I Diavoli e Madame Bovary
di Andrea Muzzarelli
Via, via volò l’aeroplano, finché non fu che una scintilla, un’aspirazione, una concentrazione, un simbolo (così sembrava a Bentley, che con vigore spianava il suo pezzetto di prato a Greenwich) dell’animo umano; della sua determinazione, pensò Bentley, girando attorno al cedro del Libano, a uscire dal corpo, ad andare oltre la propria casa, grazie al pensiero, ad Einstein, alla speculazione, la matematica, la teoria di Mendel – l’aeroplano volava via.
Virginia Woolf, Mrs Dalloway (1925)
Nel 1956 lo scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt scrisse un racconto intitolato La panne. Il protagonista risponde al nome di Alfredo Traps: quarantacinquenne rappresentante di tessuti, egli conduce una vita che, tutto sommato, sembra soddisfarlo. Ha una moglie che tradisce – con discrezione e ben pochi sensi di colpa – durante i lunghi viaggi di lavoro, quattro figli, ed é appena riuscito a ottenere un’importante promozione che potrebbe dare una svolta alla sua carriera lavorativa. Di ritorno da un viaggio d’affari, un banale guasto al motore della sua auto lo costringe a pernottare in un piccolo paese.
Nel corso della sua vita, l’eclettico Aldous Huxley (1894-1963) – saggista e romanziere divenuto celebre grazie alla distopia del Mondo Nuovo – si è interessato ai più diversi argomenti. Tra questi, l’autotrascendenza occupa senza dubbio una posizione di notevole rilevanza. Huxley trattò questo tema in diversi lavori (tra i quali dobbiamo ricordare almeno I diavoli di Loudun e Le porte della percezione) e, alla stregua degli esperimenti condotti da Freud con la cocaina alla fine dell’Ottocento, cercò anche di studiarlo sotto il profilo biochimico sottoponendosi in prima persona ad esperimenti con la mescalina.
In cerca di un alloggio per la notte, Traps viene a sapere che un anziano magistrato in pensione ospita saltuariamente viaggiatori nella propria villa. In principio perplesso (in questo modo svaniscono i suoi vaghi progetti di un’occasionale avventura extraconiugale), Traps decide infine di chiedere ospitalità al magistrato, e nel tardo pomeriggio raggiunge la villa, dove è accolto con il massimo riguardo. Di lì a poco viene invitato all’imminente cena alla quale prenderanno parte, secondo un rituale consolidato, alcuni amici di vecchia data, anch’essi giudici e avvocati in pensione. Traps vorrebbe rifiutare, ma la prospettiva di scroccare un lauto pasto è allettante; oltre a ciò, egli è anche incuriosito dal divertissement cui i convitati si dedicano abitualmente: forti della loro esperienza, essi compongono un tribunale e riesaminano fatti storici o di cronaca con l’intento di emettere una loro personale sentenza. Il rappresentante accetta.
L’autotrascendenza rappresenta la peculiare capacità dell’uomo di uscire dal proprio io isolato per identificarsi con forza in qualcosa di altro che, per le ragioni più diverse, lo gratifica e gli permette di meglio sopportare la propria condizione. In quanto organismi continuamente assillati da bisogni e destinati consapevolmente al deperimento fisico e alla morte, l’autotrascendenza rappresenta per gli esseri umani una via di fuga il più delle volte indispensabile per conservare un certo equilibrio psicologico. L’arte, in tutte le sue forme, è (sia per chi la crea che per chi ne usufruisce) un potente mezzo per l’autotrascendenza; e lo stesso vale per la scienza e, in misura ancora maggiore, per la religione. In fin dei conti, dobbiamo nutrire ammirazione, gratitudine e disprezzo nei confronti di questa potente pulsione, poiché è ad essa che dobbiamo le cose migliori e peggiori, i paradisi e gli inferni che l’uomo ha creato e vissuto nel corso della sua storia.
Grazie alla corteccia cerebrale, ossia alla parte del cervello più recente in termini evoluzionistici, gli esseri umani sono dotati di un’autoconsapevolezza che non ha paragoni nel regno animale. Altre due capacità cognitive in noi molto sviluppate sono l’insight e le mappe mentali: la prima serve a visualizzare le possibili strade alternative per raggiungere un certo obiettivo o risolvere un determinato problema; le seconde permettono, ad esempio, di costruire nella propria testa l’immagine tridimensionale di un luogo geografico all’interno del quale possiamo così orientarci. Come suggerisce anche l’etologo Danilo Mainardi nel saggio L’animale irrazionale (2001), è verosimile ritenere che insight e mappe mentali siano tra i principali fattori che ci consentono di creare, immaginare e, in ultima istanza, di autotrascenderci. Quanto all’autocoscienza, essa è a monte di tutto il nostro discorso, perché se non fossimo consapevoli della caducità della nostra natura, se non nutrissimo ragionevoli dubbi sul fatto che la nostra vita e la nostra presenza nell’universo abbiano un qualche senso, allora il bisogno di disporre di vie di fuga sarebbe estrememente debole, perché la nostra sarebbe un’esistenza per lo più istintuale. La compiuta acquisizione dell’autoconsapevolezza ha rappresentato la nostra cacciata dal Paradiso Terrestre, perché è stato a quel punto del nostro percorso evolutivo che abbiamo disgraziatamente cominciato a fare dei confronti fra ciò che è e ciò che potrebbe (o dovrebbe) essere. Quando Adamo ed Eva reallizzarono di essere nudi, iniziarono a sognare delle foglie di fico per coprirsi, e quello fu soltanto l’inizio.
Si discute per decidere il caso da sottoporre a processo, e quasi subito la scelta cade su Traps, il quale, piuttosto divertito all’idea di impersonare il ruolo dell’imputato, acconsente. Una volta individuati il giudice, il pubblico ministero e l’avvocato difensore, la cena e il processo possono avere inizio. Traps si dichiara innocente sin dal principio, affermando che nel suo passato non vi è nulla di perseguibile in sede penale. Ma l’accusa è molto scettica al riguardo, e comincia a tempestarlo di domande sulla sua vita privata e lavorativa.
Se prendiamo in esame l’alba dell’uomo, abbiamo quindi la possibilità di osservare che, nell’arco di un percorso evolutivo di milioni di anni, le successive modificazioni biologiche che hanno interessato la nostra specie ci hanno conferito una notevole capacità di autotrascendenza. Una volta raggiunto l’attuale stadio evolutivo di homo sapiens sapiens (diverse centinaia di migliaia di anni orsono), la più o meno forte pulsione verso l’impiego di questa capacità è stata profondamente influenzata da fattori non biologici, ma esogeni: fattori culturali, economici, politici, sociali e storici che si sono sovrapposti, combinati e scontrati fra di loro nel corso di millenni.
Il passaggio all’agricoltura, avvenuto circa diecimila anni fa, ha segnato senza dubbio una svolta epocale nella storia dell’umanità. Prima di quella svolta, ogni individuo adulto e autosufficiente era costretto a dedicare la maggior parte del proprio tempo alla caccia, faticosa e, soprattutto, rischiosa. Con l’agricoltura le cose mutarono radicalmente: liberato dalla quotidiana preoccupazione di doversi procurare con difficoltà e pericoli del cibo, l’uomo cominciava ad avere finalmente il tempo di dedicarsi ad altro, il tempo (per fortuna e per disgrazia) di pensare. Era, questo, il presupposto fondamentale per il fiorire del commercio, delle arti e della tecnica. Proprio per tale ragione la nascita dell’agricoltura può essere interpretata come la prima tappa di un lento e difficoltoso processo di affrancamento dell’uomo dai vincoli impostigli dalla natura, il primo traguardo in un lungo cammino verso la liberazione personale. È tuttavia curioso osservare che è stato proprio questo importante traguardo ad aver innescato il processo che ha poi condotto alla formazione di nuclei sociali sempre più ampi e complessi: e, come è noto, nel corso della storia le società umane hanno creato vincoli e catene non meno forti di quelli naturali.
Convinto della propria innocenza, Traps (con grande disappunto dell’avvocato difensore) risponde candidamente e con dovizia di dettagli a tutte le domande che gli sono rivolte dal pubblico ministero. Emerge così un elemento di grande importanza per l’accusa: in passato, Traps ha avuto una relazione con la moglie del superiore defunto di cui egli ha preso il posto; come se non bastasse, si scopre anche che il superiore in questione era gravemente malato di cuore, e che qualsiasi violenta emozione poteva pertanto essergli fatale. Gradualmente, emergono i tratti essenziali di un diabolico disegno criminoso. L’accusa gongola, la difesa arranca, ma l’imputato, noncurante, continua a gustare il proprio pantagruelico pasto.
Così come la nascita dell’agricoltura ha forse rappresentato il punto di partenza di un processo di liberazione dalla sudditanza nei confronti della natura, allo stesso modo la piena affermazione del capitalismo e della borghesia durante il diciannovesimo secolo può essere letta come il principio di un diverso tipo di liberazione: quella dalle molte barriere che avevano caratterizzato la società fino a quel periodo storico. Dopo il crollo dell’Ancien Régime e l’inevitabile declino del ceto nobiliare, nella seconda metà dell’Ottocento la classe borghese cominciò la sua graduale ascesa al potere, facendosi portatrice di valori profondamente diversi da quelli che avevano da sempre contraddistinto la nobiltà. Per illustrare queste differenze, non potremmo trovare parole migliori di quelle impiegate dall’economista e sociologo Peter L. Berger nel saggio La rivoluzione capitalistica (1986):
La borghesia esaltò la razionalità e un globale “metodismo” di vita (…) in contrapposizione alla fede riposta dagli aristocratici nell’”istinto salutare” e nella spontaneità. Ne conseguiva che il borghese sapeva che il suo stile di vita era frutto di autoeducazione; l’aristocratico credeva (falsamente, si potrebbe sottolineare) che il suo stile di vita fosse espressione di eredità genetica o di “lignaggio”, come direbbe lui. Seguiva altresì che il borghese rispettava il sapere mentre l’aristocratico lo disprezzava, almeno nella sua forma di “sapere libresco”. (…) Il borghese credeva nella virtù del lavoro, laddove l’aristocratico esaltava l’ozio (manierato). (…) Il borghese dava molta importanza alla responsabilità personale (“coscienza”, particolarmente nella sua versione protestante), mentre l’aristocratico faceva affidamento sull’”onore”, concetto decisamente più collettivistico.
Secondo la tesi sostenuta da Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), questi caratteri peculiari della cultura borghese e capitalistica erano legati alla religione protestante e, in particolare, al calvinismo. La teoria della predestinazione (secondo la quale la salvezza o la dannazione di ogni individuo è già decisa al momento della nascita) spingeva infatti i puritani a quello che Weber chiama ascetismo infraterreno, ossia ad una vita condotta all’insegna della tenace e sistematica accumulazione di beni secondo una ferrea disciplina e un rigoroso autocontrollo. Con qualche forzatura teologica, il puritano era portato a pensare che se in questa vita le sue fatiche ed i suoi sacrifici fossero stati ricompensati dal successo e dal benessere economico, nell’altra difficilmente gli sarebbe stata negata la salvezza dell’anima; al contrario, un eventuale fallimento sarebbe stato l’inequivocabile segno premonitore di una dannazione eterna già decisa. La tesi di Weber è certamente interessante e verosimile ma, al di là del protestantesimo, è indubbio che la logica che governa il modello economico capitalistico contenesse già in sé molti degli elementi peculiari della cultura borghese (basti pensare all’individualismo, alla logica dell’accumulazione, al valore positivo attribuito al lavoro e alla responsabilità personale, tutti egualmente importanti per garantire il buon funzionamento di un libero mercato).
Questa cultura è la chiave per comprendere le ragioni che ci hanno portato a individuare nell’ascesa della borghesia il punto di partenza di un processo di smantellamento di molti vincoli sociali.
Con la piena affermazione del capitalismo il criterio – non esclusivo, ma predominante – di suddivisione della società divenne quello della classe. L’appartenenza di un individuo a una determinata classe (e dunque la sua posizione sociale) è determinata dal posto da questi occupato nel processo produttivo; ne segue che modificando la propria posizione in tale processo è possibile cambiare, sia in meglio che in peggio, il proprio status sociale. Il potere politico ed economico, legato in precedenza alla nobiltà del proprio sangue, si vincola ora saldamente al controllo esercitato sui mezzi di produzione, ovvero alla quantità di capitali posseduti. Ed è qui che entra in gioco la mentalità borghese: facendo del lavoro un fondamentale valore di vita, e dedicandosi con abnegazione al risparmio e all’investimento secondo quell’ascetismo infraterreno di cui parlava Weber, chiunque, a prescindere dai propri natali, può accumulare capitali e raggiungere le alte sfere della società. Se nel passato le stratificazioni sociali erano state caratterizzate da barriere pressoché insormontabili, per cui le sorti del singolo erano in larga misura già decise al momento della nascita, ora le cose erano completamente diverse. Si era agli albori di una mentalità contraddistinta da una vertiginosa moltiplicazione delle aspettative; una mentalità che è divenuta dominante nelle società occidentali del ventesimo secolo, improntando di sé il Sogno Americano e l’american way of life. Ancora oggi siamo fortemente influenzati da quel modo di ragionare, ma esso è divenuto familiare al punto che non ne siamo più del tutto consapevoli.
L’accusa incalza Traps e scopre che, in effetti, il suo superiore è morto per un attacco di cuore presumibilmente legato alla scoperta della relazione extraconiugale della moglie. Ma in che modo egli sarebbe giunto a conoscenza di tale relazione? L’imputato nega di averglielo rivelato personalmente, ma ammette tuttavia di averne fatto parola con un collega di lavoro; il quale, in un momento successivo, lo avrebbe poi potuto confessare al futuro defunto. A questo punto la trama criminosa diventa cristallina: Traps, desideroso di prendere il posto del capo per ottenere più potere e ricchezza, ha progettato tutto nei minimi dettagli con diabolica premeditazione. Prima si è infilato nel letto della moglie, poi ha fatto in modo che il superiore ne venisse a conoscenza ben sapendo che ciò gli sarebbe stato fatale. Il pubblico ministero termina la propria arringa, complimentandosi con l’imputato per aver ordito un crimine sfociato nel delitto perfetto, un complotto degno delle migliori tragedie shakespeariane.
È giusto definire quanto appena descritto come una conquista sociale di portata storica? Possiamo ragionevolmente rispondere di sì, poiché senza dubbio la libertà riconosciuta al singolo individuo è aumentata – quantomeno sotto un certo punto di vista – in modo considerevole. Purtuttavia, questa liberazione ha comportato un pesante prezzo da pagare, e ha acquisito un’ambiguità di fondo non molto dissimile da quella che ha caratterizzato l’avvento dell’agricoltura.
Il borghese che si vuole affermare come attore autonomo deve imporsi una rigida disciplina che richiede molti sacrifici: senso della responsabilità personale, frugalità, capacità di risparmiare e rinviare la gratificazione, e così via. Tutti questi sacrifici restringono inevitabilmente la libertà individuale, entrando in collisione con molte delle esigenze della natura umana. Senza trascurare il fatto che una pur religiosa dedizione non è garanzia del raggiungimento dell’obiettivo desiderato: e un’aspirazione frustrata è anch’essa una pesante limitazione alla libertà del singolo. «È stato questo», scrive Berger, «l’aspetto “repressivo” (in termini freudiani) o perfino tirannico della cultura borghese».
A fianco di questo lato “tirannico” della cultura borghese esiste anche una dimensione “rassicurante” che si ricollega agli aspetti più metodici e sistematici di tale cultura. Dedicarsi in modo costante e sistematico alla progressiva accumulazione di un capitale; svolgere quotidianamente un lavoro che, pur nella sua ripetitività, permette di ottenere un certo benessere economico; formarsi una famiglia: sono tutti elementi, questi, che consentono di conquistare un decoro sociale e un agio sui quali basare un’esistenza tutto sommato confortevole e dignitosa.
Queste due anime della cultura borghese ne sottolineano ulteriormente l’ambiguità e le contraddizioni, e sono incarnate alla perfezione da due personaggi letterari, protagonisti del romanzo Madame Bovary (1857) di Gustave Flaubert. Charles Bovary, medico di provincia, conduce ordinatamente la propria vita e si dedica con serietà (ma senza un’autentica vocazione) al proprio lavoro; la sua è un’anima tranquilla, priva di particolari sogni e ambizioni, e l’amore che nutre per la moglie e la figlia è autentico. Emma, sua moglie, è l’esatto opposto: l’ordinaria vita quotidiana la soffoca, il marito e la figlia le sono perlopiù indifferenti, e nella propria irrequietezza va alla ricerca di un amore passionale ed eterno che le permetta di vivere l’esistenza straordinaria dei personaggi romanzeschi da lei sognati durante l’adolescenza. Il tradimento la porterà alla felicità prima, e alla delusione poi, fino al suicidio come unica via d’uscita da una condizione di insopportabile frustrazione. E con la morte Emma distrugge non solo se stessa, ma anche la propria famiglia.
Abbiamo sopra osservato che tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo la borghesia è divenuta la classe dominante, estendendosi (in termini di stratificazione sociale) sia verso l’alto che verso il basso, ed è certamente verosimile ritenere che questo processo abbia di fatto accresciuto le pulsioni verso l’autotrascendenza. Il borghese è, infatti, il candidato ideale alla frustrazione esistenziale e alla conseguente ricerca di vie di fuga.
Huxley individua due tipi di autotrascendenza: quella orizzontale, costruttiva (ma solo se temperata dal senso della misura), ha condotto l’umanità – nel bene e nel male – verso la religione, l’arte, la tecnica e la scienza; quella discendente, distruttiva, porta l’individuo verso l’alienazione nelle droghe, nell’alcool, e nei deliri di massa. E proprio sui deliri di massa Huxley focalizza la propria attenzione:
In molte comunità civilizzate la pubblica opinione condanna la deboscia e l’uso delle droghe come contrarie all’etica. (…) Ma quando passiamo (…) alla terza grande via di autotrascendenza discendente, troviamo, da parte dei moralisti e dei legislatori, un atteggiamento molto diverso e molto più indulgente. Ciò sembra tanto più sorprendente in quanto il ‘delirio di massa’, come potremmo chiamarlo, è più immediatamente pericoloso per l’ordine sociale, rappresenta una minaccia più drammatica a quella leggera crosta di convenienza, ragionevolezza e mutua tolleranza che costituisce una civiltà, sia dell’alcool che della deboscia. (…) In ogni caso in cui può essere usata per favorire gli interessi di coloro che controllano la Chiesa e lo Stato, l’autotrascendenza discendente per mezzo dell’ebbrezza di gregge è trattata come qualcosa di legittimo, ed anche altamente desiderabile.
Queste parole, applicate al Novecento, ovvero al secolo delle masse, acquistano una sinistra familiarità. La dittatura fascista in Italia e quella nazionalsocialista in Germania giunsero al potere non contro il volere delle masse di elettori, ma con il loro pieno consenso. Il caso tedesco in particolare è paradigmatico: l’economia era a pezzi, la disoccupazione alle stelle, il malcontento sociale diffuso. Ma alle elezioni del 1933 i tedeschi non votarono in larga maggioranza Hitler solo perché prometteva di sanare quella situazione (è evidente che anche le altre fazioni politiche promettevano le medesime cose). La frustrazione spinse l’elettorato verso l’autotrascendenza dell’ebbrezza di gregge, e in questo delirio collettivo il popolo tedesco identificò nella croce uncinata il simbolo di una Nuova Era per la Germania: un’era di prosperità nella quale la nazione avrebbe recuperato la propria identità e la propria forza, in Europa come nel mondo intero; un’era nella quale le masse (ecco la più grande illusione delle dittature) avrebbero partecipato direttamente alla gestione della cosa pubblica, in un modo che nei polverosi governi parlamentari di fine Ottocento non sarebbe mai stato possibile. Come Hitler si appellava alle virtù degli antichi ariani in sfarzose cerimonie di massa, così Mussolini rispolverava le glorie dell’antica Roma per indicare un futuro altrettanto grandioso. E la gente ci credeva. Non tanto per dabbenaggine, quanto perché voleva disperatamente crederci, voleva fare parte di qualcosa di unico e grandioso che la elevasse al di sopra della ripetitiva e grigia esistenza quotidiana. Il ruolo svolto in tutto ciò dalle pulsioni di autotrascendenza e dalla crescente affermazione del modello di vita borghese non dovrebbe essere sottovalutato. Ciò non solo per il peso che l’autotrascendenza ha nella vita di ogni individuo, ma anche perché i pericoli connessi ai deliri di massa sono sempre in agguato, per quanto democratici e civilizzati possiamo considerarci.
La cena volge al termine. Traps, sazio e soddisfatto, finisce per convincersi delle tesi sostenute dal pubblico ministero. Quanto afferma l’avvocato difensore – e cioé che egli non avrebbe mai avuto l’ingegno e il coraggio necessari per attuare un piano del genere – non può essere vero. Egli ha realmente concepito quel meraviglioso e diabolico progetto, e merita per questo la pena capitale. Superate alcune perplessità, il giudice decide di appoggiare le argomentazioni dell’accusa e Traps, con grande gioia, viene condannato a morte.
In prospettiva, le argomentazioni fin qui svolte assumono una rilevanza ancora maggiore: il processo di massificazione procede inarrestabile; la globalizzazione richiede delicate integrazioni politiche, economiche e culturali sempre maggiori; la scienza e la tecnologia promettono nuove liberazioni per l’uomo. In generale, ci si sta muovendo in una direzione che porterà all’abbattimento di barriere e al superamento di limiti in una misura un tempo impensabile. Purtroppo, la conquista di nuove libertà porta spesso con sé nuovi vincoli e costrizioni, e la moltiplicazione delle possibilità conduce a quella delle aspirazioni e delle potenziali frustrazioni. Internet, la realtà virtuale, la televisione, le masse che si accalcano nelle discoteche, negli stadi e nelle sale cinematografiche: sono tutte ottime ragioni per cui è plausibile ritenere che, nel prossimo futuro, la nostra spinta verso l’autotrascendenza sia destinata non a indebolirsi, ma a potenziarsi ulteriormente.
Dopo il brindisi e i saluti, il rappresentante è tra i primi a ritirarsi nella propria stanza per la notte. Il giudice e pochi altri rimangono ancora alzati per redigere su pergamena la sentenza, motivata con svolazzanti ed ampollose argomentazioni. Salgono quindi le scale e si dirigono nella stanza di Traps per lasciargli la pergamena come ricordo della serata. Ma quando aprono la porta, scorgono nel buio un corpo che penzola nel riquadro della finestra: il rappresentante generale Alfredo Traps, rispettabile padre di famiglia nonché serio lavoratore, si è appena impiccato.
ANDREA MUZZARELLI
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E’ appena necessario aggiungere che al delirio imperiale degli italiani che con Mussolini sognavano di tornare alle glorie di Roma, si è oggi sostituito il delirio televisivo degli italiani che sognano di andare in televisione. E che, mentre gli eroi di cartapesta del fascismo forse scimmiottavano con successo Ben Hur o Cesare Augusto, i nostri eroi da Grande Fratello sanno a malapena leggere e scrivere? Livellarsi al basso…forse l’autotrascendenza ha invertito il senso..non una pulsione per così dire ascensionale, ma una discesa verso l’abbrutimento scelto come approdo sicuro ( se tutti fanno il peggio, nessuno è responsabile) Lynndie England insegna…o no?