La scena della risposta #2
sbobinato da Tiziano Scarpa
IL MIO AMICO CRITICO: Sei un po’ vago… Dimmi chiaramente quale sarebbe l’alternativa al mio modo di fare critica.
IO: Quella della seconda scena che ti ho descritto prima. La scena della risposta. Tu, come critico, agli scrittori non devi dare una valutazione estetica, ma una risposta. Non devi dire se certe opere corrispondono o no a un’operazione estetica accettabile, ma devi dare una risposta! Gli scrittori, con i loro libri, parlano! Non sono lì per farsi dire “bravo” o “incapace”! Non siamo a scuola. Nei nostri libri diciamo delle cose. Tocchiamo grumi, nodi, nervi! Vogliamo delle risposte. Non elogi o giudizi di valore.
IL MIO AMICO CRITICO: Ecco. Sei arrivato al punto. Il tuo dirscorso più che altro mi sembra troppo politico. Chiedendo di spostarmi dalla scena della critica a quella della risposta, come la chiami tu, mi stai chiedendo una cosa madornale, inaccettabile: di trasformare l’arte in politica.
IO: Perché?
IL MIO AMICO CRITICO: Perché se io rispondo alla tua opera con un discorso che si pone sullo stesso livello del tuo, io non tutelo più la differenza del tuo discorso artistico rispetto al discorso comune. Tu mi stai chiedendo di trascinare per i capelli l’arte, strattonandola in malo modo, gettandola senza difese nella piazza politica. Non riesci a capirlo, questo?
IO: Non tanto.
IL MIO AMICO CRITICO: Ascolta. Tu scrivi un libro. Un libro di letteratura. Poesie, racconti, romanzo, fa’ tu. Un libro ha metafore, sensi allegorici, fa parlare personaggi che non sono tuoi portavoce, mette in scena azioni che tu non condividi eticamente, giusto? Come posso io attribuire queste cose direttamente a te, a rendertene direttamente responsabile, come si fa con il discorso comune? Non vedi che ti farei un pessimo servizio? Io devo fare esattamente il contrario! Devo misurare la distanza fra quelle cose e te, fra l’opera e te. Devo astrarla dalla tua persona, per vedere come agisce la tua invenzione in sé. Non posso chiederne conto direttamente a te, ma all’opera e basta. E questa misurazione, questo chiedere conto all’opera me lo rendono possibile proprio quegli strumenti dell’estetica che tu detesti.
IO: Io non ti chiedo di rinunciare a quegli strumenti. Ti chiedo di fare agire anche quelli dentro un discorso diretto, un discorso diretto innanzitutto a me che sono vivo e ti ho parlato, ti ho detto delle cose con la mia opera. Ti chiedo di rispondermi, con la tua opera.
IL MIO AMICO CRITICO: Ma quale opera?
IO: La tua opera critica. Che è un’opera anch’essa. Sei uno scrittore anche tu. Scrivi anche tu.
IL MIO AMICO CRITICO: Ma non voglio creare come te. Voglio capire, interpretare.
IO: No, tu, per adesso, tu mi vuoi neutralizzare, mi tratti come se fossi un autore morto, assente, sordomuto. Non vedi che in quella regoletta del galateo, che sembra semplicemente un consiglio per fare bella figura, una postura signorile dello scrittore che non si abbassa a rispondere al suo recensore, sta nascosta in realtà una concezione terribile della letteratura e dell’opera d’arte? Significa che io e te non possiamo parlarci. Che io e te non abbiamo la possibilità di dialogare.
(2 – continua)
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Faccio alcuen osservazioni dal punto di vista del ‘lettore’. Credo che i metodi per valutare un racconto, una poesia, etc. dipendano anche dall”oggetto’ che si ha di fronte. E quindi possono cambiare. Detto questo e per quel che mi riguarda, è sempre necessario inquadrare storicamente il lavoro di qualcuno, tenendo conto che la consocenza che abbiamo dell’autore di un’opera influisce molto sul nostro giudizio. Esistono poesie come ‘Puss my Daisy’. Se la leggo e non so che è di Kerouac, posso pensare di averla scritta io da ubriaco. Se so che è di Kerouac prima di averla letta, potrebbe scattare in me (come in qualsisasi altro lettore) ‘precomprensione’, ‘pregiudizio’ ‘odio’ o ‘amore a priori’ (dipende dal lettore). Lasciando da parte elementi come l’età, l’umore, la attuale situazione finanziaria e sentimentale, sono convinto che buona parte delle cose che ho letto avrebbero altri significati se non avessi ricercato un costante ‘dialogo’ con l’autore (nel caso di un morto: con il resto delle sue opere, con le notizie che hai della sua vita e via dicendo). Il fatto che l’autore sia conosciuto o sconosciuto, lo stesso modo in cui è valutato dalla critica, l’averlo studiato a scuola: mi domando quanto elementi del genere condizionino tuttora i miei giudizi. Insomma il mio personale problema è quantomai risaputo e risale a un’interminabile adolescenza, fatta di sterili discussioni sulla ‘letteratura’. Se all’esterno ti dicono: ‘Questa è arte, anche se a te fa schifo’, che si fa? Forse è per questo che ho inziato a scrivere. Per smettere un po’ di leggere.
Condivido la riflessione di Marco Mantello, e su questo blog volevo porre una riflessione a riguardo dell’opera di Cattelan a Milano (non voglio fare l’ennesima polemica, anzi…) ma sento di dire che quell’opera fata da Cattelan è stata vista come un’operazione intelligente e contemporanea, mentre se l’avesse fatta un qualsiasi artista sconosciuto lo si avrebbe denigrato e “mandato al suo paese”, invece, avendola fatta Maurizio Cattelan, se ne scrive anche in prima pagina. Purtroppo il nome e quello che evoca quel nome ci condiziona, giustamente (?)…
La scena precedente, quella della fine dell’inseguimento, io la so a memoria. A parte la storia delle fiale americane, quelle per il fegato.
ho aperto dopo tempo nazione indiana, ho letto questa cosa di tiziano scarpa sull’etica della risposta… e sono assolutamente, perfettamente d’accordo. trattare l’opera di un autore come cosa viva (di un autore giustamente vivo e presente, dice tiziano, non morto assente o sordomuto), è un discorso che assomiglia molto (lo dico a tiziano) a quello che ho svolto ormai parecchie volte sul volto, che è il contrario del ritratto. il ritratto obbedisce a una fisiognomica, a un tentativo di assoggettamento, di addomesticamento (dell’altro), che neutralizza la frontalità e la presenza, e che storicamente si è giustificato ammantandosi di chiacchiere sull’assenza (la morte), il simulacro o le vestigia di chi non c’è piu’, è assente… No, è vero il cointrario. Il volto è ciò che guarda, quindi ci riguarda, e a cui si deve rispondere (è questo che turba). E se si considerassero le opere come dei volti (anche i bambini di cattelan, perché no? anzi: i bambini di cattelan avevano occhi che guardavano e turbavano, e forse li hanno tirati giu’ per questo), dico se si btrattassero come volti anche le opere, quelle letterarie non solo ovviamente quelle plastiche, credo che avremmo un’etica della risposta come quella che descrivi tu, tiziano. e invece i critici, appunto, sono abituati a fare “ritratti”, anche loro, per rassicurare innanzitutto se stessi, ma anche forse tutti gli altri, tutti noi, come se l’assenza – in qualche modo connaturata a chi scrive (come dimostra anche questo blog, e questo mio “post”, testamentario come ogni scrittura) – servisse da alibi a un turbamento molto piu’ grande e impegnativo, che provvisoriamente potrei chiamare sporcarsi le mani o mettersi in gioco, o comunque qualcosa di rischioso, come un faccia-a-faccia appunto (ancora il volto). il mio amato Lévinas diceva che quando guardo qualcuno in faccia non mi ricordo né mi accorgo di che colore siano i suoi occhi, come siano il naso e la bocca, tutto preso come sono a fargli fronte, tutto preso come sono a questo rispetto e relazione che il volto instaura, e che per lui è la quintessenza dell’etica come presenza e responsabilità (cioè risposta). ecco, mi chiedo cosa diventerebbe la critica se prendesse sul serio questo atteggiamento. credo che si potrebbero scrivere e leggere dei capolavori di risveglio, in tutti i casi degli scritti degni di attenzione… (ho screitto in fretta senza rileggere, spero che l’esito non sia catastrofico). un caro saluto, beppe s.