Rosa Rosae #2 – Apologia di Liala
di Mariolina Bertini
Détestez la mauvaise musique, ne la méprisez pas. Comme on la joue, la chante bien plus passionnément que la bonne, bien plus qu’elle, elle s’est à peu à peu remplie du rêve et des larmes des hommes. Qu’elle vous soit par là vénérable.
Marcel Proust
Nell’imagerie dell’orrore – letterario e cinematografico – automi e manichini, bambole e figure di cera, radici di mandragola e armature vuote debbono la loro sinistra fortuna alla forma che li sospende a mezz’aria tra la materia bruta e la figura umana, tra il vivente e l’inanimato, tra l’individuale e il meccanico. Nella perfezione della loro apparenza – perfezione che fa sì che l’Olympia di Hoffmann e la Tanya di Charles Bukowski possano essere oggetto di desiderio e d’amore- solo l’eccesso di regolarità apre una falla quasi impercettibile da cui filtra, inavvertito, l’orrore, per cristallizzarsi bruscamente nell’istante dell’incredula , improvvisa percezione della verità. I musei di figure di cera – con le loro sapienti penombre, la minuziosa precisione dei costumi e l’ipocrisia pedagogica che tra mannaie e ghigliottine addita virtuosamente la presenza della storia – sono la fissazione volontaria e consapevole, in una materia affine, del parossismo di attesa che precede il momento in cui si svela la non-umanità dell’automa; lo spettatore attirato sotto la cupola di Madame Tussaud o nell’androne vecchiotto del Musée Grevin, caro a Breton, da un minimo di congenialità, coltiva artificialmente in sé un brivido di sospetto analogo a quello suscitato dal rigido passo del Golem nelle viuzze di Praga, o dal canto metallico di Olympia. Non può che crogiolarsi nella paura-speranza che l’immobilità che lo circonda sia rotta d’improvviso dal gesto minimo e terrificante verso cui tutto si protende: uno sbattere di palpebre, il moto di una mano, l’accenno di un meccanico balletto. Assaporando questa tensione materializzata – tensione che un romanzo del grande John Dickson Carr ha distillato sino all’orlo della follia – egli entra, senza saperlo, nella schiera dei potenziali estimatori della scrittrice che solo per sacrilega leggerezza la neo-avanguardia degli anni ’60 ha potuto accostare all’inoffensiva mediocrità di Carlo Cassola: l’aristocratica Liala che, quasi a vendicare tutte le nefandezze commesse dalla borghesia dall”89 in poi, ne ha miniaturizzato sogni e desideri in una Fortezza della Solitudine sepolta tra i ghiacci di una perfezione senza défaillances; la gelida Liala, regina delle figure di cera, contessa dei manichini, ultima geniale rappresentante – con qualche pittore sovietico di provincia- di quell’iperrealismo involontario che ha, rispetto all’iperrealismo colto delle avanguardie, il fascino addizionale di prendersi rigorosamente sul serio; lo stesso fascino che ha reso immortali i film biblici di De Mille, i gangster di Corman e, soprattutto, certi calcolati e travolgenti mélo – Noi due sconosciuti, epopea passionale di una fulgida Kim Novak in seta rossa, Pandora e l’Olandese volante, sublime incontro di Ava Gardner e James Mason tra antiche pergamene profetiche e rombanti auto da corsa, l’efferata Altalena di velluto rosso di Fleischer, con quel delitto nel giardino pensile tra fiumi di champagne e abiti da sera che pare nato da una fantasia gemella di quella di Liala, schiusasi per una miracolosa coincidenza sotto i riflettori di Hollywood.
La crudeltà di questo genere di iperrealismo – che a differenza di quello intenzionalmente critico delle avanguardie predilige i toni caldi e i soggetti fastosi, con velluti, zaffiri e décolletés – è nell’intensità avvolgente dei colori, che non si attenuano mai e conferiscono alle figure una sorta di ossessiva tridimensionalità. Nei romanzi di Liala, tanto più la vita interiore dei personaggi è vuota, stereotipa, governata da un’implacabile scientificità tra pavloviana e lombrosiana, tanto più l’evidenza plastica delle figure si impone con un rilievo quasi offensivo: il colore dei capelli, degli occhi, dei vestiti di questi levigati e regolarissimi manichini (l’Industriale, la Maestrina, la Mantenuta, il Medico, l’Ex-ballerina) si accende in un trionfo da view master e, quando una delle eroine avanza verso di noi, è sempre come se , nello splendore del più sfacciato technicolor 1959, vedessimo la bambola Barbie o Luisa Lane avanzare in visone bianco e diadema di brillanti, sullo sfondo di una villa in stile babilonese-bizantino, mentre Helmut Zacharias et ses violons enchantés si alternano alle chitarre hawaiane tra fontane luminose e colonnati di marmo rosa.
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Alla perfezione visiva, Liala giunge attraverso un’ascetica sottomissione al detto di Kafka “Mai più psicologia” : spogliando le sue eroine e i suoi eroi di ogni particolarità, di ogni inclinazione individuale – eccettuate le inclinazioni amorose, che appartengono però più alla meccanica dell’intreccio che allo spessore umano dei singoli personaggi – riesce a concentrare con un prodigioso tour de main l’attenzione delle lettrici su quello che è il vero centro del suo mondo fantastico: le pellicce di ermellino o di “agnello persiano arancione con polsi e bavero di castoro nero”, le “fibbie di topazio intagliate a scarabeo”, gli abiti rosa orlati di visone, i mobili in pergamena cosparsi di pietre dure, le faraoniche stanze da bagno in rosso pompeiano e oro, gli armadi d’ebano intarsiati con cavallucci marini di corallo rosa, i copriletti di laminato d’oro, i tavolinetti di giada rosa, le scatole di lacca rossa a forma di drago. Questo martellamento descrittivo, di una precisione perversa e coatta, svolge nei romanzi di Liala una duplice funzione: da un lato veste di una fisicità tangibile i personaggi che, privi come sono di tratti specifici, resterebbero inafferrabili ectoplasmi; dall’altro ritarda, con uno stillicidio di calcolatissime interferenze, il lento dispiegarsi della trama, permettendo alla diabolica contessa di preparare nell’ombra i suoi colpi di scena , mentre il lettore abbagliato si perde tra scarpine e cinture assortite di antilope azzurra, sottovesti di pizzo “color gridellino” e salotti sfolgoranti di cristallo, argento dorato, alabastri, giade e porcellane “di finissima lavorazione”.
Come una ricchissima vegetazione parassitaria, le descrizioni intercalate nei romanzi di Liala avvolgono e dissimulano quanto vi potrebbe essere di troppo lineare o di troppo prevedibile nell’edificio narrativo, che di per se è sempre riconducibile a due modelli fondamentali: quello in cui un amore apparentemente “impossibile” si realizza felicemente, e quello in cui invece, dopo alterne vicende nel corso delle quali la protagonista soggiace a qualche tentazione e si declassa moralmente, si conferma veramente impossibile, e vede la propria impossibilità suggellata dalla morte della protagonista o da un triste matrimonio d’interesse. La semplicità di questo duplice schema è corretta dall’esuberanza dell’ornamentazione: non solo l’arredamento e le toilettes variano in un mobile caleidoscopio di irresistibili scelleratezze , ma anche la cucina e le pratiche igieniche (bagni e docce tra marmi, cristalli e fiumi di colonia inglese) creano continui centri d’attenzione secondari, dal fascino quasi ipnotico.
Le scelte culinarie di Liala non sono mai casuali o arbitrarie ma determinano, con rigore etnologico, ambiti sociali ben precisi : le minestre di verdura e le uova sode con l’insalata delimitano l’area della povertà; tagliatelle e salumi assortiti lasciano intravedere un ambiente contadino un po’ rozzo ma godereccio; tartine, antipasti elaborati e prime colazioni luculliane ci introducono, senza possibilità di errore, nelle classi alte, e si confondono con quell’ideale di opulenza vistosa e convenzionale che occupa, nel cosmo di Liala, il posto del Primo Motore Immobile ; ideale polimorfo e compatto, in cui si compenetrano armoniosamente i concerti di Benedetti Michelangeli e la salsa di caviale, le “prime” della Scala e i portafogli di coccodrillo bianco, i quadri di Sciltian e il pasticcio di tartufi. Un ideale il cui fascino irresistibile muove tutto, si esercita su tutti: ragazze per bene e future sciagurate, aspiranti attori e fioraie, contadinelle e aristocratiche sull’orlo della rovina. A volte con questa forza d’ attrazione della ricchezza- ricchezza che ha immutabili connotati di pulizia e di ordine, per lo più sintetizzati in uno “stabilimento” o in una tenuta agricola dove tutto scintilla e funziona senza un’ombra, senza una macchia, senza un granello di polvere – interferisce l’attrazione amorosa: è dal vario combinarsi di questi due elementi che nasce l’infinita varietà degli intrecci di Liala, in una perenne oscillazione tra i due modelli che abbiamo descritto, quello con esiti catastrofici e quello con esiti felici. Nel primo caso, la storia è il lento maturare di un dramma: in Non dimenticare Lietocolle e in Riverberi lontani, ad esempio, le protagoniste, scisse tra il vero amore e l’attrazione del lusso, si trovano alla fine chiuse nella ricchezza come in una trappola mortale, legate a vecchi miliardari un po’ repulsivi , con la sola consolazione del ricordo del Vero Amore – povero e bello – e con la sottaciuta speranza, di cui Liala, nel suo cinismo sereno, non sa scandalizzarsi, di restare presto vedove e ricche. Quando però- grazie a una fortunata coincidenza – il desiderio di promozione economico- sociale e l’attrazione erotica convergono verso un unico oggetto, non andiamo verso la catastrofe, ma verso il miracolo: la piccola fioraia dalle mani ruvide (Il vento inclina le fiammelle) e la contadinella dai piedi troppo grandi (Amata) , dirozzate da un rapido apprendimento dell’etichetta , possono sposare rispettivamente il Giovane Industriale e l’Ingegnere Nautico per cui soffrivano in silenzio; la modella di Trasparenze di pizzi antichi, che per comprensibile sventatezza giovanile, attratta da certi breakfast sontuosi e da un castello scozzese con annessa riproduzione della camera di Paolo e Francesca, ha sposato un pittore aristocratico pazzo (uno dei pochissimi intellettuali reperibili tra le creature di Liala, avvezzo a suonare il pianoforte in una funebre stanza rotonda drappeggiata di nero) rimane provvidenzialmente vedova dello sciagurato e può sposarne il fratello, che non vive in un castello alla Bram Stoker ma in una “modernissima villa”, e sorveglia l’andamento della sua prospera industria laniera da un grattacielo cristallino, ingentilito dai circostanti praticelli e da un commovente monumentino agli agnelli scozzesi, primi artefici di tanta luminosa opulenza.
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Inesauribile, incapace di incertezza, impermeabile al dubbio, Liala moltiplica gli orrori che costellano le sue pagine senza mai ripetersi: non indietreggia né davanti alle cappelle funerarie i cui mosaici dorati riproducono esattamente quelli di Ravenna (Lalla che torna) , né davanti agli orologi a cucù rosa o celesti (Sognai di essere tuo) , né davanti alle “scale di palissandro mirabilmente scolpite ad animali stilizzati” (Le briglie d’oro). L’intreccio, frattanto, con hitchcockiana crudeltà, segue il suo corso; le diverse possibilità che si aprono davanti alla protagonista – amore o ricchezza, salvezza o perdizione – sono coltivate con alterna cura, con amorosa imparzialità, con un sottile gusto alla Sacher-Masoch per la tensione protratta e irrisolta sino all’estremo. Il meccanismo basilare – che la pubblicazione a puntate esalta e potenzia in qualsiasi romanzo rosa, ma che nello stile di Liala è immanente e infallibile – è quello dell’intermittenza del pettegolezzo. Il pettegolezzo che ci appassiona non concerne mai le persone che abbiamo costantemente sotto gli occhi. Deve trarre alimento da un flusso dilazionato di informazioni, gettare una luce discontinua su un’esistenza percepita nella nebbia della distanza, in modo frammentario e graduale. E’ questa intermittence du potin che la scrittura di Liala mima voluttuosamente, perfezionandola con il rutilante contrappunto delle sinuose digressioni vestimentarie e ambientali. Ed è la morale del pettegolezzo – elastica, indifferente, brutale, sempre pronta ad esibire minacciosamente la massima secondo la quale “ognuno ha quel che si merita” – la molla fondamentale delle trame di Liala, che la riproducono all’infinito. Per le peccatrici , come i cronisti di “nera”, hanno in serbo delitti, malattie, e sanguinosi incidenti stradali; per la virtù, visoni color canna di fucile, scatole d’onice con iniziali di smeraldi, portaceneri di lapislazzuli, pavimenti di alabastro rosa, salottini “azzurro e oro”, orchidee, storione e champagne. Non siamo nel salotto di nonna Speranza, al Vittoriale o al Madonna Inn ; siamo di fronte alla vetrina in cui Kim Novak e Frank Sinatra, “l’uomo dal braccio d’oro”, si specchiano nei manichini di una modernissima cucina anni ’50, persi in un’assurda, estatica contemplazione ,protesi verso l’immagine raggelata del loro sogno. Ogni lettrice di Liala conosce bene questo delirio d’identificazione, colpevole e riposante, e ripete, nel sortilegio della lettura, l’incerto sorriso di Kim Novak, il suo provvisorio abbandonarsi ad un’immagine in cui – come nelle coreografie dei musicals – la banalità più esemplare trapassa nell’irrealtà più fantasmagorica e pacificante. Non sfugge a questa ebbrezza nemmeno il sobrio visitatore del Museo delle Cere, quello che ha già capito chi è l’immancabile Mostro della situazione: è lei, la gelida regina dell’Identico , immobile nell’attesa che Paolo Poli venga ad apprpriarsi – come già è accaduto a Carolina Invernizio e a Luciana Peverelli – della sua voce perfida e suadente, rivelatrice, votata con implacabile fedeltà a quei misteri della frivolezza, a quei labirinti dell’effimero che il disprezzo degli intellettuali e dei sociologi non giunge, nel tempo, a scalfire: “Détestez la mauvaise musique, ne la méprisez pas …”
(1979)
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Posso pisciare in chiesa – proprio come un cane bastardo? (solo che, poi, sparisco per quindici giorni e non potrò seguire la cosa, ma, insomma, non è poi così grave: se mi si darà della testa di cazzo non mi verrà l’ematoma).
La frase di Proust – sì, proprio quella – è proprio una frase lialesca, con quei sogni e con quelle lacrime che riempirebbero la pessima musica, anzi la “cattiva” musica (en passant: notare l’uso di una categoria etica anziché di una categoria estetica: “brutta” …). Ci mancava solo un passo e un Baudo proustiano avrebbe chiesto a noi tutti: cose le ricorda questa musica? Il suo primo amore, signora mia? Proust era un tale genio della parodia che – quando gli scappava la penna – parodiava se stesso. E camaleontico come era, parlando di “mauvaise musique”, ha scritto una “mauvaise phrase”. Non bastasse: i sogni e le lacrime sono – boom – degli uomini. Intesi come “genere”? Da quelle di Petra Von Kant a quelle del vincitore del Grande Fratello? Cosa c’è di venerabile in “Fin che la barca va”? Ma, allora: c’è cattiva musica e cattiva musica? Edith Piaf, sì, Reitano, no? E perché? Io sono un melomane e so benissimo come stanno le cose: almeno in Verdi. In tutto il primo Verdi, fino alla trilogia (Traviata, Trovatore,Rigoletto), ci sono cose sublimi mischiate a musicaccia cosidetta “con accompagnamento a chittarone” o zum-pa-pà. Ora, premesso che la più ariosa e guaritrice aria di melodramma, è “Ah, non credea mirarti!” da “La sonnambula” di Bellini che ha un accompagnamento irrisorio), molto spesso, la musica, in Verdi (apice? “Noi siam le zingarelle” in Traviata)è veramente brutta: e, allora, dai, con Barilli sopratutto, a dire che proprio quella musica lì era sublime. Che era solo un’operazione dei grandi letterati per salvarsi l’anima il cui teorema è presto detto: amo della musica volgare? So che è tale? Bene, dico che è piena di sangue, a-letteraria, non intellettuale, e mi ci butto a corpo morto? Viva le zingarelle e – ad un passo – è pronta la categoria del “kitsch” che è solo l’arte di rendere esteticamente plausibili le cose brutte che amiamo. (n.b.: anch’io amo certi rush sanguinari e di fuoco del Verdi più semplice ma vi trovo una categoria primaria che manca negli altri ed è quella del “pulsare”: la musica di Verdi “pulsa” e spinge. E non finirò mai di ammirarlo perché partendo di lì arrivò all’Otello che è una cosa straordinaria in sé e quasi impensabile in un autore con le sue premesse.)
Post lunghissimo ma, ormai, visto l’aire che ho preso, vorrei aggiungere un’altra cosa: Proust parla di “cantare”. E dice che si canta “bien plus passionément” la cattiva musica. Certo che a molti può capitare di cantare a squarciagola “la donna è mobile” o “Ridi pagliaccio!” ma a quanti verrà mai in mente di cantare qualcosa di Wotan o di Wozzeck? Sì, forse: a Mario Bortolotto.
Ho due diverse osservazioni da fare. Una: l’articolo è del 1979 e quindi (immagino) precedente alla rivisitazione del kitsch. E’ inutile (credo) fare dell’ironia sugli scrittori kitsch: Sveva Casati Modignani vende mezzo milione di copie per volta, Elisa di Rivombrosa fa ascolti da far paura. Perché noi intellettuali non siamo capaci di fare altrettanto ? Perché il popolo è bue ? E noi cosa facciamo per trarlo dalla bovinità ? Eppure Goethe (Goethe !) ha scritto fior di best seller. Lui, che era Goethe, non aveva paura di mettersi al livello del cameriere che comperava “I dolori del giovane Werther” sulla bancarella dei libri usati.
Due. A Gino Tasca: colpa mia, ma non ho capito il senso del post. La frase di Proust non va bene ? La musica del primo Verdi è poropò-poropò ? Vero. Ma non vale la pena di capire come mai quel poropò-poropò incantava la Scala e l’Opera di Parigi ? Forse Proust ce lo sta spiegando. Forse nel kitsch non c’è solo fuffa, ma anche qualcosa che tocca i sentimenti (non solo in superficie, ma nel profondo). A me pare che valga la pena di meditarci sopra.
E adesso me ne vado a fare una doccia: mi scappa di cantare “Denn einer nur freie die Braut, der freier als ich, der Gott !”
Concordo parola per parola mit Richard (con Riccardo).
L’articolo della Bertini è bellissimo. Proust non si tocca!! (leggasi la splendida pagina sulla musa della storia)
Labranca ha scritto cose fondamentali sull’argomento. Andate a visitare il suo sito.
Ciao, vado a mangiare.
G.
“E’ inutile (credo) fare dell’ironia sugli scrittori kitsch: Sveva Casati Modignani vende mezzo milione di copie per volta, Elisa di Rivombrosa fa ascolti da far paura. Perché noi intellettuali non siamo capaci di fare altrettanto?”
Caro Riccardo,
non sono d’accordo.
Quel che dici nella frase che ho citato ha avuto, in questi mesi, una controprova preziosissima.
Anzi, due.
La prima: Elisa Di Rivombrosa.
Lo sai, vero, che “Pamela” di Samuel Richardson è entrato nelle classifiche grazie allo sceneggiato televisivo? Elisa di Rivombrosa infatti è ispirato a “Pamela” di Richardson. Parliamo di un romanzo epistolare del Settecento, che era stato pubblicato in una collana di Classici (Frassinelli) anni fa, ed era stato accolto come uno sfizio storicistico, una documentazione dei primordi dell’era del romanzo… Anzi, noin era stato accolto affatto: era passato del tutto inosservato!
Due. Vinicio Capossela.
Il suo libro è arduo. Non voglio dare giudizi di valore, per carità. Dico solo che è di difficilissima lettura. Non ha una trama, e accumula bravate di finta poesia che risultano pesantissime dopo mezza pagina (io comunque il libro l’ho letto in buona parte). Se fosse stato scritto da te, o da me, non dico che non avrebbe avuto successo: peggio: avrebbe fatto fatica a TROVARE UN EDITORE. Se fossimo riusciti a pubblicarlo, adesso i critici ci rimproverebbero di aver messo insieme una cosa intellettualistica, informe, respingente, gratuitamente sperimentale.
Di sicuro, Riccardo, né tu nè io con un libro simile, e con i nostri nomi al posto di quello di Capossela in copertina, avremmo raggiunto numerose ristampe e sessantamila copie in poche settimane (mi è arrivato un comunicato Feltrinelli).
Che cosa concluderne?
IL GIOCO E’ TRUCCATO! (queste parole dovrebbero lampeggiare sopra la scrivania di qualsiasi scrittore).
Non accetterò MAI PIU’ critiche di intellettualismo, incapacità di comunicare con il pubblico, ecc., rivolte a me o agli altri scrittori veri. E’ il gioco che è truccato.
Saperlo è liberatorio.
Continueremo a scrivere i nostri libri, senza neanche un residuo di chimera di poter “comunicare”. Daremo forma a cristalli ancora più puri.
Un saluto carissimo
Per Riccardo: scrivo così male?
E allora mi tocca precisare: la frase di Proust con quelle larmes e con quei reves, è scandalosamente sbagliata: ci sono larmes e larmes e ci sono reves e reves (mi scuso ma non so mettere l’accento circonflesso sulla prima “e” di “reves”). Mi toccherà adesso fare come quando si parla di terroristi e bisogna star lì a premettere: premesso che io condanno il terrorismo … bla bla bla, mi tocca – dicevo – dire: premesso che amo molto Proust … ? La frase resta generica, sfocata, e scritta con vocaboli da sartina anche se l’ha scritta lui. (Entro le otto di stassera fate in tempo a lapidarmi, poi parto.)
– Ho scritto: la musica del primo Verdi è piena di “cose sublimi e cattiva musica”, quindi non mi si può chiedere ragione di una frase in cui attribuirei solo poropopò a questo musicista: non l’ho detto ne lo penso. Ho anche aggiunto che quel che c’è di buono anche nella sua musica non-migliore (non in “Noi siam le zingarelle” però), è la tensione/pulsante. Ho anche detto che “Otello” è una cosa da vomitare quant’è bello.
L’attacco a quattro violoncelli del duetto d’amore è vertiginoso più di tutto Tristan und Isolde e il tremolio dei violini alla fine, quando “Venere splende”, è un tessuto di velluto notturno e stelle che nessuno riscriverà altrettanto bene se non Schonberg nella Verklarte Nacht (e, qui, mi mancano le dieresi).
– Ciò che di splendido c’è nella musica di Verdi o di Bellini, non è certo il suo coté kitsh – quello serve per le strepitose mise en scéne di Aspinal o di Poli. E’ proprio fufa. E non ho neanche detto che ce ne sia poi così tanta – un po’, ogni tanto. Al muro le zingarelle! (Aspetta: che, poi, magari, mi legge un musicologo e finisce che mi dà bacchettate sulle dita: so benissimo che con le zingarelle Verdi optava per un color-locale e quindi mimetico alla supposta musica zigana: resta una cosa orribile: bisognerà attendere Carmen perché una zingara sia credibile sulla scena ((non lo era neanche Azucena, se è per questo …)).)
60.000 copie per Capossela?!?!? Ecco: rovinata la giornata.
Devo almeno un paio di risposte. A Tiziano: ho l’impressione che stiamo mettendo l’accento su due aspetti della stessa cosa. Come mai i romanzi degli intellettuali vendono poco e invece vendono molto i romanzi rosa e i libri dei dj ? Risposta tua: perché il gioco è truccato (gli editori favoriscono i titoli che promettono di vendere molto). Risposta mia: perché gli intellettuali sono un po’ schifiltosi e non si mettono sul piano della massa dei lettori (soprattutto in materia di sentimenti). Il discorso su Elisa di Rivombrosa è lungo e credo possa portare acqua a tutte due le tesi. Quello su Vinicio Capossela (che non ho letto) mi mette un po’ in crisi (ma potrebbe essere una rondine che non fa primavera). Almeno provvisoriamente, io credo ancora che siano valide tutte e due le risposte. Magari si può discutere su quale delle due venga prima dell’altra, ma anche se si potesse stabilire una cosa del genere le cose resterebbero allo stesso punto: per vendere di più bisogna aggiornare il prodotto. Forse è maturo un nuovo romanticismo. Forse la gente non ne può più di questi intellettuali sempre un po’ incazzati, critici, pessimisti. Lo dico battendomi il petto perché anch’io sono sempre incazzato, critico e pessimista. Ma proprio per questo so che è vero. Forse il pubblico gradirebbe un po’ di fiducia nei sentimenti. Guarda cos’è successo alla Vita spericolata di Vasco Rossi: a Sanremo le giurie la misero in coda, ma la gente la canta da dieci anni e continua a cantarla.
A Gino Tasca: evidentemente scrivo male anch’io perché credevo di aver detto altro. Ci mancherebbe che mi metta io a fare la difesa d’ufficio di Proust e di Verdi ! Quello che sostengo è che il kitsch non va rifiutato tout court e neanche riabilitato a prescindere. Va studiato. In particolare, va studiato il perché della sua presa sul pubblico.
Da ultimo, non posso trattenermi dal dire che non condivido il paragone dell’Otello con il Tristano. Otello è grande, ma Tristano è di un’altra categoria. Tristano è iperuranio. (Ecco, Tiziano: chi riuscisse a scrivere di sentimenti come Wagner nel Tristano stai tranquillo che venderebbe milioni di copie, anche con un editore dei più cinici. Non credi ?)
Secondo me gli editori favoriscono gli autori che promettono di vendere molto, gente nota in altri ambiti(vedi anche Ligabue con il suo ultimo romanzo), e se invece di pensare che il pubblico vorrebbe sentimenti pensassimo che il pubblico vuole sempre più anestetici? Che svegliare dal sonno sia compito arduo? Preferisco rimanere incazzata e critica… ci mancherebbe anche di tornare a un nuovo romanticismo, allora Denis de Rougemont avrebbe scritto invano il suo L’amore e l’occidente.
ps
auguri a Tasca per il suo ricovero :-)
“Pandora e l’olandese volante” di Albert Lewin paragonato a Liala???
Ma quel film è un’esperienza estetica terrificante.(Nel senso buono). Un melò surrealista, detto in due parole. Un film unico. Non è giusto mettere sullo stesso piano Liala e Albert Lewin – soprattutto in quel film. Io l’ho visto grazie a Ghezzi (bontà sua). E’ un capolavoro del cinema di tutti i tempi.
Che rabbia, che rabbia non poter proseguire il discorso che Riccardo butta lì, con nonchalance, quando dice che basterebbe scrivere di sentimenti come fa Wagner in Tristan und Isolde, per vendere milioni di copie. Mi piacerebbe prendere il libretto scritto da lui (che è altra cosa dalla musica, comunque) con tutti quei deliri di tu sei me e io sono te e insieme siamo la Notte, per vedere se si tratta di una scrittura dei sentimenti così “popolare”. … Ma non credo proprio che mi aspetterete per quindici giorni. Questo “argomento” sarà stato subissato, allora, da mille altre cose. Amen.
(Sommessamente, in punta di voce, ringrazio chi mi ha augurato una buona sorte. Merci.)
bellissimo, bellissimo post. e interessantissimo.
f.