L’ultimo nostos di Ulisse #4
di Alessandro Garigliano
Quando sotto le mura di Troia si doveva scegliere il modo di assediare la città, al fine di espugnarla, vi furono due punti di vista, due atteggiamenti esistenziali, archetipici: uno era il cavallo di Ulisse. Affrontare la dura realtà coi colori dell’intelligenza. Sfruttando l’astuzia penetrare la meta bramata. Vengono usate insomma le stesse armi della realtà multiforme e cangiante. Achille, invece, contrasta la realtà affrontandola di petto. Nel caos della guerra, Achille, si distingue perché non accetta compromessi. Non viene distolto dalla confusione della situazione eccezionale. Continua a credere nei valori assoluti, alti, che non si lasciano intaccare dalla volgarità della guerra, e della quotidianità in genere. Il muro di Troia, per Achille, deve essere abbattuto con la integrità ottusa che egli ha appreso dal passato. In questo senso, ‘Ndrja Cambrìa, affronta il viaggio di ritorno, la conquista del villaggio natale, allo stesso modo di Achille. Mentre “l’Odissea ci insegna ad accettare la realtà com’è: Itaca”,(52) Cariddi da ‘Ndrja è stata ricreata dalla memoria e dai sogni, ma nella realtà non esiste. L’Ulisse interpretato da P. Citati pare essere l’eroe della vita, che si adatta alla vita, che si fa contagiare dai fatti che la sconvolgono in continuazione, anzi il suo Ulisse non sa vivere senza di essa, non
accetta di sostare nella beatitudine di un mondo mitico senza tempo. Al contrario, ‘Ndrja, sembra stagliarsi in un’atmosfera solenne e romanticamente eroica, a cercare fortissimamente la fissità del mondo delle madri. Insomma, per noi ‘Ndrja è per molti sensi l’eroe della morte.
Mentre la morte è solenne e misteriosa, la vita è frivola, teatrante, meschina
e geniale. È ambigua perché contiene insieme razionalità, maturità, progetto,
ma anche doppiezza, ambiguità, polivalenza, calcolo, politica.
E può essere letto come scelta radicale del piacere contro la realtà,
accettazione dell’identità tra eros e thanatos e, nel conflitto tra natura e
civiltà, opzione per la natura, la sua libertà mortale, la sua rischiosa assenza
di repressione. L’unica vita che vale è quella trascorsa a rivivere l’unità
perduta, a ricordare ‘le felici acque materne’. Il duemari, la grande acqua del
romanzo, è il simbolo onirico attraverso il quale si ricostituisce il solo
momento di felicità dell’esistenza, appunto quello, prenatale, che precede il
distacco.(53)
Forse chi ha scritto il passo non la pensa come noi, ma crediamo di non dire
stramberie affermando con convinzione che è il narratore a propendere per la vita
ambigua, polivalente, doppia “frivola, teatrante”, o almeno a raccontarla in tal
modo, immergendo il protagonista ignaro in tale sorta di mondo. “Ma se sottrarsi al
deserto è impossibile per il personaggio, non lo è per il suo autore” sentenzia anche
S. Lanuzza.(54) Il narratore dimostra di conoscere il mondo, di rapprensentarne
un’immagine che è realistica, duttile, camaleontica, volendo. Portiamo a
testimonianza di quanto affermiamo un commento di W. Pedullà, per cui in
Horcynus Orca: “Ogni scandalo viene smussato e arrotondato e fatto rotolare e
girare e rimesso in circolazione come se fosse un evento normale con cui il mondo
ha sempre continuato a girare”.(55) A questo punto risulta evidente che non è dello
stesso parere il protagonista, il quale, dopo avere incontrato le più svariate
metamorfosi senza lasciarsi contagiare, e avere attraversato un mare di morti, pur di
giungere alla sua immaginata utopica Cariddi, una volta constatata l’evoluzione che
ha subito e continua a subire la comunità del suo villaggio, si adopera per rimettere
in ordine il mondo della sua infanzia, con ostinazione e pertinacia. Ancora, per
tornare alla distinzione, che facevamo all’inizio sull’incipit, tra l’armonia epica e
l’aritmico tempo della Storia, potremmo dire che la dilacerazione ha avuto due
proseliti nel romanzo, dove il primo movimento è danzato dal nostro eroe, il
secondo orchestrato magistralmente dal narratore. Per finire, su questo punto,
riguardo a uno degli episodi più importanti del testo, nonché più complessi e di non
esauribile interpretazione, parliamo delle due allegorie quali sono l’orca e le fere,
che si sono stabilite sullo stretto in una lotta che è epica, ma, secondo l’analisi di C.
Marabini, anche quotidiana.
Le ‘fere’ hanno esaltato la loro natura nel corpo dell’Orca e l’hanno distrutta
ristabilendo la quotidianità del Male o, se si vuole, del rischio nella vita dei
pescatori. La metafora della vita maligna ha decapitato se stessa nel punto in
cui travalicava verso significati extranaturali, come Male eterno o Morte
eterna, per restare pena quotidiana, piccola morte d’ogni giorno, dolore.(56)
Anche qui pare che il narratore abbia voluto suggerirci, in un quadro che lo
concentra, lo scontro dei due cosmi portati avanti per tutto il libro. Un cosmo che
punta all’eterno, al mito, alla ciclicità atemporale e utopica, in cui crede ‘Ndrja, e
l’altro, quello trionfante e inafferrabile, che s’inventa ogni giorno, di cui è
testimone il narratore.
Il nostro eroe può essere definito personaggio-cometa, figura ben analizzata
da F. Ferrucci, e quindi “ destinato al viaggio”, a incontrare microcosmi, a passare
attraverso i morti, “fino a perdersi, se necessario, sorte ahimè anche troppo comune,
o a chiudersi in qualche modo tra Penelopi borghesi e rimpianti fasulli”.(57)
Come la donna affonda e dice vieni
dentro più dentro dov’è largo il mare…
Come la donna è calda e dice vieni
dentro più dentro dov’è il pane…
E dirla noi vorremmo mare pane
la donna sfatta che ci prese all’alba
dentro il suo petto e ci nutrì di sonno (58)
Secondo G. Pontiggia, nell’intervista rilasciata a C. de Santis (59),
l’endecasillabo che suggella il romanzo è una citazione dalla poesia di Alfonso Gatto
qui sopra citata. Trapela, ancora una volta, il desiderio di ritorno al grembo
materno. Nella poesia si parla di una donna sfatta, che potrebbe benissimo essere la
Ciccina Circè del romanzo, la quale, in veste di figura sostitutiva della madre, e
attraverso uno dei suoi simboli quale è il mare, nutre e accoglie definitivamente
‘Ndrja.
La partenza, per la guerra nel nostro caso, da una comunità ristretta, come
Cariddi, di uno qualunque dei suoi membri, deve essere vissuta come una sorta di
trapasso dal quale difficilmente si tornerà. Insomma, se dovessimo ricostruire lo
status di ‘Ndrja nel momento in cui lascia la comunità, dovremmo pensarlo come
uno spatriato e “ogni spatriato, è metaforicamente un morto”.(60)
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4 – continua