La scena della risposta #3
sbobinato da Tiziano Scarpa
IL MIO AMICO CRITICO: Non possiamo parlarci sullo stesso piano, dentro le nostre opere. Tu parli attraverso la tua opera, io attraverso la mia (visto che hai la bontà di considerare “opera” anche quel che scrivo io). Possiamo parlarci fuori delle nostre opere.
IO: E io questo ti chiedo!
IL MIO AMICO CRITICO: Ma conta poco.
IO: Perché?
IL MIO AMICO CRITICO: Perché sono le nostre opere che contano. E le nostre opere, la tua e la mia, sono incommensurabili. Hanno statuti diversi.
IO: E’ qui che non sono d’accordo.
IL MIO AMICO CRITICO: Ti faccio un esempio. Se non si chiamassero “poesie“, se insomma non esistesse quella tradizione millenaria che si chiama “letteratura”, le cose che scrivono molti poeti sarebbero considerate un’accozzaglia di frasi senza capo né coda. È dentro la cornice estetica che io riesco a valutare quelle frasi come una specie di oracolo, un enigma numinoso che sprigiona sensi meravigliosi, e nonsensi formidabili… Addirittura si tratta di discorsi speciali (di “poesie”, appunto) che superano la stessa logica del senso e del nonsenso. E io questi risultati enormi li posso raggiungere proprio grazie al fatto che non trascino le poesie dentro il discorso comune, nella piazza politica, prendendoli alla lettera come prendo comunemente tutti gli altri discorsi. Le poesie non verrebbero neanche prese in considerazione in piazza! Quei versi sarebbe impossibile spenderli,cioè scambiarli simbolicamente con un altro discorso, come si fa comunemente con gli altri discorsi. Uno dice: “Oggi fa freddo”, e l’altro gli risponde a tono: “Sì, ma si sta meglio di ieri”. Alla poesia invece non puoi rispondere sullo stesso stono.
IO: Ed ecco perciò che intervieni tu. E scambi le poesie con il tuo discorso specializzato! Te le accaparri. Fai il cambiavalute della poesia.
IL MIO AMICO CRITICO: Piano. Il discorso comune è una moneta, che si scambia con il suo senso, perché capita a proposito in una relazione umana. È congruo, pertinente: casca a fagiolo. Si scambia con un equivalente di valore, come una moneta con una merce, la quale merce dev’esserre pertinente in quel contesto e in quell’istante: al bar, tu scambi un euro con un caffè. Non è lo stesso se ti danno un rocchetto di filo da cucire, che pure costa lo stesso…
IO: Chiaro. Ma dove vuoi arrivare?
IL MIO AMICO CRITICO: Al fatto che tu vorresti obbligare la tua opera a comprare un caffè, a essere spesa tutta nell’istante storico e politico in cui si manifesta. Mentre la tua opera magari può significare ben altro, può sprigionare sensi secondari che io posso vedere, o forse no, magari oggi no, con la mia ottusità di critico da quattro soldi, non riesco a riconoscere, mentre un domani…
IO: Ecco, vedi. Mi prospetti un domani da morto, per negarmi il presente! Mi impedisci di spendere il mio euro adesso, di comprare il mio caffè con la mia monetina, in nome di una mostra di numismatica del futuro! La mia opera deve agire nel presente! È scritta per il presente, innanzitutto. Per il futuro… bah, si vedrà. Non saranno in mano nostra, non li gestiremo noi, né io né tu, i sensi ulteriori che le generazioni future potranno o vorranno vederci. Ma ora, con questo discorso del diverso livello, tu uccidi la mia opera, le impedisci di agire.
IL MIO AMICO CRITICO: Non credere che abbia tutto questo potere!
IO: E’ un potere simbolico. Cioè effettivo. Chi decide che cos’è la letteratura sei tu, oggi.
IL MIO AMICO CRITICO: Ma neanche per sogno! È il pubblico, il mercato, le case editrici, la pubblicità, il passaparola dei telespettatori, al limite qualche mio collega o pseudocollega che sta in posti visibili, in televisione…
IO: Ma tu decidi che cos’è la letteratura nel suo agire effettivo, anzi, ineffettivo, inerte. La collochi in quella zona sociale dove la letteratura è pura estetica, è opera d’arte che va valutata nel suo valore puramente artistico. Che, tra l’altro, è una valutazione che finisce per essere mistica (che cos’è bello, infatti? E chi lo sa?). In questo modo tagli le gambe alla letteratura, non la fai entrare in circolo, le assassini qualsiasi contributo politico alla comunità. Impostando le cose come le imposti tu, la letteratura e l’arte stanno in quel posto inerte che si chiama piedistallo della bellezza, del canone, del senso metaforico, ecc., di cui tu sei il guardiano: prometti di innalzare, mentre in realtà ingabbi.
IL MIO AMICO CRITICO: Ma che dici? Ma se non faccio altro che stanare anche le implicazioni politiche dei tuoi simboli, le conseguenze delle tue metafore, il costo che avrebbe la messa in atto dei tuoi simboli…!
IO: Ma non lo dici a me. Lo dici al pubblico per metterli in guardia dalla mia opera. O, al limite, per esortarlo a leggerla, ad attraversarla. Ma a me non rispondi mai. Quando va bene, al massimo fai un’interpretazione. Cioè stani il senso nascosto dietro la metafora, per dirla semplicemente. Ma il tuo ruolo, la tua esistenza, il tuo lavoro sociale è quello di non far entrare la mia opera in circolo. La poesia non entra in città per colpa tua.
IL MIO AMICO CRITICO: Ma se faccio di tutto per farla conoscere! Per farla amare!
IO: Fai di tutto perché venga considerata una cosa sghemba, metaforica, che si mette in posa di profilo. Una cosa che, secondo quanto vai predicando tu, non dice mai veramente quel che dice, ma dice sempre qualcos’altro, un qualcos’altro che solo tu sai riconoscere e porgere alla società, mediando. E, contemporaneamente, rendi innocuo tutto con la valuazione estetica, dài i voti, mostri che una cosa magari è umanamente orrenda ma è un bel gesto artistico…
IL MIO AMICO CRITICO: Tu mi odi! E mi vuoi uccidere.
IO: Al contrario. Sei tu che tenti in continuazione di uccidere la mia opera. Di renderla inerte, innocua.
IL MIO AMICO CRITICO: Tu sei paranoico.
IO: Io ti voglio rendere come me. Sei uno scrittore anche tu! Non tirarti indietro. Parlami. Scrivimi. Guardami negli occhi. Dammi delle risposte! Rispondi alla mia opera con la tua opera. Dialoga con me.
IL MIO AMICO CRITICO: Io sono diverso.
IO: Non voglio che diventi uguale a me, ma che mi parli sullo stesso piano.
IL MIO AMICO CRITICO: Ma così uccidi l’arte.
IO: Forse. Ma torno a vivere io. E anche tu. E torna a vivere anche quello che facciamo, le nostre opere.
IL MIO AMICO CRITICO: Io sono vivo.
IO: Sei il guardiano del cimitero. Di un’arte morta. Non senti la puzza che sale dalle crepe? Andiamo via! Trasferiamoci da un’altra parte.
IL MIO AMICO CRITICO: Lontano dall’arte?
IO: Chi se ne importa!
IL MIO AMICO CRITICO: A me importa.
IO: Ci penseranno i tuoi eredi critici, se ce ne saranno ancora, e se non avranno di meglio da fare… ci penseranno loro a proclamare “arte”, a definire “artistico”, retrospettivamente, il posto dove stiamo per trasferirci!
IL MIO AMICO CRITICO: In effetti… È sempre stato così.
IO: E allora, che fai? Parti con me o no?
(3 – fine)
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Come irresistibile “risposta” dello scrittore “creativo” allo scrittore-critico, incollo questa poesia della Szymborska (Che sto leggendo. E che per me – lettrice ogni tanto atteggiantesi a improbabile “critica” – si merita il massimo dei voti, magari un Nobel… :-)
Recensione di una poesia non scritta
Nelle prime parole dell’opera
l’autrice afferma che la Terra è piccola,
il cielo invece fin troppo grande,
e, cito, “con più stelle del necessario”.
Nella descrizione del cielo si avverte una certa impotenza,
l’autrice si perde nello spazio orribile,
è colpita dall’assenza di vita su molti pianeti,
e presto nella sua mente (aggiungiamo: non rigorosa)
comincia a sorgere una domanda:
e se alla fine noi fossimo soli
sotto il sole, sotto tutti i soli dell’universo?
A dispetto del calcolo delle probabilità!
E della convinzione oggi universale!
Malgrado le irrefutabili prove che uno di questi giorni
possono cadere nelle mani umane! Ah, poesia.
Intanto la nostra professoressa torna sulla Terra,
un pianeta che forse “ruota senza testimoni”,
la sola “science-fiction che il cosmo può permettersi”.
La disperazione di Pascal (1623-1662, la nota è nostra)
sembra all’autrice non avere concorrenza
su nessuna Andromeda o Cassiopea.
L’esclusività ingigantisce e impegna,
sorge dunque il problema di come vivere et cetera,
dato che “il vuoto non lo risolverà al posto nostro”.
“Mio Dio,” grida l’uomo a se stesso
“abbi pietà di me, illuminami…”.
L’autrice si tormenta al pensiero della vita dissipata
con tanta leggerezza,
come se ce ne fosse una scorta inesauribile.
Delle guerre, che – secondo il suo dispettoso parere –
sono sempre perdute da entrambe le parti.
Dell’ “autorisadismo” (sic!) dell’uomo sull’uomo.
Nell’opera traspare un intento morale.
Forse sotto una penna meno ingenua avrebbe sfavillato.
Purtroppo, ahimè. Questa tesi fondamentalmente azzardata
(se alla fine noi fossimo soli
sotto il sole, sotto tutti i soli dell’universo)
e il suo sviluppo in uno stile disinvolto
(un misto di solennità e linguaggio comune)
obbligano a chiedersi chi possa crederci.
Certamente nessuno. Appunto.
Wislawa Szymborska
e giustamente il Nobel ha vinto, era l’anno 1996.
Oh io ne ho un’altra, che però mette in evidenza il rapporto di interdipendeza a volte o spesso opportunistica tra critico e scrittore (e tra questi e il Potere). E’ di un poeta salentino, Nicola De Donno, che scrive nel dialetto di Maglie. Trascrivo solo la traduzione, anche se perde molto in senso e sonorità.
Poeta e critico
Il poeta è una bestia
cui poppano alla mammella
il decoro e la modestia.
Se gli scende una virgola,
se gli esce uno “stitico”
dal buco della penna,
la più stupida il più arido,
li stampa a razzo, sicuro
che sono ori che interessano
il presente e il futuro
dell’umanità tutta.
Canta un uccello? si schiude un fiore?
Come fossero chissà che rarità,
che segnale di destino,
si straluna, e blablablà
arma tromba bombardino
e bandisce il messaggio a chi quel latino
lo sa e a chi non lo sa.
Che se poi vi sono capre
con il comprendonio tanto asfittico
che nessun vangelo gli sta dentro,
ad aprirglielo c’è il critico
militante, il quale
si aggrinzerebbe in aceti
se non ci fosse la poesia,
ciuccerebbe la pipa disoccupato
se ognuno la capisse.
La pariglia è combinata in modo
che tra critico e poeta
si danno fiato l’un l’altro.
L’uno inzucchera l’altro,
scopre simboli nascosti,
palpa l’anima segreta,
le Elicone bazzicate;
l’altro fornisce all’uno vigna
con ceppi maturi,
che sgraffigni grassi grappoli,
cantucci riparati
affinché si giostri e se la svigni,
se mai vi siano appostati
concorrenti di pennino
con gli articoli puntati.
Uno tira, l’altro
sta di bilancino
per lucrare un carlino.
Ché, per quanto presuntuosi,
altrettanto non sono cari:
con una spolverata di amido,
con un trenta denari,
con una targa (magari di latta)
ai premi letterari,
il Palazzo se li compra.
Forse per via dell’accenno al carlino la poesia citata da Graziano mi ha ricordato quella di Tommaso Campanella (Il popolo è una bestia varia e grossa…). Ma mi sembra anche un bell’esempio di come sia possibile vedere legittimamente la stessa cosa da diversi punti di vista e ricavarne opinioni opposte. Critici e scrittori non si capiscono ? Sì. Scrittori e critici sono complici ? Ancora sì.
Può anche darsi che siano vere l’una e l’altra cosa. Ma io sarei più interessato a sapere da Tiziano perché vuole risposte dai critici (e non, per esempio, dai colleghi o dal pubblico). Dopo tutto, qualcuno dovrà pur esprimere giudizi sull’estetica (e chi lo fa è per ciò stesso un critico). Certo, ci sono dei critici che sparano giudizi opinabili o addirittura stravaganti, ma pretendere una risposta proprio da loro mi sembra un eccesso di fiducia nel genere umano (che è una “bestia varia e grossa”, e per necessità statistica ne comprende di tutti i colori.)
Scusate se mi intrometto ma è successa una cosa eccezionale, ieri nella sacca della bici ho trovato una cassetta di un certo mark. L’ho sbobinata:
mark – salve sono mark, sto registrando questo nastro in cui tra poco compariranno anche le voci di “tu” e di “tuo-amico-critico” che a loro volta si stanno registrando. Ecco gli vado incontro…
tu (rivolto a tuo-amico-critico) – Lo conosci?
tuo-amico-critico – No. Scusi ha bisogno di qualcosa?
mark – ascoltavo la vostra conversazione sulla critica d’arte…
tuo-amico-critico – Embe’?
mark – No è che devo fare le sei per vedere una-mia-amica, manca mezz’ora, vi ascoltavo.
Non sono d’accordo!
tu e tuo-amico-critico (in coro) – Con la rinuncia all’aura museale da parte di Càttelàn che ha deciso di appendere i marmocchi fuori dal museo citando postmodernamente e moltiplicando postmodernamente la citazione di Pinocchio?!?
mark – No, col fatto che tu te la prendi con tuo-amico-critico e gli fai due palle così. Basterebbe ignorarlo.
tuo-amico-critico – Sei un bell’impertinente mark.
mark – Ma no, pensavo a Bruce o a Paolo.
tuo-amico-critico – Ah! Bruce de Lima Cardoso, il filosofo paratattile ispano portoghese che viveva in una spoglia casetta sul confine appunto tra Spagna e Portogallo? Conosco bene, ci sto tenendo un corso al politecnico sulla struttura delle case di confine. E Paolo chi sarebbe?
mark – Sono le sei meno cinque la-mia-amica mi aspetta, Bruce è quel tizio che canta Born in the USA, lui la critica la ascolta ma viene dal suo pubblico. Paolo è Paolo Nori, lui fa come Bruce (più o meno), legge in pubblico per provare i suoi testi (a volte canta anche con modesti risultati) e per essere sicuro che la critica non lo critichi ha intitolato la sua collana “Libri di Merda”. I lettori ci ridono sopra, la critica mica tanto, un certo Pallavicini si è chiesto chi vorrà farsi pubblicare scientemente in una collana con quel nome…
tuo-amico-critico – Il solito blogger demenziale che ha studiato al CEPU!
tu – Allora secondo te stiamo sbagliando tutto?
mark – Cazzo devo andare! No non stai sbagliando, fai cose veramente importanti, ma tenere presente che esistono anche i lettori semplici forse in un discorso critico può essere utile e anche un po’ eversivo. Vado, rispondi tu a tuo-amico-critico quando dirà che il lettore semplice è solo un mito. E’ stato un piacere conoscervi (si sente l’accensione di uno scooter e una violenta sgasata).
tu – E’ la cosa più difficile dialogare col pubblicooo!
mark – Lo so. Ciaooo!
Volevo dire in tutta libertà due cosette su questo tema e ringraziare scarpa per il pezzo, e l’ospitalità di questo blog.
Rigirando scartoffie ho ritrovato queste parole trascritte da “nero su nero” di Sciascia.
Mi servono a testimonianza della “palude” critica.
Scrive Sciascia:”Cosi è: bisogna sempre saper aspettare, tra realtà e poesia, che l’ equazione si compia.
Una parentesi: non so perché, nei miei percorsi di lettura, trovo come interlocutori i morti. Ho come l’impressione che gli ultimi ad aver detto – mi limito all’Italia- siano stati gli scrittori nati negli anni ’20.
Ciò significa che c’è tutta una generazione di mezzo, quanto grande questa forbice, che non ha saputo dire. Un nulla bruciante, pance piene!
Ma ritorno a Sciascia. La citazione turba. Dice che realtà e poesia arriveranno ad unirsi, forse a sovrapporsi. Oppure potrebbe forse voler dire che la realtà si adeguerà alla poesia. Quest’ultima, pero, mi pare una visione consolatoria, “stanca”; stanca come stanco era sciascia a quel periodo.
Sciascia sa che l’equazione non può essere risolta. Avrebbe fatto bene a dire che a parlare non era un vivo, bensì un morto, che chiudeva la questione profetando per mezzo di una formuletta buona, polita, levigata come una ronda, pronta ad essere azzannata, sappiamo da chi!( Pensano veramente costoro si sia compiuta l’equazione? mi sa di sì!)
Sciascia, grande mente illuminata, arrivato a questo punto, era in una profonda fase di pessimismo, la metastasi slargava sempre più, si capisce; Sciascia abdicava alla mera rappresentazione, chiudeva le porte.
La realtà non la si raggiunge mai, non c’è nulla da aspettare, la poesia non raggiunge la realtà, non PUO’ raggiungerla. La scrittura, quella vera, è pepe al culo, se la ride, non si accomoda, è mutamento, muta. quindi E’ la realtà! La vive!
La pelle cambia, si desquama.
La critica, invece, non muta, appunto perché è sistema, è come un cane rognoso, uno sciacallo, oramai non serve all’opera, piuttosto alla sua distruzione. I critici di oggi vogliono solo mangiare l’autore, compatirlo. Invece, dice bene scarpa, dovrebbero ricominciare a guardarlo generosamente negli occhi!
Stando così le cose, in questo torno di tempo, l a critivca viene sempre dopo, non la sente nessuno, sta sotto, è uno scambio sottobanco, non si facciano illusioni!
La critica è una morta. Non ci sono più universi che si scontrano, si preferisce non vedere il problema, non si mettono in campo le idee -forse non ve ne sono piu ?!- si mettono in campo, invece, leggende e deliri biografici, sensazionalismi putrescenti, mercificazioni, previsioni di oscure apocalissi.
Non essendovi slanci utopici, battaglie- che nessuno più conduce-, resta inciucio e livellamento pecorale, egualitarismo subdolo di sinistra da una parte, idee mercantili dall’altra. Consorterie e clan.
Eppure (sono tornato ma per poco, riparto fra qualche giorno), non ostante sia da sempre critico con i critici, io, in questo dialoghetto, parteggiavo per l’amico critico, più che per l’io narrante. Come mai?
Gianni
“La prima domanda del critico dovrebbe essere: Cosa hai da dirmi, opera?… Ma in genere questa domanda importa poco al critico. Il suo primo impulso è piuttosto: Allora, opera, fai attenzione a quello che ho da dirti!”
(Arthur Schnitzler)
Gianni, il dialoghetto di Scarpa intendi? Non so perché, cioè, spero che me lo dica tu.
p.s. Franz ti ha scritto una bella recensione apparsa su i miserabili.
Franz è un amico, e gli devo più di un caffè. A leggere la sua recensione il mio pare pure un bel libero! Robb de matt!
Sì, comunque, mi riferivo al dialoghetto scarpiano. Ma ora non ho tempo, ho la famiglia a tavola.
Ciao, Gianni