce attraverso “l’imperativo dell’esame della realtà”(33) che stimola l’Io ad
accettare la perdita e il cambiamento delle cose che ne consegue – a modificare
anche la concezione della propria identità di cui parlavamo sopra. Al contrario
‘Ndrja sembra avanzare, come gli psicotici, senza la capacità di “apprendere
dall’esperienza”;(34) la pensa allo stesso modo E. Giordano, secondo cui l’eroe non
accetta di diventare maturo, “al contrario, sembra che le varie e contrastanti
esperienze servano soltanto a radicarlo ancora di più nelle sue convinzioni, a legarlo
più saldamente ad una immagine della realtà ormai superata dalla storia”.(35)

Insomma, come direbbe I. Calvino nel passo citato: bisogna avere la capacità di
“diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare” per
elaborare il lutto. Dopo avere esposto le nostre riflessioni riportiamo adesso una
folgorante osservazione di S. Lanuzza, che ben sintetizza il nostos archetipico di
‘Ndrja con il dolore irredimibile per “un mondo offeso”:(36) “Ritorno come ‘viaggio
a ritroso’ e verifica – in una sorta di convalescenza spirituale vissuta in progressione
depressiva, in regressione – del ricordo dopo una lontananza per fare la guerra quale
“nocchiero semplice della fu Regia Marina”.(37)

—–


2 – continua

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