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Autoritratto con passato: 2004

di Claudia Quercellini

(this is andy warhol and it’s take one, take one)
It’s, it’s warhol actually
(what did I say)
Whole, it’s whole as in wholes
(andy warhol)
Wah, andy war hol, andy war hol (he)
Like whole hub
He
Ha
Are you ready
(yeah)
Ha ha ha ha ha ha

(rumore metallico di chiavi)
(nessuna risposta)

Fa un freddo che svuota lo spazio in questo perduto albergo. A passo veloce e con lo sguardo rivolto verso il basso di chi è a più non posso deciso a fare ciò che dovrà fare Lidia sorpassa la hall con un silenzio muto, prende al volo le chiavi e cavalca le scale a due a due. Odore di muffa bagnata sale dalla moquette del corridoio, il solito odore di muffa bagnata. Poveri quadri a macchie di colore sbiadito scorrono come treni lenti sulle pareti di stoffa giallastra: da ogni angolazione, il Monte Subasio. Chissà se qui fosse tutto rosso, sarei più felice? La chiave non entra mai immediatamente nella porta quando lo vuoi più di ogni altra cosa. Sotto la pelle pallida Lidia è scartavetrata a forza, abbandonata alla possibilità ultima di trovare una risoluzione, salvare il buono dal marcio, entrare e toccare il fondo della disperazione. Questo piccolo imprevisto le regala dieci secondi subdoli per pensare E se lui stasera non fosse qui? Ha voglia dei suoi baci umidi e densi. Ha voglia di toccarlo e cancellare tutto. Lancia i fascicoli all’aria, si asciuga il mocciolo che le cola dal naso, risistema la borsa sulla spalla, affanna sul suo alito tiepido e finalmente riesce a girare la chiave.
“Andy?”
“…”
“Amore?”
“Ci sei? Ci sei?”
“…”
“Ci sei? Andyyy? Eh?”
“AAANDYYYYYY?”
“…”
Il silenzio si unisce all’umidità. Sfranta, Lidia crolla in ginocchio sul gelo pungente delle mattonelle e collassa in un singultio convulso di lacrime isteriche, fino a che un conato acido si unisce ai singhiozzi. Con una mano sulla frangia di capelli biondi e l’altra sul ventre vomita pappa verdognola sul copione che le era rimasto in mano. La porta è ancora spalancata.

(scroscio di applausi)
(luci accese e velluto bluette)

Già la vista dell’entrata del Teatro delle Vespe gli aveva scaricato addosso una scossa elettrica di adrenalina egoarchica, un senso di onnipotenza immeritata che dal ventre era risalita sboccando in un sorriso estatico da vincita alla lotteria. Luminarie eccessive oro e blu intermettevano ghirigori rampicanti intorno alla scritta Lo Spettacolo È Uguale Per Tutti, e un lungo tappeto anch’esso blu permetteva alle sue scarpe bianco candide di non mischiarsi col suolo comune mentre scendeva dal sedile posteriore di una Mercedes mandata, incredibilmente, apposta per lui.
È così che aveva studiato di agghindarsi la sera dell’intervista, puntando tutto sui contrasti. La gente non ama i sussurri – no – lo aveva imparato presto; ha un evidente bisogno di violenza che vomiti sbottando sensazioni più che nette, percepibili in modo direttamente proporzionale alla prorompenza con cui vengono urlate. E allora aveva deciso che le scarpe da tennis bianchissime sotto i pantaloni da carabiniere in raso blu con la striscia rossa non erano sufficienti. Sopra tutto indossava a pelle una maglietta bianca della salute emopoietica – occorreva sempre etichettare le invenzioni affinché avessero un seguito e la gente si dicesse: Tu che ne pensi della maglietta emopoietica? Hai visto ieri Andy con la maglietta emopoietica? –, lasciata cioè a bagno per un’ora intera prima di uscire nel colorante a sangue cinematografico (quello che da bambino non credeva fosse succo di pomodoro) e poi indossata gocciolante di omicidio, di strage. Le telecamere inquadravano fameliche questo torace emorragico sbavante pronto a entrare in scena che la maschera del teatro era sul punto di accogliere all’ingresso, prima di avere la trovata di fare marcia indietro e tornare munita di asciugamano lindo-per-ogni-evenienza, con tutta la difficoltà di ritrovarlo in mezzo a quello screpitio di flash e lampi di key-lights. Ovazioni e sentenza favorevole per lui: finalmente ce l’aveva fatta. Finalmente, dopo il nulla, era scattato un interruttore. Da solo.
Essere invitati al Martedì Insieme di Mimmo Zasconto voleva dire omelia del consenso, consacrazione alla fama e offertorio di successo. Il martedì sera la nonna media, gli studenti modello e la gran parte dei teledipendenti tenevano su le pantofole per godersi lo spettacolo della smitizzazione dei loro idoli televisivi. Al Martedì Insieme venivano invitati i personaggi più in vista del momento, quelli unti dal crisma sensazionale del successo, con un’équipe di neolaureati in Scienze delle comunicazioni sotto contratto a progetto che spremeva i suoi anni migliori a rintracciare nel loro passato tracce di immeritevolezza della fama raggiunta. Tra i target preventivati nella progettazione del programma c’erano cantanti di fama mondiale miracolati da un’operazione chirurgica virtualizzante alle corde vocali; attrici sull’orlo dell’Oscar che, sotto testimonianza diretta dei loro professori, avevano bigiato iterativamente le lezioni all’Accademia di Arte Drammatica per flirtare con registi mediuncoli o di basso rango; scienziati rinomati il cui compagno di banco delle elementari aveva covato negli anni un’invidia talmente rabbiosa da cogliere l’occasione propizia di rivendicazione ed elencare in una anticarrambata live le loro bocciature in matematica. Lo scopo era andare a cercare lo sporco laddove il talento o la fama fuori contesto obnubilavano la capacità di distinzione tra idolo e umano, di modo che il pubblico avesse almeno tre motivi per godere gongolante del lato oscuro dei loro miti: si sgretolava il gap tra loro e la perfezione assoluta; il livello di autostima cresceva esponenzialmente (lo confermava in un recente articolo lo psichiatra sociale Pietro Precte); si alimentava il compiacimento di fronte alle tragedie altrui mentre si tenevano le pantofole ai piedi. Il caso più eclatante – quello che aveva dato lo slancio definitivo al programma convalidandolo al pubblico sulla copertina di Non Solo Vero – era stato quello di Don Enzo. Il lungimirante parroco di una chiesa della capitale già da un po’ calcava i fondi dei rotocalchi del gossip nazionale, causa di ciò la sua verace passione per il calcio, supportata dal tifo sfegatato per il Chievo. In una cripta della sua parrocchia del tredicesimo secolo, dieci anni prima era stato ritrovato sotto una pavimentazione posticcia un trittico in legno 30×50 quasi completamente raschiato dal tempo, senonché sul bordo destro si scorgeva spuntare, sopra un cappello a volta, la parte ricurva di un lituo. Questi particolari ricordavano a Don Enzo le insegne sacerdotali del Trittico del Masaccio e, da artofilo autodidatta, si era convinto che si trattasse di una seconda versione dello stesso. Per scoprirlo c’era bisogno di stime e verifiche, e per fruttarlo c’era bisogno di restauri. Un po’ di fama televisiva prima di richiedere un intervento formale non l’avrebbe certo confessata come peccato capitale, e alla squadra del Chievo si sentiva allora di attribuire una simpatia mista di sincerità e facile – auspicabile – compartecipazione. La contaminazione di fede religiosa e fede calcistica, di pari intensità la domenica pomeriggio, sembrava infatti stuzzicare la curiosità popolare nelle velleità eccessive ed extra-canoniche. Allo stadio Don Enzo si pitturava la faccia metà di giallo e metà di blu, e nella mano sinistra teneva attorcigliato alle dita un rosario bianco. Un probabile fotomontaggio iconografava una cena goliardica in un’osteriaccia del centro con il capo degli Ultras del Chievo. Il Prete e la Bestia?, titolava il fondo della carta stampata. E via ondate di chiacchiere sull’ambiguità del ruolo di messaggero di Dio infettato da un’improvvisa turpe umanità riempivano il nulla dei servizi mediatici. Il Dottor Zasconto, dottore in Sociologia honoris causa, non aveva certo perso il colpo. Una settimana dopo al Martedì Insieme il parroco era l’ospite principale. La verità era venuta a galla di fronte a undici milioni di spettatori: il prete si masturbava ripetutamente e dovunque, nei bagni comuni, al refettorio e perfino in chiesa sulle panche corali. Lo rivelava piangendo l’uomo delle pulizie – presunto vero – di un monastero umbro dove Don Enzo aveva speso diversi ritiri da giovane seminarista. A pag. 11 del numero 2023 di Non Solo Vero il Dottor Zasconto dichiarava in un’intervista che: “Costruire un programma sulla destrutturazione del finto mitismo e la riabilitazione dell’errore umano mi espone a molti rischi. Ma io sono cresciuto in una famiglia di semplici operai, e la schiettezza con chi ti ascolta, come mi diceva mia madre, è il tuo primo dovere verso te stesso”.
Andy non aveva tenuto conto del fatto che la poltroncina che lo ospitava in mezzo al palco era rossa. Fortunatamente l’asciugamano bianco tra lui e la poltroncina esaltava la sua performance grondante di sangue. La maschera ancora non sapeva che ciò le sarebbe valsa una promozione.

(mormorii in sala)
(esclamazioni di stupore)

MZ – Sono corretto se oggi la definisco un’opera autocelebrativa? Quantomeno.
AW – Certo che no. Quello che sono e quello che rappresento si fondono in un unico messaggio, semplice e diretto. Ho letto su un settimanale che un giornalista mi ha definito come esponente di una nuova corrente artistica, l’ha chiamata mi sembra iperrealismo immaginipe… immaginifet… gginifi…
MZ – Immaginifero.
AW – Immaginifero, sì.
MZ – E lei ci si rivede, insomma la calza a pennello.
AW – Le immagini sono racconti svestiti di sfumature. Ecco. Io punto sull’Impatto. La gente si è stancata di sentirsi presa in giro con finti giri di parole. La gente, ha bisogno di messaggi diretti, di valori concreti. Di visualizzare la realtà così come la vive. Senza veli.
MZ – Senza veli. Dice bene. Comunque sui veli torneremo dopo. Mi lasci dire che a chiamarla Andy Warhol…
AW – L’ipocrisia e il perbenismo sono malattie sociali.
MZ – Mi interessa invece molto questa sua denominazione. Ecco, non crede di peccare un po’ di presunzione? Senza nulla togliere ai suoi capolavori.
(accenno di intervento da parte di un assistant per asciugare il micro-pantano di sangue intorno le poltrone. colpo di tosse e occhiataccia di Zasconto)
AW – Non è una denominazione. Io sono Andy Warhol.
MZ – È vero che ha cambiato nome all’Anagrafe?
AW – Certo. L’ho fatto per onestà. Non credo ai nomi d’arte, mi sentirei come se avessi chiamato la mia opera sulla donna uccisa tra gli ingranaggi della scala mobile “Errore umano” invece che “Donna che muore tra gli ingranaggi della scala mobile: 2003”. Non so se.
MZ – Capisco, certo. E come vive il suo rapporto con le sue sculture, o opere come lei le chiama. C’è del sadismo in questo suo legame con la spettacolarizzazione della tragedia, ama la disgrazia oppure no? Non crede che possa arrivare un messaggio sbagliato e i ragazzi di oggi possano seguire questo flusso, diciamo, di violenza?
AW – Aspetti, aspetti. Innanzitutto io non spettacolarizzo nessuna tragedia, semmai la semplifico e la ripropongo per non farla dimenticare. E lo faccio in un modo tanto sincero che le persone si sentono toccate nel cuore da quello che rivivono guardando le mie opere. Pensi che ricevo migliaia di lettere al giorno, di affetto e solidarietà. Di gente che troppo spesso viene usata dai media nella tragedia che ha vissuto, e poi dimenticata. Loro hanno bisogno di me. E i ragazzi sono la percentuale più alta di queste manifestazioni.
MZ – I ragazzi sono il nostro futuro e la nostra memoria…
(applauso moderato)
AW – Grazie. Grazie.
MZ – So che non ama parlare del suo abbigliamento bizzarro. Ma questa volta farà un eccezione, spero. Per me.
AW – Infatti non amo.
MZ – Non ha freddo?
AW – Perché dovrei?
MZ – È completamente infradiciato.
(risolini generali)
AW – E allora? È così che mi sentivo oggi. Come se mi avessero scuoiato vivo.
(gridolini di disgusto)
MZ – Silenzio per favore. Crede che il dolore sia esorcizzabile? Io credo che il suo successo derivi proprio, oltre che dalla sua bravura, anche dall’aiuto che lei è indirettamente per le persone comuni, per le vittime. Con il suo senso dell’attualità io le sono quasi grato di rappresentarci.
AW – Siamo tutti nelle mani del destino. Nessuno può sfuggire alla propria sorte e al proprio personaggio. Non dobbiamo avere paura di essere noi stessi. Io stamattina sentivo di voler indossare una maglietta emopoietica. E l’ho fatto. Lei?
MZ – Io avevo voglia di una cravatta…
(boato di risate e semiapplauso)
MZ – Come ha detto che si chiama?
AW – Cosa?
MZ – La maglietta.
AW – Emopoietica. Una maglietta emopoietica.

(bisbiglii prima dell’inizio di un film)
(silenzio di un bacio)

Quando Andy decise di essersi innamorato non si può dire che fosse stato travolto dal sentimento con una sensibilità da artista. Aveva vent’anni e non voleva dare ai suoi la soddisfazione di appendere in cucina un secondo epiteto esornativo da laurea in Lingue che ancora non erano state definite. Oltretutto il primo era stato quello di un fratello alto-misterioso-conturbante-laureato-in-ingegneria-aerospaziale-con-la-passione-per-lo-squash-e-la-letteratura. Tuttavia spendeva le sue giornate all’università in attesa che qualche spiraglio di via di fuga alternativa si aprisse nella rete sociale. Sebbene storicamente timido, nell’ambiente universitario si rese conto che questa attitudine all’impaccio non lo avrebbe portato lontano e, una volta sforzata e vinta, si convinse che l’origine della sua annosa tendenza alla marginalità sociale era legata alla personalità schiacciante del fratello, che aveva fino ad allora sempre seguito, piuttosto che a un cromosoma impaurito. Il che gli alimentò ancora di più la voglia di passare tutto il tempo lontano da casa. Studiacchiava in biblioteca nelle ore di punta, mangiava alla mensa universitaria e seguiva le sessioni di cinema d’autore che si tenevano nell’Aula Magna, intervenendo in chiacchiere solamente nella pausa caffè tra una visione e l’altra. In realtà aveva una memoria altamente selettiva, quasi più consciamente selettiva della sua stessa volontà. Un quarto d’ora dopo che aveva assistito a un’intensa discussione post-visione di un film di Truffaut già aveva dimenticato – e ogni volta – che si chiamasse François. Ma i nomi delle persone che conosceva, quelli sì, li associava presto alla fisionomia, poi calcolava la percentuale dello spiraglio di via di fuga che avrebbero potuto consentirgli, li registrava nella sua agenda mnemonica, e non li cancellava più. Fu dopo una sessione su Il posto delle fragole che si intrattenne casualmente con la figlia di un produttore cinematografico mediamente noto nell’ambiente. In effetti l’incontro non si può definire proprio uno scherzo bizzarro del destino, visto che Andy aveva già in precedenza nel suo database le informazioni necessarie a che un avvicinamento con la ragazza potesse essere inserito nella categoria dei portatori di buoni frutti all’85% di probabilità, e lei lo facilitò giusto un poco nel chiedergli se aveva apprezzato la pettinatura e il portamento di Ingrid Thulin.
“Immensa. Sono senza parole”, rispose lui.
“Hai mica voglia di approfondire? Ti interessa?”.
“Come no. Adoro il cinema. E oggi, a fare del buon cinema, sono veramente in pochi. Ci prendiamo un altro caffè…?”.
“Lidia”.
“Un caffè Lidia?”.
“Preferirei un pernod”.
“Certo. Dove vuoi”.
“L’unico posto che conosco dove possiamo bere un pernod è casa mia, ma a quest’ora c’è mia madre che fa il torneo di gin. Se mi aspetti, ci possiamo vedere tra un’ora circa sulla terrazza. C’è un bel sole. Lo prendo e vengo”.
Andy non aveva fatto in tempo a dire alcunché che Lidia era già schizzata via, lasciandogli abbarbagliata negli occhi l’immagine di lei che corre di spalle ondeggiando il cappotto nero in controfase ai capelli lunghi, mossi e biondi. Andy pensò che era un bel cappotto nero e che a toccarlo sarebbe stato morbido e leggermente peloso, come cachemire appena comprato, e andò ad aspettarla in terrazzo con un sorriso estasiato da quella bellezza mista a sofisticatezza. Passarono il pomeriggio seduti sul muretto del terrazzo sopra la facoltà di Lettere, con i piedi a penzoloni, con Lidia che lo fissava negli occhi con crescente abbandono e, annebbiata dal pernod, lasciava scorrere la lingua su parole come cinema, ma anche neorealismo, découpage, exploitation, anamorfico, Buñuel, non lasciando spazio – per fortuna – a interventi esterni di alcun tipo, e con Andy che, felice di non dover riempire i vuoti, annuiva in segno di completa accordanza e si accendeva una sigaretta dopo l’altra. Fu quando inaspettatamente Lidia gli chiese se sapeva come si chiamava il café di Pigalle dove nacque il surrealismo e, metà per gioco metà per malizia, lasciò cadere una domanda nella retorica del nulla, che l’ignoranza di Andy lo colse nudo e lo gettò nel panico, credendo ingenuamente che lei si aspettasse una risposta vera e che con quella fosse in gioco, in qualche modo, un suo possibile futuro da star del cinema. Non sapendo come uscirne la baciò, e da allora iniziò la loro relazione. Lei lo chiamava quattro volte al giorno perché aveva un bisogno spasmodico di sentirsi dire che qualcuno la amava, lui la accontentava con un piacere leggero e superficiale illudendosi che in questo modo stessero scambiandosi monete false per comprare la stessa soddisfazione. Se prima che facessero l’amore Andy provava una pena affettuosa verso quella ragazza apparentemente così fragile e bisognosa di gratitudine, subito dopo sentiva addosso il senso impellente della perdita di tempo e si tuffava ancora mezzo vestito in un esterno carico di potenzialità mondane. Quello che lo teneva unito a lei era la speranza di ciò che poi accadde. Dopo pochi mesi di sottili pressioni di Andy affinché fossero una coppia logisticamente e quindi economicamente indipendente, pressioni riflesse poi da Lidia sul padre, presero a lavorare insieme all’adattamento per la fiction di Piccole Donne Crescono in versione toscana: versione rielaborata in cui invece che per la guerra di secessione, il padre delle quattro sorelle era partito per fare il partigiano in Alto Adige. Nessuno in famiglia credeva che Lidia si sarebbe mai laureata veramente, sia perché a scuola non si era mai rivelata una cima di elaborazione dati sia perché in realtà erano sempre più evidenti – quasi le scappassero fuori a lampi – le sue doti di ferrea organizzazione dei tempi e la sua confidenza con la sequenzialità delle pratiche da gestire, cose che lottavano contro qualsiasi altra potenziale aspirazione e la proiettavano nella rete dei ruoli sociali direttamente nella produzione cinematografica. Se c’era una cena a casa Lidia si occupava di invitare le persone almeno una settimana prima e di certo, se Madame Contini aveva voglia del suo cognac dopo il pasto, lo trovava sempre lì, pieno al punto giusto. Non era esattamente una donna di pensiero, ma il suo talento e la sua identità li esprimeva, per il puro gusto di riconoscercisi, in questa logica militaresca che incastrava a perfezione gli eventi. Per questo motivo il padre aveva sempre lasciato che si iniziasse al mestiere con la finta promessa di superare comunque gli esami, invocata giusto per ritenersi la coscienza di aver tentato di attutirle i fallimenti futuri con un cuscino a forma di diploma di laurea. Perciò avendo già alle spalle un parquet di esperienza con Piccole Donne, in Piccole Donne Crescono Lidia esordiva trionfante, e per la prima volta, come coordinatrice di produzione. E Andy? Ad Andy si spalancava davanti la prateria dello starlettismo con tutta soddisfazione di aver investito bene in quell’85% di spiraglio che aveva intuito, e con non poco autocompiacimento.
“Papà ha detto che vuole anche te nella troupe”.
“Davvero? È senza alcun dubbio una persona fantastica”.
“Sì, dice che vuole vedermi felice, e io sono felice se ho te al mio fianco”.
“Ma è fantastico amore! Sarà meraviglioso lavorare insieme, e vicino a te imparerò presto”.
“Stai tranquillo è facile. L’ho già fatto anch’io”.
“Che cosa?”.
“Tu inizierai come runner”.
“Runner?”.
“Mi ami tu?”.
Runner: ragazzo di robusta costituzione impiegato in una troupe cinematografica come facchino, autista, accompagnatore, procuratore di almeno cinquanta pranzi al sacco giornalieri ed eventualmente capro espiatorio: sedici settimane di riprese ad Assisi furono la fine della loro parimenti scambievole relazione. Per Andy non era ancora arrivata la volta giusta.

(jingle pubblicitario)
(applauso di routine)

MZ – Bentrovato di nuovo al Martedì Insieme.
AW – Bentrovato a tutto il pubblico.
MZ – Bene. Abbiamo il piacere di avere con noi Andy Warhol, una delle più interessanti scoperte artistiche degli ultimi anni, che stiamo riscoprendo oggi, come uomo.
AW – Uomo o simbolo di uomo. Qual è poi la differenza?
MZ – Non so, mi dica lei.
AW – Lasci stare. Mi dica.
MZ – Dicevo. Lei ha genitori ancora? Padre? Madre?
AW – Padre e Madre. Ma al momento vivo con un Python natalensis, o Pitone delle rocce africano, magistralmente bello e affettuoso. È assolutamente incredibile l’affetto che possiamo ricevere da un serpente. Un serpente dà tanto, ma prima di tutto prova rispetto. E non dimentica mai.
MZ – La sera ci dorme insieme?
(ululati lamentosi dalla platea)
MZ – Silenzio per favore. Liberiamoci dai cliché. Per favore.
(silenzio appena soffocato)
AW – Grazie. Sì, dorme con me. Ci piace il verde.
MZ – ?
AW – Dormiamo su un plateau di finta dicondra, l’erba, e ci riconciliamo con il mondo.
MZ – È davvero un tipo incredibile Warhol, se lo lasci dire. Io ecco… invece… volevo chiederle dell’amore.
(scatto repentino di Warhol che si alza e si tiene il naso con due dita. testa reclinata indietro)
(a un cenno di Zasconto un uomo qualsiasi porta un bicchier d’acqua)
MZ – Mi scusi. La prego. Si sieda pure. Facciamo così, se la regia è d’accordo lancerei il filmato, assolutamente inedito, qui al Martedì Insieme, della carrellata di opere di Andy Warhol. Andiamo? Andiamo.

(tintinnii di cristallo e lamiere)
(nemmeno una pacca sulla spalla)

Quando un uomo prende a organizzare cene affollate e sontuose due possono essere i motivi: è estremamente generoso e ospitale; oppure ha un bisogno urgente di una vetrina. Andy, viveva in una opulenta, immensa, vetrina. Ai bordi della capitale, nella zona dei Castelli Romani, tra Grottaferrata e Monte Porzio Catone, Andy aveva comprato un terreno collinoso con i soldi ricavati dalla vendita della sua prima illuminata opera d’arte: “Crollo della volta della Basilica di San Francesco sotto volontà divina: 1997”. Per dieci anni Andy aveva diretto lavori, fatto e disfatto progetti, soddisfatto pretenziosi capricci e seguito le mutevoli lune delle sue fasi umorali, al punto che si può certamente affermare che mai nulla abbia occupato la sua mente in modo tanto ossessivo così da rendere l’edificazione della sua idea di dimora senza dubbio l’impresa più seriosa e impegnativa che abbia mai avviato. Un uomo organizza tutti i microsecondi del suo tempo impacchettandoli in quanti di dedizione per la costruzione del suo sogno, la sua prima vera casa: no. Un uomo sa che per contenere dei sottoinsiemi di quel che sarà di sé, niente è meglio di un insieme primario che attui la funzione rappresentativa di vassoio di questo sé: Andy. Ad oggi, la sua casa-museo si presenta come una struttura violacea assolutamente irregolare e ricca di vetrate, collocata sulla cima di una ex-dolce collina totalmente depauperata da olivi e filari di Malvasia puntinata, nonché da una fastidiosa quercia cinquantennale che avrebbe tolto visibilità a chi veniva dall’autostrada. Finalmente un uomo gode spanciato della realizzazione della chimera che ha giustificato anni di snervamenti forzati: Andy ora si godeva le sue cene.

La maionese straborda come bava dalla bocca aperta di un muso di mucca abbrustolito a puntino e cola a rigoli giù verso il collo, accarezzando il pelo bruciacchiato fin sul vassoio d’argento e d’ottone. Tutt’intorno, piccoli pomodorini pachino schiacciati alla buona schizzano semini sulla base di frittelle dorate di cervello bovino di primissima scelta. Al passaggio del cameriere col vassoio, un uomo scheletrico dal naso a uncino ride a bocca larga e shakera i mille ninnoli attaccati alla sequenza di braccialetti ridondanti a mo’ di finto spavento. Dietro di lui una cinquantenne grassa in un vestito strizzato sembra uscita da un quadro di Botero, si aggrappa alla sua camicia verdognola di seta indiana e sforza un’espressione di schifo che vorrebbe essere divertita – di certo non è nata per fare l’attrice, e infatti è una impresaria teatrale con uno scopo ben preciso. Al lato dell’enorme stanza su un divano squadrato di puro cartone bianco un anziano signore ingiacchettato di antracite accavalla le gambe e aspira con la bocca rugosa un cigarillo dall’aroma di incenso. La sua mano destra gonfia di vene blu continua ad accarezzare le gambe nude di un’attricetta vestita da Marylin Monroe che gli sussurra all’orecchio qualcosa di frivolo e stuzzicante relativo al nuovo piatto di portata. I loro fondoschiena sul divano di cartone coprono la “M”, la “A” e la “L” della scritta nera “PARMALAT”, ai cui estremi, in luogo di finti braccioli, fuoriescono come piume da un cuscino bucato vere banconote da cento euro. Un ragazzo dinoccolato con i capelli sparati tinti di un nero che tende al viola ne strappa violento una manciata mentre urlando “Tesoroooo!” si dirige sgraziatamente verso un gruppetto di gente affollata intorno a un nodo di abbaiamenti e vagiti.
“Tesoriiiii… tesoriiiii…”.
Da lontano anche l’attricetta avanza a stento sui tacchi alti.
“Che succedeeeeee?”.
“Oh sssanto cielo papi, ma che orrore è?”.
L’anziano dal vestito grigio sputa una risata catarrosa.
“Stai tranquilla Picci! Te l’avevo detto che sarebbe stato uno spettacolo… Vieni qui, guarda. Loris ciao, sapevo che ti avrei trovato qui, non scappare dopo, sai? Devo parlarti del tour”.
Un omone di due metri con gli occhiali e il berretto da baseball, senza distogliere gli occhi dalla scena, gli dà un buffetto sulla guancia e continua a sussultare il doppiomento di sogghigni.
“Ma il festeggiato dov’è? Vorrà mica presentarsi con una cintura di esplosivi stavolta! Ha-ha!”.
“C’è da diventare matti, c’è. Povere bestie, poi dicono che non sono caniassassini, ma non li vedi?”.
Due pitbull marroni legati in catene a una statua a forma di dragone altezza uomo non smettono di divorare voraci le ossa cartilaginose attaccate al collo gommoso di un finto bambino, steso per terra, con in mano la cartella della scuola. Un cordone di raso rosso delimita la pièce, al centro del quale un’etichetta da museo ne evidenzia il titolo: “Due pitbull squarciano la testa di un bambino di dieci anni: 1999”. Le luci si abbassano ovunque e si accendono rosse sotto il tavolo di vetro a forma di X colmo di pietanze; in sottofondo: la voce glaciale dei Curve intona a medio volume Horror head; le sedie sparse in disordine sono rivestite di una fodera su cui è stampata un’opera di Warhol del 1967, “Big electric chair”. Poco più in là il ragazzo dai capelli sparati abbraccia da dietro l’impresaria teatrale premendosi il sedere contro e massaggiandole le cosce.
“Ho voglia di farlo, da qualche parte, anche qui, Dio, tutta questa violenza mi eccita da matti. Jessi…”.
“Smettila, non ci pensi che ci possono essere i fotografi? Vuoi rovinarci? Come on”.
“Jessi… tu hai bisogno di me, andiamo in qualche anfratto di questa pantomima e facciamo il nostro festino privato, avanti, lo so che ti va, piccola pagnottella”.
Con una botta di anche Jessi si divincola e con le mani grassocce pitturate di vermiglio fa per accendersi una sigaretta.
“Cretino che sei. Drogatello perverso. Vuoi perdere la parte? Eh? Ma Alex è venuta con la bambina? My God, portare una bambina a casa di Andy…”.
Lievi voci di pianto si levano a coprire i lamenti sirenosi di Toni Halliday. Dall’ingresso della casa, accanto al divano-Parmalat si vede spuntare il bordo di un’usurata culla anni Cinquanta.
“Aleeeex… Aleeex… dai qua, te la cullo io, dear, la piccolina… Ma come ti è venuto in mente di portarla da Andy?”.
“Jessi guarda, o venivo con lei o non venivo. E vallo poi a sapere che manco entri che ti ritrovi l’ingresso al buio più totale… con ‘sta scritta accesa Il potere inquieto della modernità”.
Jessi dondola la bambina e tiene la sigaretta a un lato della bocca, appesa sulle labbra, cosicché appena scoppia a ridere butta la testa indietro e la sigaretta cade a terra. La spegne con la punta di un decolleté troppo lucido e troppo spremuto.
Il potere inquieto della tecnologia, sì, sì, che vuoi, è una delle nuove. È sul blackout. A Nicky gli si è rizzato just appena è entrato, guarda, non ne posso più”.
“Dai qua. Ah, ma voi due ancora… ma Andy? Io voglio vedere Wanna Marchi, m’hanno detto che è allucinante. E che l’hanno valutata tipo diecimila euri. Scusa un attimo sai, Loriiiis!”.
Effettivamente dal lato opposto al tavolo a X, accostato a una delle vetrate violacee che fungono da pareti, si trova un altare in marmo stile diciassettesimo secolo. Sotto l’altare la struttura interna di un camino lascia bruciare tronchi di legno a forma di boccette, schizzando di tanto in tanto lapilli su una pelle d’orso stesa davanti. Grazie a un foro praticato al centro dell’altare le fiamme raggiungono al di sopra un busto in caucciù a forma di donna matura con i capelli rossicci, sul quale il trucco sbava i lineamenti e il calore brucia lentamente il color carne. Sul lato si ha un titolo: “Wanna Marchi e il contrappasso: 2002”.
Al piano di sopra Andy è appena uscito dalla sua vasca idromassaggio e si aggira nudo e gocciolante per la stanza da letto, il cui letto richiama quello di Cogne sul quale è stato ucciso il bambino: una testata squadrata di legno di noce e un materasso coperto da un copripiumone con una macchia stampata e irregolare di sangue rosso. Ancora nudo Andy inizia a spalmarsi nervosamente una crema oliacea e profumata per tutto il corpo mentre il suo agente Tonio è in piedi di fronte al letto e, anche così, gli arriva a mala pena ad altezza viso. Non fa che gesticolare come stesse girando e rigirando una palla pastosa.
“No Andy, se tu mi dici che è tutto okay, che non c’è niente da preoccuparsi, allora dico va bene. Do l’okay alla serata, chiamo la redazione e confermo”.
“Quando sarebbe?”.
“Martedì prossimo, si gira alle cinque. No, è che non vorrei che ti sputtanassi, Andy”.
“E allora?”.
“No, insomma, Zasconto è un bel trampolino di lancio, siamo d’accordo, ma potrebbe anche rivoltarsi contro. Voglio dire, no, che a volte la pubblicità negativa aiuta, d’accordo, ma a volte, Andy… insomma a volte fa sprofondare nel nulla… se riusciamo a prevenirlo è meglio. Che dici Andy?”.
“Dico che ho fame e che c’è gente che mi aspetta giù, per cui è meglio che vada”.
“No, è che se solo tu mi raccontassi qualcosa di te, ecco, magari potrei cercare di capire che intenzioni hanno. Andy?”.
“Se sono arrivato fin qui, Tonio, lo devo solo a me stesso. Perciò tranquillizzati, so quello che faccio e andrò da Zasconto. Ora cerca di divertirti, io scendo”.
“Ma vai nudo?”.
“Sì, voglio essere nudo, ancora non mi hanno fotografato nudo. Mi passi gli occhiali?”.
Al piano di sotto la musica si spegne e un grigio fumo dall’odore di ginger si diffonde nebbioso tutto intorno alle scale – mobili – a lato del tavolo da pranzo. Tutti si girano, qualcuno urla “Wowowow!”, ma poi cala il silenzio. Come da una nuvola densa di nulla se non di opacità, una figura lucida e immobile con un paio di occhiali alla Jackie ‘O sta calando lentamente al suolo. Qualche flash arriva inevitabile dalle vetrate esterne, la gente applaude e sorride tiratamente ma intensamente perché è lì apposta, e perché ha fame.
Andy non ha espressione che modelli il suo viso. Gli vibra solo, impercettibilmente, il labbro.

(tonfo di mattoni colorati)
(domani sarebbe stato un altro giorno)

Era il 1997 quando la troupe di Andy e Lidia stazionava ad Assisi per filmare la vita di quattro sorelle abbandonate al loro destino. Precisamente: una serata di fine settembre. Fortunosamente: un venerdì mattina di inattesa libertà. Le riprese erano terminate il giorno prima e dopo il fine settimana la troupe si sarebbe diasporata nelle varie tane cine-andro-cittadine per abbandonarsi a quel latente letargo, auspicabilmente non troppo lungo, dopo il quale un’altra telefonata sarebbe arrivata, un’altra fiction sarebbe iniziata, un altro mucchietto di soldi si sarebbe accumulato. Andy invece aveva dormito male quella notte, con un mezzo raffreddore di fine estate e uno sfogo epidermico all’altezza del ventre che inaspettato non gli bolliva in superficie dai tempi di quel campeggio in Croazia con la famiglia, quello in cui ogni notte per dieci giorni aveva condiviso il fetore dei piedi di suo fratello in un lettino oleoso da camper di terza categoria – mamma e papà avevano deciso di divorziare e avevano annunciato un lungo periodo di ristrettezze economiche, ma a ferie prese erano voluti partire comunque, scegliendo però al posto della carrozza una zucca moderna in lamiera beige. Il prurito si espandeva come gramigna a partire da un’unica piccola pustola vicino l’ombelico e lo costringeva a fregarsi la pelle infiammata quasi fino alla carne. Quei piccoli brufoli si alimentavano del suo strazio rimoltiplicandosi istantaneamente in un’esplosione di rossore, rivelandogli l’unica arma salvifica in un sottile vellicamento cutaneo. Prognosi: stress da sovraeccitamento; diagnosi: ricovero immediato nella sua alcova immaginifera; anamnesi?
La crisi nevrotica di Lidia quella mattina di certo non lo aveva sollevato. Il suo pianto sovraisterico continuava a risuonargli nelle orecchie, una campana cacofonica che non prometteva e non avrebbe promesso nulla di buono. Lei si era chiusa in bagno esasperando il suono della chiave che non si incastra nella serratura e lo sbattimento dei cassetti in cerca di chissà quale eccesso di tranquillanti, lui non si era nemmeno lavato, aveva infilato i jeans, preso la telecamera ed era uscito. Aria. Aria troppo pulita, aria troppo serena, aria conventuale che gli stimolava il rigetto di quella stasi antipofora: succederà mai qualcosa? No! L’albergo stazionava a valle poco oltre la porziuncola, in uno spiazzo circondato dal niente, ma Andy era troppo stufo di tutto quel guidare e, senza nemmeno una meta precisa, aveva preso a mettere un frenetico passo dopo l’altro in direzione dell’unico accenno di urbanizzazione potenzialmente antropomorfica. Mentre saliva il monte lungo un filare di cipressi, il sole era gentilmente assorbito dai prati, dai mattoncini rosati delle mura e perfino dai suoi capelli ramati, seccamente riflesso invece dal metallo levigato della sua fotocamera. Nella testa gli risuonavano ronzii di pensieri freschi di novità non ancora realizzate, per nulla incastrati e ancora volatilizzabili. C’era senza dubbio qualche cosa da scacciare il più lontano possibile, un rimedio definitivo a un errore di condizioni iniziali, necessariamente apocalittico, forse. Rosy la costumista era tonda, sinuosa, sessualmente invadente e con un fac-simile di diploma da relaxing therapist. Dopo il sesso lo costringeva spesso a un esercizio di svuotamento mentale: doveva immaginarsi l’ingresso di una casa rotondo, pieno di porte e dipinto di un colore che gli piaceva; ogni ostacolo alla felicità doveva essere focalizzato e chiuso a chiave dietro una porta diversa, per sempre. Andy provò a fare lo stesso mentre da Corso Marconi con il fiato sospeso arrivava a Piazza San Rufino. Dove avrebbe rinchiuso la sua stanza d’albergo? E il suo corpo non infinito? E le conseguenze di Lidia? E, se tutte le porte erano da chiudere, dove avrebbe mai pescato il giorno in cui si sarebbe tutto illuminato d’argento? Il mutismo e la pace lo sfottevano silenziosi. Aveva una voglia matta di prendere la cittadina intera come fosse un finto plastico, rivoltarla e scuoterle le cervella optando per un iczema cerebrale. Al bar sotto il portico centrale solo due vecchini sofisticati dividevano l’aperitivo di mezzogiorno non avendo più nulla da dirsi e due americani sulla trentina ciancicavano troppe erre con un tono di voce spropositato a priori, vista la calma piatta. Il capobarista con un grembiule verde sopra la camicia bianca era immobilizzato davanti alla terrazza, le mani sui fianchi in posizione dittatoriale, fissava il sole e stringeva le labbra fine in una linea orizzontale simile a un sorriso. Andy gli passò accanto ansimante e gli agguantò una spalla proseguendo verso l’interno.
“Fai un caffè Carlo?”.
“A portare via Andy?”.
“No, no. È per me stavolta. Dopodomani si va, Carlo. Si va”.
“Partite? Embe’. La città si svuota. Fate bene, qua il Signore sta dicendo la sua mio caro. Speriamo che non s’incacchi”.
“Com’è? Cacao, sì”.
“Embe’. Che non l’hai sentito? Contro le forze del male c’è poco da combattere figliolo. Eh, voi siete giovani, pensate che potete controllare tutto. Ma qua, quando la terra trema c’è poco da fare caro Andy…”.
“Ho dormito sonni agitati, diciamo. Ma che. Che è successo?”.
Carlo gli raccoglie un quotidiano chiuso in due stecche legnose e glielo scivola accanto alla tazzina fumante.
“Il terremotooo?”.
“Due scosse mi sembra verso le 2. Ottavo grado, a Colfiorito-Serravalle di Chienti. Ci vive mia suocera. A Colle Curti ci stanno feriti e due o tre anziani morti sotto le macerie. E poi una valanga, tipo trecento scosse in ventiquattro ore. Che devi fa’”.
“O Madonna”.
“Embe’. Tocca pensare alle cose importanti qua”.
“Hai figli Carlo?”.
“Figli, figli. E due marmocchi di nipoti, oggi uno c’ha la febbre e mi tocca staccare prima per stargli dietro. Tu, sempre in giro co’ sto marchingegno eh? Avevi detto che mi facevi una panoramica del bar, ma mo’ te ne vai via…”.
“L’ha lasciata quello che aveva la stanza prima di me. E io me la sono presa, no? Magari riprendo qualcosa di strano…”.
“Strano? Che vuoi riprendere Andy? Riprendi ‘sto bar no? Ah ah! Senti. Stammi bene e salutami tanto quella forza della donna tua. Donna energica eh?”.
“No, ma ripasso Carlo. Ripasso”.
Alle 11:31 Andy saliva inquieto verso la Basilica di San Francesco. Di tanto in tanto era ancora tentato di darsi una grattatina ad altezza cinta, ma sapeva che se si fosse anche solo sfiorato il tormento non lo avrebbe lasciato. Mise tutte e due le mani sulla fotocamera amatoriale e spingendo svogliatamente il pollice su ON prese a riprendere in modo volutamente caotico i marciapiedi, le chianche, i vasi di geranei, le finestre, una colomba, il cielo, i vasi di geranei, il sole, il muso di un cane randagio, le finestre, il cielo. La fotocamera fendeva quell’aria odiosa come una spada sguainata da un uomo che combatte contro un nemico invisibile. Continuava a camminare troppo velocemente, annaspando, scalciando e rischiando continuamente di inciampare. Il sangue aveva preso a solleticargli le tempie, quasi l’irritazione gli si fosse diffusa dalla pancia alla gola fino su al cervello, la testa inviava vibrazioni concrete ai timpani delle orecchie annebbiate dal flusso randomico di informazioni sbagliate, la sua mente aveva bisogno di tonnellate di input sconnessi, bytes ammucchiati in sequenze scollegate, viola-bluette-colore-bianco-colore-nero, i brividi si trasformavano in goccioline di sudore che colavano sulle guancie, e cercando in qualche modo di lasciarle indietro Andy non faceva che aumentare il passo verso la Basilica, distrazioni strappate alla disperazione di non poter assolutamente e inevitabilmente dare retta a qualsiasi forma pensante che potesse far pensare lui stesso a.
Poi, al girare dell’angolo, entrò dentro la basilica e si scontrò improvvisamente con due bambini che correvano via ridenti con un’aria da marachella: uno dei due gli passò sotto le gambe e la telecamera cascò per terra. Costretto a fermarsi appoggiò i palmi sulle ginocchia, gli occhi sgranati a tentare di riprendere fiato. Cos’era stato tutto questo panico? Eppure sebbene stesse fermo, con il sudore che gocciava a chicchi dalla tempia e il battito del cuore che gli pompava il petto, sentiva ancora il corpo muoversi in qualche modo, un effetto allucinogeno di pavimento che roteava, gli occhi annebbiati verso una strana perdita di equilibrio… Istintivamente credette opportuno muovere volontariamente le gambe, piegare le braccia, torcere il collo, rialzarsi e raccogliere la telecamera, cambiare sistema di riferimento e muovere se stesso rispetto al mondo invece che il mondo rispetto a se stesso, ma lo scuotimento stava diventando reale, ora si era aggiunto un trembolio del suolo, uno scuotimento dei mattoni, un’oscillazione delle mura, percezione di colonne che ondeggiano, rumori di pietre che si scontrano, le prime urla… il terremoto.
All’inizio della navata centrale, senza pensare più, Andy avvicinò l’occhio all’oculare aperto, spinse REC. In una nuvola di polveri cascanti un boato ultraterreno piombò dall’alto dell’abside sfrangendo la volta su macchie colorate, sprazzi di blu lapislazzulo, grani di stelline dorate, mani di artista, ma anche su due tute da tecnico, e un paio di tonache gementi. Dopo dieci secondi, Andy si rivoltò gli occhi e svenne, con la telecamera sulla pancia, a mo’ di cuscino.

(si riaccendono le luci)
(fregamento di cipria sul sudore di una guancia)

(standing ovation. elargizione di inchini da parte di Andy)
(uno spruzzo di sangue raggiunge la guancia di uno spettatore in prima fila)
MZ – Benissimo. Benissimo. Il pubblico è tutto suo, Warhol.
AW – Spero di esserne veramente degno. Grazie, grazie.
MZ – Non avevo ancora visto la sua opera d’arte sul prete pedofilo pugliese. Piuttosto efficace direi. Certe persone non avrebbero bisogno di giustizia, ma di una sorta di contrappasso. È questo il messaggio che c’è dietro?
AW – Ancora le ripeto. Il messaggio è l’opera stessa. E l’opera stessa è messaggio. Non amo quel tipo di critica che tende a vedere dietro le manifestazioni concrete di arte, come la plastica, il fuoco, il marmo, accostamenti mentali che non mi sono (colpo di tosse) propri, ecco. L’interpretazione rischia di essere deviante, capisce? Comunque sì, quello che hanno fatto quei preti ai poveri bambini, è senza alcun dubbio inammissibile.
MZ – È vero che tiene tutte le sue opere in un museo che è anche la sua casa? Dove dorme, mangia, insomma vive?
AW – Sì, è vero.
MZ – E?
AW – Mi scusi Zasconto non mi faccia ripetere, mi scusi. Rientra tutto nella mia coerenza di uomo e di artista.
MZ – Anche il pitone?
(scoppio di riso in platea)
(Zasconto si porta una mano sui baffi e maschera anche lui un sorriso)
MZ – Suvvia Warhol, qualche battuta me la concederà. No?
AW – Sono anche un uomo di spirito, stia tranquillo.
MZ – Meglio così. Diceva. La sua casa?
AW – L’ho costruita in cinque anni, ci hanno lavorato dieci architetti dello studio Ginger di Milano, e poi non so più quanti tra stylist, arredatori, équipe di giardinieri… Quando faccio una cosa mi piace andare fino in fondo, a costo di spendere il massimo delle energie.
MZ – È sicuro?
AW – Che vuole dire? Guardi Zasconto che non mi spaventa. Mi spavento già molto da solo…
(risata sforzata e solitaria di Warhol)
MZ – Invece si è spaventato quando ha filmato il crollo della Basilica ad Assisi? Ho letto che è stata un’esperienza molto forte per lei.
AW – Sì, l’ho già raccontato molte volte, e trovo difficile esprimerlo a parole. È stata in assoluto un’esperienza mistica. È come se fossi stato chiamato da Dio per immortalare il disastro. Ero lì per caso e le gambe mi tremavano e…
MZ – Le tremano anche adesso? A ripensarci?
AW – Oh sì. Oh sì.
MZ – All’epoca lavorava in una produzione cinematografica. Voleva fare mica l’attore Warhol?
AW – No, non avevo ancora trovato la mia vera vocazione. È così appagante trovare se stessi. E per farlo ci vuole molto tempo.
MZ – Mi trova pienamente d’accordo. E nel frattempo si cresce, si va avanti… si sente bene? Si sente bene, sì?
AW – … e… tutto bene, grazie. Le dispiace se cambiamo argomento? Sa, è stata…
MZ – Certo che no, però mi permetta un ultimo paio di domande. Anzi, gliele faccio a bruciapelo. La prima è, e insisto: era innamorato prima di diventare famoso? Insomma, cos’è per lei l’amore?
AW – …
AW – L’amore ha una forma unica e globalizz… scusi, potrei bere qualcosa?
(una mano di Zasconto blocca l’accenno della claque)
MZ – Bicchiere d’acqua grazie. Vedo che le fa paura l’amore, forse pensa che possa provocare tragedie…
AW – Che vuole dire?
MZ – Senta Warhol, è pronto a ricevere una telefonata che viene da molto lontano? Pensi, lontano di ben sette anni.
AW – S… Sette anni?
MZ – Ne è passato di tempo. Le voglio offrire un’occasione per andare a fondo nelle cose, come piace a lei.
AW – Eravamo d’accordo che dovesse essere presente il mio avvoc…
(non c’è scampo. non c’è scampo)
MZ – Non c’è fretta, non c’è fretta. Siamo qui tra amici Andy, lo sa.
AW – Ma insomma! È uno scherzo? … Di che si tratta?
MZ – Una bambina ha voglia di parlare con lei, sa? E non è un’ammiratrice.
AW – Una bambina? Ma come.
MZ – Signore e signori: si tratta una bambina di sette anni. E si chiama Ingrid.
AW – Non. Non. Non, io insomma non conosco nessuna Ingrid.
(cala il sipario?)

(fruscio di foglie che cadono)
(una bambola fluttua nel nulla)

Andy amore guardami negli occhi non puoi continuare a sfuggirmi, girati, voltati, guardami, Andy amore ti prego ho gli occhi gonfi che quasi non li apro e questo non ti fa nessun effetto? Eh? Andy Amore? Guardami, sono qui, sono qui, mi vedi? Perché continui a fare finta che non esisto, hai una storia con Giordana, con Rosy, con la costumista? Ti fa schifo Assisi? A me fa schifo sì, vomito ogni volta che mi sveglio, e tu? Eh? Dimmelo Andy, possibile che non capisci che ti amo che sono qui che mi sto massacrando per capire perché diavolo non ci sei più nelle mie merde di giornate? Forse ti ho trascurato, d’accordo, forse tu non ci sei mai, con quei cazzo di panini e pizze che porti su quella merda di vagone… ma che credi che anch’io non vorrei qualcosa di meglio per te, per me, per noi? Andy amore, guardami, voltati cazzo, questa volta non puoi sfuggirmi, adesso stai qui e mi ascolti, siediti cristo, ehi, ascoltami, alla fine di quello che ti dirò adesso, tu mi devi parlare, perché io esisto capito, esisto, respiro la notte sul tuo collo e esisto Andy, fissami ora, hai capito? Hai capito? Ho parlato con papà, lui dice che dobbiamo avere pazienza Andy, dice che la gavetta è importante, che a lui gli ci sono voluti anni, che noi siamo fortunati, e sai che ti dico? Ha ragione, Andy! Ma che pretendi di più? Guardami, ci sono io, c’è il nostro tesoro di amore, i nostri baci, la nostra voglia di stare insieme… questo è importante Andy! Dov’è finito? Mi guardi?Mi ascolti? Eh? Abbiamo tutto il tempo davanti a noi… piccolo mio, non ti basta? Non mi vuoi bene? Dammi la mano Andy, Dio, lascia che la baci…Dammela! Voltati! Tra tre giorni partiamo, ce ne andiamo da questo buco del mondo, e ci costruiamo una casa Andy, con le nostre carezze, le tue e le mie, e tu continuerai a lavorare sodo, insieme a me Andy, faremo tutto insieme, e sarai un fantastico segretario di produzione, ti ci vedi Andy? Ma devi piacere a tutti? A tutto il mondo intero? Non ti basta amore, cazzo, di piacere a me, a me, a meeee? Lo sai, ieri ho sognato che eravamo sulla scena del teatro greco sotto l’Acropoli, quello che ti ho raccontato che ho visto con papà, ricordi? Eh? Beh, eravamo lì a vedere Le Vespe di Aristofane, anzi eravamo gli attori principali, no ora che ricordo eri tu l’attore principale Andy, io ero così piccola… una mia gamba era lunga quanto il tuo dito indice e non riuscivo a stringerti la mano, ogni volta che ci provavo riuscivo solo ad aggrapparmi alla peluria delle dita, e piangevo Andy, Dio come piangevo! E tu, tu invece declamavi versi urlando nell’arena, urlando a braccia aperte, felice, a tutto il pubblico… ma io non potevo capire Andy, tu eri felice, ma il pubblico non c’era Andy, non c’era! I gradini erano vuoti cazzo! Io ero sola, ma tu con chi eri cristo? Se mi lasci Andy, se mi lasci, che ne sarà di te?Ah, ma non puoi, non puoi più. Capisci? E guardami! Adesso quello che ti dico non può non toccarti, dico, non può proprio, o forse sono pazza, mi credi pazza? Forse sono pazza, povero pazzo tu, Andy sono Lidia ricordi Andy? Sono Lidia, Li-dia capisci? Vuoi rispondere? Di’ qualcosa cazzo, e girati, guardami, ti sembro pazza? Ti sembra chiedere troppo? Non ti riconosco più Andy, non sei più il mio amore, Dio, non ho più lacrime Andy, finisco la voce Andy, dimmelo che non lo sei più, voltati, non ce la fai a dirmelo, eh?, non ce la fai, ho finito le lacrime Andy, non so più chi sei, cazzo, ma questa volta sei fottuto sai? Fottuto, toccami, fissami, lo sai cos’è la realtà? Lo sai qual è la realtà? Sei fo-ttuto Andy, ha-ha, e ora rido, rido di odio cristo, ti odio Dio santo, perché non muori? Eh? Perché?Rispondi? Andy così non ne esci cazzo, siamo finiti vero? Finiti, lo credi tu, lo credi, e guardami! Voltati ho detto!, siamo finiti Andy amore cristo, non lo capisci, non capisci un cazzo, Andy, non puoi nemmeno morire stronzo, e fissami! Aspetto un bambino. Hai capito? Un bambino cristo santo.
Dio, non te ne frega un cazzo.

(una bambola fluttua nel nulla)
(una bambola fluttua nel nulla)
(una bambola fluttua nel nulla)

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Questo racconto fa parte di un’antologia di racconti in cerca di editore intitolata “Effetti collaterali”, a cura della redazione di www.ellittico.org

29 COMMENTS

  1. scusate se parlo qui di una cosa che non c’entra con il pezzo, ma non so dove dare la notizia di una cosa che ho letto sul sito http://www.zibaldoni.it, dove c’è una recensione tripla a MORESCO-SCARPA-NOVE da far rabbrividire. i tre scrittori-compari vengono chiaramente fatti a pezzi. sarebbe bello sentirne discutere da qualche parte, forse qui sarebbe meglio, anche per i trascorsi, etc. perché non pubblicate quel pezzo, che si intitola ESERCIZI DI CONSAPEVOLEZZA? farebbe bene a molti.

  2. io stavo per scrivere: bel racconto, ma m’è piaciuto di più quello di andrea Falegnami postato tempo fa…

    ora che vedo che prima di questo commento c’è proprio un commento di andrea, ne approfitto per fargli i complimenti…
    “L’idea di equilibrio” l’ho stampato ed è da gennaio nel mio quadernone dove fingo di fare gli esercizi di statistica, e quando incontro qualche mio amico interessato a nuovi scrittori o roba del genere glielo faccio sempre leggere aggiungendo:”questo è un genietto ne sentiremo parlare” e “vedi che ha scritto: mi fa sentire una merda”…

    sei nell’hit degli autori nuovissimi che mi piacerebbe pubblicare se avessi una casa editrice (cosa di cui parlo spesso ultimamente, ma che è sempre al punto zero)… ma mi rendo conto che sei già sotto l’ala protettrice di un certo Christian Raimo, che peraltro ha pubblicato con minimum fax libri sui quali avrei puntato anch’io come Malcolm di Purdy e L’Opera gallegiante di John Barth o roba di Barthelme…

    vabbè,
    byezzzzzzzzzz

  3. ‘Sta mania che c’avete di parlare dei cazzi vostri nei post.
    Allora io ho presente ambedue i racconti e li trovo non diversi ma imparagonabili.
    Quello di Andrea F. è sì molto bello, ma è meta-fiction ragazzi. Non è esplosivamente nuovo: è meta-fiction. E allora io adoro Wallace e Barth e dico: Falegnami? Bravo autore di meta-fiction.
    Quello di Claudia Q. è una valanga assurda di emozioni, ma soprattutto parole. Abusa di aggettivi peggio di Carmen Consoli ma lo fa senza compiacimento provinciale da “mammà mi ha comprato il vocabolario!!!”, visto che inventa spesso qua e là parole. Il finale è struggente, solo che mi chiedo: c’è speranza? Claudia, non so se leggi questi nostri commenti, ma per te: c’è speranza sulla terra qui e ora?

    Vi abbraccio tutti, grazie di questi bei racconti GRATIS.

    Jacques.

  4. A me il racconto non è piaciuto. Invece mi è piaciuto parecchio l’entusiasmo di donato per Falegnami, mi sembra generoso. La tripla recensione su zibaldoni.it offre degli spunti per quanto riguarda Moresco; sugli altri due si butta un po’ via, e cazzeggia di misura. Saluti.

  5. Ti è piaciuto l’entusiasmo di donato per Falegnami. A me è piaciuto il sorriso della nonna del cugino di mio fratello per quanto si è entusiasmata quando le ho detto della reazione di un mio caro amico al commento di sette post fa rispetto a un pezzo di cui non ricordo l’autore né il titolo, ma è generoso.

    Abbracci.

    Jacques.

  6. Il finale struggente. Da una contrapposizione tra il mondo mascherato di apparenze di Andy e la debolezza emotiva di Lidia non ti aspetti certo redenzione. No, qui non c’è speranza Jacques. Altrove forse…

  7. Onestamente, mi entusiasmerebbe anche un cazzotto nei denti di jaques, se ben assestato, o fracassargli le costole, o percorrergli la vena succlavia con una lama temprata. Ma in mancanza di meglio, sì, mi entusiasma la generosità di donato.

  8. Christian Raimo ma dove li peschi questi geniacci? Senti ma perché non posti solo tu su Nazione Indiana che ci si annoia sennò?

    grosso puffo per servirti.

  9. Jacques il nome, tra parentesi. E’ uno che s’è parentesizzato da solo, so un tubo.

  10. Jacques il parentesizzato lo conosco io! Mi deve 300 sacchi, mica pfennig! E che caz, c’ho mica i soldi di Hegel io! Perché s’ha da far finita una volta per tutte. Prima d’alzarsi dal tavolo si paga in contanti. Con gli assegni posdatati non ci pago neanche l’affitto dello Stift. Specie quando sono scoperti. Come quelli di Jacques. Tra parentesi.

  11. Gran gran gran bel pezzo. E’ eccessivo e ipertrofico, ma bello bello bello. Lo stampo e lo fotocopio, lo do in giro. Mi sento un po’ Andy oggi, sarà questo.

    Antonio Bartolini.

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