Friûl-’srael-Palestine

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Di Flavio Santi

Tornâ dîs ains daspò
’l sô amôr ’vee piardût
dutes les fuees
e cuant ai tucât te puarte
mi a aviert un frutin,
che frutin che a mi non me ’vee dât,
sigûr, iò a eri scjampât, lât vie,
Iugo, Croassie, Bosnie, Montenêgr,
dute le zingarìe dal mont
par la construsion d’un anarcjc:
vo’ a stavis chi, incapacs di revolusions.

E devant chele muse frutine
mi disevi cu le vangje dal dubi:
«Dongje di noatri la Iugo a l’a ût cuistions, tu no, parcé?
E Ivan Motika el boe di Pisin cui ch’al
se lu file ancjmò? Tu lu sas
ch’al podeve lâ piês cà che laiù?
Cuand i titins e an dât flât
a le polvar piric dai fusils,
vistîts di velût neri
e giuavin a balon cui cranis?
Po’ tan ben il mâl a l’è stade l’Istrie,
lasade lâ vie.
E duc i sfolâts
lâts vie te nâv ’ne matine de Pole.
No, tu ses trop giovin, ninin.
Ma iò po’ soi lât lì dentri,
ai pasât i cunfins neris,
no tu eris ancjmò nasût, ninin,
che noatris a lavin a fâ bensine laiù,
dome che robe, altro che pansclavism
e le nature nu rideve
da l’altri bande dal cunfin.
Confidente in noatris e ne sos sisiles,
ma no nei omenuts sos,
parcé cuand Dziga Petrovic
a l’è lât de so barbe,
lui a sbarât invesit di portât
le solite taniche de miscele:
e l’odi a diference de l’amôr
no a ul spiegacions
e ancje il nostri rampit cunfin
a pos sclopâ.
Cemûd?
Des voltes rive che
i omps a vadin a doi a doi,
parcé vivin tun arc d’un kilometro:
te stese vile, stese vie, stes borc,
disin ch’e son i omps pui infelis
muarts de lor stese ricjese,
e alore al pos sucedi
che di colp si sbarin.
Mai fâ nuie però
parcé al è come lâ al cine
che tu sintis dei rumôrs
daûr el linzûl: ci si alcie
da le propie cjadree par cjalâ daûr?
No, evidementri no
e lo spetacul a ul de lâ indenant
(ve sciò mast go on).
Ma la circolasion da l’odi tal mont
a l’è esponencial e mai catartiche,
tu capissis ’ste peraules? o sono mase dificiles?
A l’è cuand si fas subite
a pasâ de Iugo ai sintos:
e a son galasies fofes
intercomunicabiles cu
le navicele da l’odi.
No saverai mai
com’a l’è lât chel sium
dulà iò o soi partisan
ma ai pore, cjôl sù
’l fusil cu l’impression di muart
ma no sbari,
e a vegnin jù de Val Canâl,
amâts di plastic,
armâts di fede,
il bum dal cûr
lu fa ancje le bombe,
bum, te case toraciche
a fan cu les cuestes un silofono,
frut ninin che no tu vigniras,
to pari a l’a i uès scuancassâts
un cratêr invesit dal cuarp
e nie derits pa l’anime
di dut chei ch’al stampin i bugjei
su l’asfalt e a l’identitât
no reste che sfriulâ
come carbon fossil, ’ne siderurgie da l’anim.
Du là le ’tomiche no a l’è cuistion
de fisions nucleârs, ma de int
masse presade, masse pocade
Palestine e polente:
Friûl savalon,
svol di claps pal cîl,
Friûl, ’srael d’Italie».

*

Friuli-Israele-Palestina

Tornare dopo dieci anni
il suo amore aveva perso
tutte le foglie
e quando bussai alla porta
mi aprì un bambino,
quel bambino che a me non aveva dato,
certo, io ero scappato, andato via,
Iugoslavia, Croazia, Bosnia, Montenegro,
tutti gli zingari di questo mondo
per la realizzazione di un anarchico:
voi ve ne stavate qui, incapaci di rivoluzioni.
E davanti a quella faccia da bambino
mi dicevo con la vanga del dubbio:
«La vicina Iugoslavia ha avuto problemi, e tu no, perché?
E Ivan Motika, il boia di Pisino qualcuno
se lo ricorda ancora? Tu lo sai
che poteva finire peggio qua che laggiù?
Quando i titini hanno dato fiato
alla polvere pirica dei fucili,
vestiti di velluto nero,
e giocavano a calcio coi crani?
Alla fine per fortuna il male è stata l’Istria,
lasciata andare via.
E tutti gli sfollati
salpati una mattina da Pola.
Ma no, tu sei troppo giovane, piccino mio.
Poi io sono andato lì dentro,
ho passato i confini neri,
tu non eri ancora nato, piccino mio.
e noi andavamo a fare benzina laggiù,
solo quello, altro che panslavismo
e la natura ci sorrideva
dall’altra parte del confine.
Fiduciosa in noi e nelle sue rondini,
ma non nei suoi ometti,
perché quando Dziga Petrovic
è andato da suo zio
gli ha sparato invece di portargli
la solita tanica di miscela:
l’odio a differenza dell’amore
non ha bisogno di spiegazioni
e anche il nostro striminzito confine
può esplodere.
A volte capita che
gli uomini vadano a due a due,
perché vivono nell’arco di un chilometro:
stesso paese, stessa via, stesso borgo,
dicono che sono gli uomini più infelici
morti della loro stessa ricchezza,
e allora può capitare
che all’improvviso si sparino.
E mai far niente
perché è come andare al cinema:
se senti dei rumori dietro lo schermo
ti alzi dalla tua sedia per vedere dietro?
No, evidentemente no
e lo spettacolo deve continuare
(the show must go on).
Ma la circolazione dell’odio nel mondo
è esponenziale e mai catartica,
capisci queste parole? sono troppo difficili?
È quando si fa presto
a passare dalla Iugoslavia agli arabi:
sono galassie morbide
intercomunicabili con
la navicella dell’odio.
Non saprò mai
com’è andato a finire quel mio sogno
su io che sono partigiano
ma ho paura,
imbraccio il fucile
col senso di morte ma
non sparo,
e scendono dalla Val Canale,
amati di plastico,
armati di fede,
il bum nel cuore
lo fa anche la bomba,
bum, nella gabbia toracica
fanno con le costole uno xilofono,
caro figlio che non verrai,
tuo padre ha le ossa rotte
un cratere al posto del corpo
e non ci sono diritti per l’anima
di tutti quelli che stampano le budella
sull’asfalto e all’identità
non resta che friggere
come carbonfossile, una siderurgia dell’animo.
E dove la bomba atomica non è questione
di fissioni nucleari, ma di gente
troppo compressa, troppo schiacciata
Palestina e polenta:
Friuli sabbia,
volo di sassi nel cielo,
Friuli, Israele d’Italia».

da Asêt, Aceto (La barca di Babele, Circolo culturale di Meduno, Meduno, 2003)

(immagine di Jenny Holzer)

52 COMMENTS

  1. Sono sempre stato del parere che il lettore dedichi un po’ del suo tempo (e dunque un pezzo della sua vita) all’autore e se rimane insoddisfatto abbia tutto il diritto di dirne peste e corna. Però le stroncature mi incuriosiscono. Un giudizio come “Minkiata galattica” mi fa pensare che la poesia in questione sia un disastro sotto ogni aspetto: argomento, poetica, musicalità, suono, ecc.
    Io non ho avuto l’impressione di un capolavoro ma neanche di una minchiata. Però non sono un poeta e magari mi sbaglio. GM, potresti articolare il tuo giudizio in modo da aiutarmi a capire ? Grazie.

  2. E’ anche vero che il rispetto del lavoro altrui
    non si insegna ai coglioni. Quelli producono solo sperma.

  3. In margine alla galattica discussione, mi permetto una piccola confessione. Mi piacerebbe in realtà sapere da altri lettori di poesia, che succede loro di fronte ai testi in dialetto. A me è sempre successo qualcosa di disagevole, anzi di ripulsivo. Per molto tempo il dialetto (qualsivoglia mi capitasse sotto gli occhi) mi ha stizzito. Conseguenza: quasi totale impossibilità di leggere i poeti dialettali. Il problema è che io mi sento un individuo di una specie completamente post-dialettale. Ciò non significa, si badi bene, provare repellenza nei confronti dei dialetti ancora parlati, sopravviventi negli interstizi dell’italiano medio (il fantomatico ‘italiano medio’). E’ il dialetto in versi, il suo carattere letterario, che faccio fatica a digerire. Ma nel tempo la mia ottusa e compatta prevenzione ha cominciato a scricchiolare. Dapprima l’infiltrazione Biagio Marin, poi Calzavara, appunto. Qualcosa di Loi. E infine due amici e poeti che stimo, Zuccato e Santi, che mi obbligavano a disagevoli esercizi di lettura. Ma ora, pur non essendo del tutto bendisposto alla poesia dialettale, vi entro con maggiore felicità, come si entra nella lingua estranea e impastata di un ubriaco, fitta di lampi improvvisi di senso, in mezzo a un pastoso succedersi di suoni indistinguibili. E addirittura mi capita di leggere interi testi direttamente in dialetto, capendo quasi zero, ma evitando di passare subito alla versione in italiano. E quasi mi sento pronto per Tessa e per tanti altri. Anzi, per uno solo, in fondo. Che da tempo mi aspetta sornione. E potente. Carlo Porta.

  4. Andrea, poni un tema non da poco. Purtroppo muoio di sonno e non riesco ad elaborare nulla di sensato, ma è chiaro che quello che dici è più di una semplice confessione.
    Porsi di fronte al dialetto significa, ormai scrollato di dosso una sorta di razzismo culturale indotto da una cultura omologatrice e fascistoide, innnanzitutto avere coscienza di stare di fronte a una lingua “altra”, espressa, poi, con una forma “altra” come è sempre più la poesia. Difficoltà doppia. Le traduzioni (“orrore, orrore”, già li sento i puristi) servono eccome. Ci prendono per mano e ci accompagnano nell’altro mondo linguistico.(ma ci aggiungo: pure le “spiegazioni”, perché no? Una poesia non è mica una barzelletta che se la spieghi non fa più ridere. Perché storcere il naso di fronte a una messa in prosa di una poesia, se questo poi ci fa tornare al testo con occhio diverso?). Certi dialetti poi sono, per varie ragioni, ostici come potrebbe essere ostico il rumeno o il ladino. Occorre pazienza, insomma. E rispetto per chi usa il dialetto come lingua (e quindi viva e mutabile) e non come nostalgia.
    Siamo tutti ormai una generazione senza dialetto. Ma anche altri prima di noi, ad esempio. Il più famoso è Pasolini, che il dialetto (che NON parlava in casa, perché lui era di Bologna, la madre friulana e il padre romagnolo) se l’è addirittura “inventato” sulla sua pelle.

    Porta, comunque, è, ti assicuro, vetta siderale. Uno dei nostri quattro o cinque autori dell’Ottocento che reggono, per me, il confronto con l’Europa.

    saluti sbadiglianti, G.

  5. E’ molto interessante la questione della poesia dialettale, anche a me succede di provare irritazione nella lettura, forse per una mia incapacità di comprenderne fino in fondo il senso espressivo. Quindi leggo la poesia dialettale come se leggessi una poesia in lingua straniera e di conseguenza ho l’impressione, alla fine, di leggere due fiumi che scorrono in parallelo. Qual è la poesia? Quella in dialetto o la sua traduzione? Forse entrambe e qui sta la potenza evocativa dei versi dialettali. Una ventina di giorni fa ho avuto il piacere di conoscere Zuccato durante una serata alla Casa della cultura e di fare chiacchiere con amici poeti proprio sulla poesia dialettale. Ecco ascoltando Zuccato leggere uno dei suoi testi si è aperto un piccolo varco, l’ascolto dei suoni e dei ritmi dei versi mi è piaciuto molto. Come se l’impossibilità di riconoscere la lingua scritta avesse trovato una mediazione nell’ascolto di quei versi che erano musica e poesia allo stesso tempo. Così l’ho vissuta da lettrice in ascolto.

  6. Certo NG, il friulano è una lingua. Ma ti dirò di più: per come la vedo io anche il veneto o il napoletano sono una lingua.
    E’ politicamente molto più semplice ammettere che il friulano lo sia, non “compromette” l’unità nazionale. Ma dire che in territori fondamentali per l’economia o la popolazione di una nazione esistano lingue e non dialetti fa scricchiolare una visione etnicisto-fascistoide dell’Italia.
    Non sto facendo (attenzionissima!) un discorso protoleghista. Ma dico: cosa fa di un parlato una lingua e non un dialetto? La sua omogenea diffusione su un territorio, la sua viva presenza, la tradizione aulica, letteraria, la coerenza politico territoriale… ma, scusate, non è così (sempre nei miei due esempi ma che potrebbero essere molti di più) anche nel veneto o nel napoletano?
    A questo aggiungiamo come la sovrapposizione di lingue straniere, l’omologazione televisiva, la depauperizzazione localista, etc. abbiano soffocato queste lingue, come, probabilmente siano inevitabilmente destinate alla lenta ma inesorabile dispersione, aggiungiamo anche come sempre più nelle grandi città non si parli più nessun dialetto coerente e che si stiano creando gergalità rionali, misti linguistici che prevedono parole e locuzioni che vengono da territori differenti. Insomma: diciamo che la lingua si muove, eccome. Che l’Italiano non è quella cosa da toscani snob ma un pasticciaccio gaddiano, ricco, espressivo, nobile e volgare. E che dare patente di lingua al romagnolo o al sardo non mi fa sentire meno italiano. Ma qui sto andando da tutt’altra parte.
    In ogni caso se questa consapevolezza fosse presente in TUTTI i poeti “dialettali” avremmo una poesia migliore. La verità che la maggior parte di loro si crogiolano del loro localismo, rendendo, appunto, insopportabile tale poesia. Ma chi non lo fa, chi ha coscienza intellettuale del suo agire, fa poesia alta. Ma poi, non dovrebbe essere così per tutti i poeti (quelli “in lingua” compresi)?

  7. Scendendo dai vertici delle galassie, vorrei provare a inserirmi nel discorso su lingua e dialetti. Il friulano è una lingua ? Se lo è, penso che sia neolatina (come il romeno, il portoghese, il siciliano, il napoletano, il milanese…). Dove si è mai parlato il latino di Cicerone ? E il greco di Tucidide ? Franz, tu che te ne intendi, un sassone e uno svevo si capiscono se parlano ciascuno il suo dialetto ? E l’inglese ? E’ risaputo che niente divide inglesi e americani più della lingua che hanno in comune. (Per non aprire poi il discorso dei socioletti, tipica invenzione d’oltremanica).
    Totale: cosa distingue il dialetto dalla lingua ? Fino all’inizio del secolo scorso si poteva dire che la lingua fosse quella usata dalla letteratura e dalla pubblicistica, perché i media erano tutti lì. Da quando esistono il cinema, la radio e poi la televisione, la lingua è quella che si parla in TV. Può piacere o non piacere (a me non sempre piace) ma è così. Ci sono degli inconvenienti (non mi abituerò mai a dire “vicino Roma”) ma forse ci sono anche dei vantaggi (per esempio, potrebbero risorgere dei formidabili anacoluti come quelli di Machiavelli. “…mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui”. Fantastico !) Detto questo, che senso ha scrivere in lingua-TV o in lingua-dialetto ? Io credo che abbia un senso molto preciso: si sceglie di scrivere in una o in un’altra lingua esattamente come si sceglie lo stile, il lessico, il tono. Si tratta, cioè, di scegliere la forma adatta a ciò che si intende esprimere. Dipende dalle cose a cui ci si riferisce, dalla loro storia, dalla cultura a cui appartengono. Dipende anche dall’interlocutore, dalla sua storia e dalla sua cultura. Eccetera eccetera. Edoardo Zuccato scrive nel dialetto dei miei genitori, quindi lo capisco abbastanza bene, ma credetemi: Zuccato è poeta tout court. Se scrive in dialetto è perché, per gli argomenti che tocca e per il modo in cui lo fa, quel dialetto è la FORMA giusta. Potrebbe scrivere ottime poesie in ottimo inglese, per esempio, visto che è una lingua che conosce benissimo. Forse l’ha già fatto. Dipende dallo spunto poetico.

  8. Ora non ho tempo. Rispondo meglio più tardi. Per ora solo: il friulano è una lingua ladina non neolatina.

  9. Questa non l’ho capita. Che vuol dire? perché il ladino non è neolatino?
    Per intenderci:
    FURLAN. Lingua indoeuropea, gruppo neolatino. Secondo una classificazione corrente, il friulano costituisce il ramo orientale di una superiore “unità” retoromanza comprendente anche il ladino dolomitico e il romancio grigionese.

    Sempre neolatino è, insomma.

  10. Caro Riccardo, sullo svevo e sul sassone non so nulla; immagino che siano piuttosto diversi.
    Io credo che il friulano sia un dialetto, come il siciliano, il piemontese, il lombardo (con le innumerevoli varianti locali)eccetera, e questo dialetto è appartenente al gruppo linguistico di cui fa parte il romancio, che si parla nel cantone Grigioni. Ma il romancio è una lingua, invece. Perchè? Semplice: è stata decretata quarta lingua della Confederazione Svizzera (dopo tedesco, francese e italiano)da un referendum popolare.
    Ecco uno schema dei dialetti (e non lingue) italiani:

    DIALETTI SETTENTRIONALI

    Dialetti gallo–Italici (Lombardo, Piemontese, Ligure e Emiliano – Romagnolo)

    Dialetti veneti

    Dialetti istriani (Friuli)

    DIALETTI CENTRO-MERIDIONALI

    Dialetti toscani

    Dialetti mediani (Laziale, Umbro, Marchigiano Settentrionale)

    Dialetti meridionali intermedi (Laziale, Umbro, Marchigiano Merid., Abruzzese, Molisano, Pugliese, Salentino-parte nord (a sud si parla, a tutt’oggi, il greco antico), Campano)

    Dialetti meridionali estremi (Calabria e Sicilia)

    Dialetto Sardo – diviso in:

    Dialetto logudorese-campidanese (Cagliari)

    Dialetto sassarese-gallurese (Sassari)

    Dialetto Ladino – diviso in:

    Dialetto friulano

    Dialetto ladino-dolomitico

    Fuori dei confini dello Stato italiano si parlano dialetti italiani in Corsica,(i dialetti corsi rientrano nel gruppo dei dialetti italiani centro meridionali)e in Istria (dialetti istriani). Nel Cantone dei Grigioni si parla il romancio o grigionese, che é una varietá del ladino.

    All’interno dei confini politici dell’Italia vivono gruppi etnici di varia consistenza numerica, i quali parlano otto lingue (o varietá di lingua) diverse dall’italiano:

    Provenzale (Alpi piemontesi: Torre Pellice; Calabria: Guardia Piemontese)

    Franco-provenzale (Valle d’Aosta; due comuni della provincia di Foggia)

    Tedesco (Alto Adige; varie zone delle Alpi e delle Prealpi)

    Sloveno (Alpi Giulie)

    Catalano (Sardegna; Alghero)

    Albanese (vari comune del Meridione e della Sicilia)

    Greco (alcune parti della Calabria e del Salento)

  11. Per distinguere lingua da dialetto potremmo limitarci ad attribuirle tale status quando si tratta di lingua ufficiale riconosciuta da uno stato sovrano sul proprio territorio, dialetto tutte le altre parlate; una semplificazione con tutti i limiti politici intuibili. Sia le parlate affini alla lingua ufficiale sia quelle che, per vicinanza ad un confine o per vicende storiche, hanno portato popolazioni di diversa cultura ad abitare i territori di un’altra nazione (quando la stessa non è si è spostata sulle loro terre). In Friuli, in Val Resia, si parla una lingua slava, ma di un ceppo geograficamente molto lontano: Russia non la vicina Slovenia. Le lingue non hanno confini netti e definibili e, se li hanno, diventano lingue morte. Tutte le altre lingue, dialetti, parlate, linguaggi sono suscettibili di prestiti, di evoluzione, di essere oggetto di espressioni letterarie, raccontano storie di popoli (ed è la lingua, più di tutto il resto, che definisce un popolo). Fra gli indiani d’america ci sono un numero considerevole di lingue e non sono nemmeno delle lingue scritte. Lo sapete bene voi, qui, che fate dei linguaggi il vostro mestiere, che le espressioni hanno pari dignità anche se non sempre pari opportunità e non pari diffusione. Poi ci sono le estremizzazioni, secondo me sempre sterili, come i muli, che portano, ad esempio certi gardesani (ladini), a voler chiamare il mouse: surisa. Non serve che lo traduca in italiano, vero?

  12. Franz, le tue precisazioni hanno inquadrato il problema dal punto di vista geografico. Però a me piacerebbe approfondire la questione “differenza lingua-dialetti”. Il fatto che la Cunfederaziùn abbia decretato il romancio quarta lingua nazionale elvetica mi rallegra ma non mi dice gran che. Credo che le lingue non diventino tali per decreto, ma per altri motivi. Uno, per esempio, può essere il caso del basco: lingua di ceppo totalmente estraneo a quelle che lo circondano, quanto a letteratura ha prodotto poco e di scarsa qualità, ma è riuscita a conservarsi grazie alle tradizioni popolari, alle canzoni, agli sport tipici dei baschi. La stessa cosa non sono riusciti a fare i bretoni, molto più seriamente colonizzati dalla Francia: per secoli la loro lingua è stata considerata, de facto, un dialetto. Un caso opposto può essere, per esempio, il napoletano: un dialetto che ha prodotto cinema, teatro e letteratura (spesso di basso livello, canzonettaro e sceneggiataro) ma vivi al punto da far considerare il napoletano lingua a tutti gli effetti.
    Poi immagino che gli specialisti abbiano modelli grammatici e sintattici (oltre che lessicali e semantici e chi più ne ha più ne metta) per classificare lingue e dialetti. Ma, una volta che un dialetto sviluppa una letteratura o qualcosa di equivalente, che cosa lo distingue da una lingua ?

  13. cari Ferrazzi, Biondillo, NG, & compnay, vedo che avete avviato un disamina agguerrita e di tutto rispetto… Vi butto dunque ben volentieri un altro boccone del Santi. (In attesa di buttare nella mischia qualche cenno su di un saggio di tal Pascal Casanova, “La république mondiale des lettres”, che sfonderebbe ulteriormente l’orizzonte di discussione…)

  14. (per l’agosto apriamo una bella discussione sull’indoeuropeo? con tanto di faida finale tra correnti glottologiche?)

  15. Rispondo (in ritardo) alla domanda di Andrea Inglese.
    Io sono in grado di capire il “mio” dialetto, ma non lo parlo e comunque non lo vivo come la “mia” lingua.
    Con il dialetto scritto la distanza e il senso di estraneità aumentano.
    La poesia dialettale spesso mi sembra doppiamente artificiosa: all’artificio del dialetto su pagina vedo associato l’artificio del rimpianto stucchevole per un mondo perduto.

    Il “mio” dialetto mi dà la possibilità di leggere e di capire Raffaello Baldini, uno dei poeti dialettali contemporanei più importanti, uno che ha rinnovato profondamente le tematiche tradizionali della poesia dialettale.
    Questa possibilità dovrebbe avvicinarmi alla poesia in dialetto, ma in effetti non è così.
    È più forte di me. Non riesco a farmi coinvolgere per davvero dalla poesia dialettale.

    Tutto questo è il risultato di un’omologazione forzata?
    Probabilmente sì. Resta il fatto che avere l’italiano come “mia” lingua mi sembra una bella opportunità.

    Spero di riuscire prima o poi a leggere Baldini e gli altri poeti dialettali che potrebbero interessarmi.
    Penso però che continuerò a mantenere il fastidio che provo adesso per le esibizioni muscolose di “romagnolità”, “napoletanità”, “friulanità”, ecc. ecc. Anche se i muscoli sono solo prova di debolezza e di sconfitta…

  16. L’indoeuropeo!!!!! Bellissimo. Una nuda spirale di DNA. Poi le lingue sono vestiti e abitudini diverse.

  17. Caro Riccardo, secondo me il discorso dei Baschi è un discorso a parte, epperò vale la pena di allargarlo ad altri popoli, come quello Brettone. I Baschi sono un vero e proprio popolo, con una loro lingua, (ovviamente con una loro cultura), e una loro letteratura che però non ha raggiunto i vertici di certa letteratura dialettale di casa nostra, espressa soprattutto attraverso grandi opere poetiche napoletane, milanesi,romane, friulane ecc. Dunque il problema è questo, la distinzione va fatta a mio parere su due livelli.
    Primo livello: il dialetto è espressione di una zona geografica, all’interno di uno stato sovrano; tale zona geografica non è sempre facile da delimitare, anzi spesso un dialetto, per così dire, sfuma in un altro, gli imbastardimenti sono innumerevoli; e per fortuna, dico io. Un dialetto va poi diviso in vernacoli, o parlate. Esempio: è errato dire che esiste il dialetto calabrese. In Calabria ci sono solo vernacoli, spesso molto differenti tra loro. A cinque chilometri di distanza tra due paesi si definisce una stessa cosa in modi spesso molto diversi. Le cause? Uno spezzettamento e isolamento sociale protratto nei secoli, indigenza, difficoltà di comunicazione ecc. Nella stessa progredita (dal punto di vista della civiltà industriale) Lombardia non si può proprio dire che il vernacolo milanese sia uguale a quello pavese, per esempio.
    Secondo livello: in ambito letterario l’espressione vernacolare riesce talvolta a superare anche le sue stesse barriere linguistiche e di comprensione, sulla base della sua intrinseca qualità letteraria. I versi del Porta sono universali, i grandi poeti napoletani (Marotta, Di Giacomo ecc.)sono universali. Non è per forza l’idioma l’ostacolo o viceversa il volano, lo è il valore dell’opera letteraria. L’opera letteraria forte, importante, può essere scritta in qualunque lingua o dialetto o vernacolo o addirittura gergo. Il problema è la comprensione al di là delle zone di appartenenza e di comprensibilità, e la traduzione spesso non basta a restituirci il senso profondo di un’opera. Ma questo, è cosa nota, è valido per qualunque poesia tradotta da una lingua altra, anche per T.S. Eliot o Verlaine, insomma.
    Il dialetto è espressione locale e diventa spesso espressione (proprio perchè non omologata a modelli industriali e massmediologici)più feconda
    dell’interiorità; perchè il dialetto è “lingua” delle proprie radici più antiche, è “lingua” del passato che non vuole morire, in certo senso è “lingua” “resistenziale” o, sempre non in senso politico, “reazionaria”. Il tuo definire spesso di basso livello la lingua “canzonettara” secondo me non rende giustizia a poeti di valore che si sono cimentati nella forma canzone (ben diversa dalla forma poesia, come ben sappiamo, perchè funzionale a una composizione musicale)con risultati, soprattutto nella tradizione napoletana, eccezionali. Non è un mistero, dopotutto, che la poesia nasce comunque nei tempi antichi come un tutt’uno tra parole e musica. Ma il napoletano non è una lingua, e qui non c’è santo (Gennaro, nella fattispecie) che tenga. Una lingua è espressione di una nazione e di uno straccio – nel ns caso- di indentità nazionale, ed è avvantaggiata rispetto a un dialetto perchè, molto semplicemente, è comprensibile a un maggior numero di persone. In un certo senso, una lingua è un dialetto che ha avuto fortuna, che è uscita dal suo ambito locale ed è diventata lingua nazionale: così è stato, da noi, per il toscano. I Paesi Baschi sono cosa a parte perchè la loro lingua non ha niente a che fare con il castigliano corrente. La stessa cosa non si può dire dei dialetti italiani, dal friulano al calabrese, che, ciascuno a suo modo, conserva comunque molto forte l’impronta di derivazione neolatina.
    Un caso a parte merita la Francia. In Francia non esistono dialetti propriamente detti, come da noi o in Germania. In Francia esiste il francese e l’argot, che non è un dialetto ma un gergo (anzi parlata popolare) che viene parlato con qualche inevitabile variante a nord come a sud, a est come a ovest.
    L’olandese, a voler essere cattivi, potrebbe essere definito un dialetto tedesco. Latte in tedesco si dice Milch, in olandese Melk. Ma è anche vero che in inglese si dice Milk… E l’inglese potrebbe essere, in un certo senso, un dialetto francese con forti influenze germaniche,(la parola selvaggio in tedesco come in inglese si scrive allo stesso modo- “wild”- ma bicicletta in inglese si dice bicycle mentre in tedesco si dice Fahrrad); come il romancio è un dialetto neolatino con forti influenze germaniche. Invece l’olandese è una lingua – la lingua nederlandese: perchè lingua nazionale di uno stato sovrano.
    Non è una questione di qualità letteraria, Nooteboom forse prenderà il Nobel ma per me, e per altri più informati di me, rimane un ottimo scrittore non da Nobel, mentre Pasolini il Gran Premio del Dinamitardo Svedese certamente lo avrebbe meritato di più con i suoi straordinari romanzi sui ragazzi di vita in romanesco “filtrato” e con le sue poesie in dialetto friulano, la “lingua” (in questo caso diciamo proprio lingua)della sua “terra-madre”.
    Il Nobel un giorno, forse, lo prenderà Philip Roth, che non a caso scrive in inglese…

  18. Detesto i dialetti. Sopratutto quello che parlano i miei co-etnici padovani. Attenzione, però, il veneziano – per es. – è già tutta un’altra cosa: c’è aria c’è mare c’è Bisanzio. Nel padovano (che non è il vicentino che non è il bassanese che non il camposampierese che non è …) c’è letame, grevezza, stronzaggine: gheto magnà pesse o poastro (hai mangiato pesce e pollo)? Ma non sentite la spaventosa terrignità di questo eloquio. Ti trascina a terra – ti impasta con il fango degli iracondi. E poi, scusatemi, ma chi diavolo mai parla sul serio il dialetto, ora? Siete mai entrati in un negozio di abbigliamento o – semplicemente – vi siete mai messi stesi sul telo, al mare, ascoltando le signorine o i signorini in fianco a voi? Parlano un mistume di italo-dialetto-televisiofonico che fa cadere la pelle a squame. Quindi, viva l’italiano. E non cambia assolutamente nulla che esistano grandi poeti che hanno scritto in dialetto (occorre che li citi?) – cambia nulla perché è come se avessero scritto in finlandese. E se li devo tradurre, ditemi voi dove sta la differenza. E poi, non ci basta Babele? Abbiamo proprio bisogno di moltiplicarla? Perché – invece – non scriviamo tutti nella lingua degli angeli?

  19. C’è qualcosa che non mi convince nel tuo ragionamento, Franz.
    Se siamo certi che il basco ha radici linguistiche talmente altre dal castigliano che nessuno nega sia una lingua a sé, c’è da chiedersi però perché il Friulano è lingua e (ad es.) il napoletano no. Tutte e due neolatine, giusto? Tutte e due dialetti che hanno “avuto sfortuna” rispetto al toscano, no? E allora?
    Allora c’è un atto politico che dice “tu sei minoranza linguistica”. Quindi ti do la patente di lingua, ma anche di minoranza. Come fai a dire ai milioni di abitanti del napoletano “tu sei minoranza”? Allora si dice loro “tu sei dialetto” e risolviamo la questione. Perché, che vi piaccia o no, intere sacche geografiche parlano normalmente il dialetto come prima lingua, in buona parte del Veneto, ad esempio (ma a Venezia stessa mi è capitato normalmente, al di fuori dei giri turistici canonici, di sentire parlare in veneziano per strada o nei negozi. Ad un mio amico capitava pure a Trieste, all’Università). Io che ho origini campane vi assicuro che quando vado “giù al paese” l’80 per cento delle persone si rivolge a me in dialetto.
    E altro che canzonette. Stiamo parlando di una lingua che è letteraria da ben prima dell’Ottocento indicato da Santi. (così come il veneziano: vi ricordo Goldoni, ma, più banalmente, le indicazioni toponomastiche della laguna). E che ha prodotto artisti nel ‘900 (vedi De Filippo) che hanno fatto la cultura in Italia.
    Se poi, pragmaticamente, dobbiamo dire: “E’ lingua ciò che viene dichiarata tale per statuto politico” vedi il romancio, va bene, ci sto. Non so come la pensino in questo senso i linguisti, ma qui la questione prende, appunto, una colorazione politica, non più linguistica o letteraria.
    Comunque sia, uno non esclude l’altro. Non è che avendo ora un italiano imposto, conquistato a fatica, vedete voi, come prima lingua, significa perdere la possibilità di 1) parlare in dialetto, 2) combinare, arricchire, imbastadire, rendere espressiva e non solo comunicativa la lingua corrente, 3) appropriarsi anche dell’inglese, perché no?
    Il dialetto come archeologia non mi interessa. Rispetto, eccome, gli archeologi, ma io voglio capire quali lingue vivono oggi, quali riusciamo a far vivere non ostante l’omologazione entropica.

  20. Caro Gianni, io non ho detto che il friulano è una lingua, io ho detto che è un dialetto, proprio come il napoletano. Non vedo infatti perchè il friulano debba essere considerato lingua e il napoletano no, le radici sono le stesse, che ci piaccia o no. Tutto il tuo discorso d’ordine letterario mi trova assolutamente d’accordo, il tuo citare Goldoni e De Filippo è assolutamente pertinente e chiarificatore. De Filippo che, comunque, scriveva in un napoletano comprensibile, imbastardito dall’italiano; e faceva benissimo,peraltro, proprio per essere compreso fuori dagli ideali confini della sua terra. Ora facciamo qualche esempio pratico, di vita vissuta. Tu sei di origini campane, io di origini calabro-tedesche. Mia madre, calabrese, con le sue sorelle parla tuttora nel vernacolo del suo paese. Un vernacolo influenzato fin da quando mia madre era ragazza (parliamo degli anni 50) dall’italiano. Un vernacolo calabrese italianizzato, diciamo. Il problema, più che politico, è sociale. Nel sud il dialetto resiste perchè lingua familiare, microcosmica, di appartenza alle radici. Ancor più che nel nord. In Lombardia si parla il dialetto perlopiù nelle zone rurali. In Veneto l’industrializzazione è avvenuta relativamente da poco, è ovvio che il dialetto resista, sono le radici contadine ancor giovani e fresche che prevalgono sull’arricchimento mercantile che porta inevitabilmente ad italianizzare non solo il parlato ma anche “l’agito”. Dove c’è industrializzazione c’è caduta delle parlate dialettali perchè l’industria, il commercio e quindi il consumo hanno bisogno di una lingua che unifichi gli scambi, e quella lingua non può essere che la lingua nazionale, l’italiano. Il dialetto – o vernacolo – si parla ancora in molte zone d’Italia nella ristretta cerchia familiare, l’italiano è la lingua che si usa col “forestiero”, nei contatti burocratici, è la lingua ufficiale, ma è anche la lingua che spesso si parla fuori dalla famiglia, è la lingua, diciamo così, della “libera uscita”. Non a caso molti giovani parlano il loro dialetto coi genitori e l’italiano con gli amici.
    Si, è lingua ciò che viene dichiarata tale per statuto politico, questo mi pare incontrovertibile.
    O forse l’italiano è il dialetto più parlato in Italia.
    Il prodotto non cambia. I dialetti sono una ricchezza ma, secondo me e non solo, sono destinati a scomparire. E’ la vita.

  21. Franz, l’industrializzazione ha senz’altro un influsso globalizzante, ma i dialetti hanno una forza vitale notevole e risorgono proprio quando uno li dà per defunti. Tanto per tornare al caso dei baschi: la loro regione è la più industrializzata di Spagna e per vendere i suoi prodotti ogni basco deve parlare spagnolo e francese. Lo fa, ma non smette di parlare basco. Per secoli Madrid ha cercato di soffocare la lingua basca (oltre al catalano e al gallego, che pure sono di ceppo neolatino) e, fino a trent’anni fa, non ha concesso alcun riconoscimento statale. Eppure il basco esisteva, eccome. Così come esistevano il catalano, il valenzano, il gallego.
    Come hai fatto notare tu, sul territorio italiano si parlano una infinità di idiomi di diverso ceppo. Sono lingue, dialetti o vernacoli ? Mi sembra una questione da lasciare agli specialisti. Ciò che mi pare essenziale è la capacità di un idioma di essere vivo, di esprimersi a livelli bassi, medi e (possibilmente) alti. Le radio e le televisioni locali fanno molto in questo senso. Vernacoli, dialetti e lingue minori sono “prodotti di nicchia”. Io non sarei così sicuro che la globalizzazione li spazzerà via.

  22. Riccardo, non ci siamo capiti, perdonami. I Baschi fanno storia a sè, industrializzazione o no. Perchè? Perchè da un punto di vista etnico-linguistico non hanno nulla a che fare con gli Spagnoli. Il catalano è una lingua romanza che ha forse più punti di contatto col francese che con il castigliano, ma comunque – che molti di loro si sentano diversi dagli altri Spagnoli oppure no- resta il fatto che il ceppo linguistico del catalano è il nostro, è neolatino. Non si scappa. Tutto questo influisce sul senso di appartenenza di un popolo. Il popolo basco – nella sua maggioranza – non si sente appartenente al popolo spagnolo e ne ha ben donde. E ha tutto il diritto di sentirsi cosa a sè. E’ qualcosa che va oltre, che non si può misurare con la ragione, magari con il lungo metro della Storia.
    Stesso discorso si può fare per altri popoli di origine celtica. E’ il caso degli scozzesi, degli irlandesi, dei gallesi. Sono tutti popoli, questi, inglobati da grandi potenze coloniali, e da secoli. Nonostante questo, il popolo continua orgogliosamente – e giustamente – a sentirsi basco, scozzese, irlandese.
    Altra cosa è ovviamente l’orgoglio di razza proposto dalla propaganda politica su vasta scala. Un caso per tutti: l’orgoglio di razza del sedicente “popolo tedesco”. La Germania è una nazione, come tu sai meglio di me, relativamente giovane, ma non ha un popolo. I Tedeschi discendono da un’accozzaglia di popolazioni germaniche messa insieme col “referendum impopolare” del ferro e del fuoco. Col ferro e col fuoco, viceversa, gli Spagnoli hanno colonizzato i Baschi.
    Per quanto riguarda il discorso sulle tivu locali: è indubbio che facciano un lavoro più che altro d’amarcord. Questo mi pare di capire. Non voglio assolutamente sminuire queste iniziative che mi sembrano meritorie, ma qual’è la loro influenza sulla cultura di massa? Ben poca cosa, mi sento in grado di affermare.
    Per ottenere il consenso politico, poi, i signori politicanti sono sempre pronti a vellicare i non del tutto sopiti umori campanilistici degli elettori più sensibili al proprio senso di appartenenza. Mi ricordo una famosa frase di Craxi in un comizio tenuto mi pare nel comasco davanti alla chiesa (è un ricordo lontano)di un piccolo paese: “La mia mama l’andava in gesa, ma la vutava sucialista”, così disse Bettino. (Mi scuso preventivamente per la trascrizione sicuramente fallace).La Lega Nord fa di questa “battaglia” una ragione di pura sopravvivenza. Si sono inventati persino una macroregione, un’isola che non c’è e oltretutto senza mare, un’isola che, proprio perchè non esiste, è solamente una landa demagogica: la Padania. Mi vien CA ridere, direbbe il siciliano Lando Buzzanca, ottimo attore ma pessimo testimonial dei postneofascisti di AN (ieri sera si è beccato pure -udite udite – il Premio Giorgio Almirante…)Divago come il dottor Zivago. Mi sento un principe del forum…
    Non abbiamo la verità in tasca. Probabilmente ho torto e la globalizzazione non spazzerà via i dialetti nei prossimi vent’anni; facciamo trenta o quaranta, e non ne parliamo più…
    No, scherzo: parliamone.

  23. Franz, ci sono molte cose sulle quali non siamo d’accordo, nel senso che uno vede il bicchiere mezzo vuoto e l’altro lo vede mezzo pieno. I baschi non si sentono spagnoli ? Uhm ! Io non sarei così sicuro. Chi vuole la secessione sono solo i terroristi e il loro braccio politico non ha mai avuto più del 15% dei voti. I catalani sono neolatini come noi ? Ma anche i castigliani. Il catalano somiglia più al francese che al castigliano ? Ma dai. Le Tv locali fanno un lavoro più che altro di amarcord ? Può darsi. Ma niente vieta che migliorino. I politicanti strumentalizzano anche i dialetti ? Ma, caro mio, strumentalizzare è il loro mestiere. Esiste una qualunque iniziativa aggregante che la politica non cerchi di strumentalizzare ? Insomma, dai, non fare il pessimista: con tutti i nostri difetti, siamo italiani e lombardi, siculi, toscani, veneti, eccetera, e siamo ancora qui. Ci saremo (anzi, ci saranno) anche tra cent’anni.

  24. Caro Riccardo, io nei Paesi Baschi ci sono stato,e in un paio di occasioni mi sono fatto delle gran bevute. Il miglior metodo per capire la gente, secondo me, perchè in vino veritas. Cosa voglio dire? Voglio dire che da sobri erano abbastanza abbottonati, ma da sbronzi si sentivano baschi come io mi sento da dio quando mi fumo una Camel dopo due settimane di astinenza… Per il resto tu hai i numeri alla mano e hai ragione: l’ETA è un branco di terroristi e il secessionismo, alla fin fine, NON CONVIENE. I catalani e i castigliani sono neolatini come noi, embè? Ma hai mai sentito parlare in catalano? A me (ripeto, a me) sembra una bastardizzazione tra castigliano e francese, ma comunque magari ero ubriaco di sangria… o forse eri ubriaco tu quando ti è capitato di sentirlo parlare…;-)
    Sono d’accordo sul resto, natuerlich. Ma cazzodibudda (mi scusino i puristi di lingue e dialetti)è il fatto che tra cent’anni NON CI SAREMO, caro Riccardo, che dovrebbe importi un pò di insano pessimismo…;-)

  25. tu non ci sarai fra cento anni! Io ci sarò e sarò più alto, più bello e più biondo di adesso!!!

  26. mi permetto di intervenire.

    il caso norvegia:
    in norvegia ci sono due lingue ufficiali, il bokmal (fate finta che sulla a ci sia un pallino) e il landsmal (idem) detto anche nynorsk, o neonorvegese. la seconda è una lingua artificiale redatta e impostata da ivar aasen intorno alla metà del xix secolo. aasen aveva deciso di provare a ricostruire il modo in cui il popolo effettivamente parlava, si mise a studiare i dialetti parlati in norvegia sulle coste occidentali e nell’entroterra meridionale e li fuse, face una specie di media (folle e inutile?). fatto sta che adesso a scuola si studia anche la creatura aaseniana, che ci sono canali televisivi e programmi in nynorsk, che ci sono poeti e scrittori che si esprimono in nynorsk, che ci sono cantanti che non rinuncerebbero mai a esprimersi in nynorsk (o nella variante dialettale loro propria, molto spesso più o meno vicina alla scrematura ionizzata di aasen).
    l’altra lingua, il bokmal (sempre col pallino sulla a) è, diciamocosì, la variante norvegese del danese. graficamente molto molto simile, cambia la pronuncia. e non poco. (senza polemica: laddove il danese è truce e gutturale, il norvegese è armonico e liquido). e come suggerisce il nome bokmal (pallino!), si tratta della lingua della burocrazia, dell’ufficialità, della letteratura – azzardo – “classica”. i norvegesi tipo ibsen (per dirne uno), ma anche hamsun, scrivevano in danese.

    ma il punto di questo discorso qual è?
    è che, nonostante le due lingue ufficiali che dovrebbero accontentare tutti, in norvegia è difficile trovare due persone che parlano allo stesso modo.
    a oslo (città con mezzo milione di abitanti sparpagliati su una superficie pari a quella di londra) si parlano grossomodo due dialetti diversi, a seconda della zona (vestkanten vs. ostkanten – fate finta che questa o sia tagliata trasversalmente).
    a bergen parlano in modo del tutto diverso, e tra bergen e oslo, lungo la strada, si possono trovare cittadine in cui magari si ritrova il genere femminile delle parole, che a oslo s’è smarrito (ma che un certo professore o un pizzettaro pakistano dell’ostkanten – taglio sulla o! – oslense ricicciano perché gli suona bene). e quindi “sola” invece di “solen” (“il sole”), “boka” invece di “boken” (“il libro”) e così via, con incidenza del tutto arbitraria e casuale. i modi di dire “io”, poi, sono imbarazzantemente diversi dal sud al nord.

    in norvegia quindi, e qui chiudo, il caso è quello di un paese in cui non si è mai riusciti ad avere una lingua ufficiale univoca, standardizzata, che permettesse la cosiddetta riduzione a dialetto delle parlate locali e regionali. le due lingue ufficiali sono dei codici di cui ognuno può scegliere di servirsi o meno, in qualunque contesto, e la cui assenza o presenza sono irrilevanti ai fini della comprensione reciproca.
    ciò che trovo ammirevole e sconcertante è che si può, ciononostante, parlare di una lingua norvegese. lingua che, per essere accettata, ha bisogno di uno sforzo riduttivo ma ampio, e tollerante, per il quale si può affermare che “nella mia lingua ‘io’ si dice jeg, eg, ég, a, ae (fate finta che sia scritto come l’ae latino) e pure in qualche altro modo, credo”.

    ogni lingua dovrebbe avere l’onestà e il coraggio di gestire se stessa così, a mio avviso.

    fabio.

  27. Ringrazio Fabio Viola: mi ha aiutato a dare un’altra picconata al mito della lingua dura e pura (mito che lascio volentieri in custodia all’accademia della crusca). Insisto: ogni scrittore usa la lingua che serve a raggiungere i suoi scopi formali. Non sto ripetere il solito esempio di Gadda, ne faccio uno a rovescio: ve lo immaginate un qualunque racconto di Tommaso Landolfi scritto in una lingua sgarrupata ?
    Caro Franz, la sangria è traditrice. Non farei troppo affidamento sulle impressioni alcoliche. Quanto ai baschi caciaroni, li ho frequentati anch’io, e credimi: hanno imparato dai castigliani, i quali a loro volta hanno imparato dagli andalusi.
    Biondillo, sto pensando di nominarti mio curatore testamentario.

  28. Insomma Riccardo, i baschi non ti piacciono. Hanno imparato il castigliano dagli andalusi, vabbè…;-)
    Grazie a Fabio Viola anche da parte mia, mi ha informato su cose che nemmeno sospettavo.
    E leggete il suo blog http://www.ellittico.org., è pieno di racconti molto belli.
    Il Notaio Arch. Gianni Biondillo è formalmente invitato a una birra testamentaria celtica (Guinness)quanto prima, assieme al Cav. Prof. Riccardo Ferrazzi.

  29. ehi franz, grazie per la pubblicità ;-)

    comunque vorrei aggiungere un’altra cosa a cui pensavo stanotte.
    l’esempio norvegia secondo me è molto affascinante, in quanto testimonia l’artificiosità ineluttabile del concetto di lingua ufficiale in una realtà complessa (intendo una comunità di molti individui – poco più di 4 milioni per la norvegia, ma immaginate in paesi come la cina o l’india o anche solo la francia e l’italia).
    e il discorso che facevo si concludeva con la questione sull’ampiezza lessicale (solo lessicale) di una lingua, in casi in cui si può arrivare ad accettare una moltitudine di termini per lo stesso concetto. e non termini che hanno radici diverse (a esempio, sempre parlando di “io”, in giapponese: watashi [o watakushi], boku, temae, ore [o oira, ora asshi], e qualche altra forma, che come si vede ha radici avulse), ma che hanno la stessa identica radice (indoeuropea per quanto riguarda il norvegese), quindi jeg, eg, ae, eccetera.
    ebbene, la convivenza di queste varianti dialettali in un unico tessuto linguistico individuale, per il quale perciò sussistono e coesistono più modi di esprimere lo stesso significato ma con significanti leggermente diversi, mi fa pensare al fenomeno del bilinguismo.
    il bilingue, nel suo cervello, non possiede due scompartimenti, due aree stagne in cui le due lingue sono contenute. no. questo succede con le persone che decidono di studiare una lingua straniera e man mano che l’apprendono vanno a nutrire il nuovo comparto. il bilingue le possiede entrambe nello stesso spicchio di cervello, fuse insieme. e quando deve parlare una lingua piuttosto che l’altra va a pescare i termini che sa appartenere a un contesto linguistico piuttosto che all’altro.

    anche l’italiano standard (quello con le vocali romane e le consonanti del telegiornale, ehehe) è una lingua artificiale, artificialissima, che in effetti a parte le persone che SI IMPEGNANO A FARLO (nel senso che decidono di farlo e si sforzano di eliminare le scorie dialettali della propria area), nessuno parla nel nostro paese. l’italia quindi, è a sua volta un caso-limite: la lingua ufficiale è artificiale e nessuno la parla, mentre i dialetti e le parlate locali prosperano in versioni edulcorate o “””civilizzate””” (ci tengo molto a queste virgolette). in norvegia invece ci sono due lingue ufficiali che hanno come presupposto l’assoluta atemporalità e un desiderio (come da noi) unificatore nazionalistico, ma i vari dialetti e parlate confluiscono a creare non una divisione regionale, ma un maelstrom (ecco, appunto) di diversità conniventi anche in un unico individuo. i norvegesi sono tutti plurilingui, noi siamo tutti dialettizzati – volendo azzardare una generalizzazione.

    esistono poi casi in cui la lingua ufficiale è estremamente uniforme lungo tutto il territorio (in giappone, a esempio), in cui i dialetti sono minimi e non ci sono grossi salti. ma per ottenere ciò (qualora lo si volesse) bisognerebbe chiudere le frontiere e rimanere isolati e concentrati verso l’interno per un numero imprecisato di secoli.

    (p.s. franz, per quella cosa: ci siamo quasi, abbi pazienza – non mi riferisco alla mazzetta per la tua pubblicità)

    buona giornata a tutti.

  30. Qualche osservazione da un lettore ibrido friulano-bolognese, e residente da sempre a Bologna. Con i dialetti ho un rapporto di amore-odio. Tendenzialmente non amo i testi letterari in dialetto e detesto cordialmente l’alone nostalgico che circonda certe manifestazioni dialettali (Lega docet, ma anche Bologna e la sua “petronianità” non scherzano – e la memoria corre a Dino Sarti). Però amo certi suoni (penso ai “cj” che compaiono nella poesia, inesistenti in italiano) e certe potentissime sintesi e invenzioni linguistiche di cui i dialetti sono ricchi. In questo momento ricordo mia nonna che guardandomi uscire di casa in jeans e maglietta mi diceva “Tu mi samèis un cjapilu-e-metilu-tal-sac” (mi sembri un prendilo-e-mettilo-nel-sacco). Ma che so, anche “Che te lo dico a fa’”, o “son rimasto lì come un turlupupu” o “va a ciapà i ràt”. Mentre non mi sovviene di nulla di simile in bolognese. Già: perché alcuni dialetti sembrano così bolsi e bonariamente insipidi e altri così sanguigni, vitali, anche feroci ?

  31. Non dimentichiamoci però (anche se può sembrare contraddittorio con quello che ho scritto fin ora) che noi questo “italiano artificiale” non solo lo capiamo perfettamente ma lo usiamo, lo pensiamo, lo sognamo. E’ la nostra prima lingua, non è stata imposta a noi ma ai nostri genitori. Ora quello che noi dobbiamo fare è non depauperarlo nel tentativo di cristallizzarlo, ma arricchirlo con tutte le iniezioni e i contributi possibili.

    Franz & Co.: birra, birra, assolutamente! Ché sono solo in città e ormai mi parlo allo specchio per farmi compagnia!

  32. Offro io ! Biondillo scrive “sognamo” senza la i, esattamente come hanno insegnato anche a me alle elementari. Meno male ! Cominciavo ad avere dei complessi di inferiorità: qui ormai tutti scrivono sogniamo, e non ci vergogn(i)amo ?

  33. Off topic
    Alla gentile compagnia della birra comunico di aver passato l’esame di statistica dopo lacrime e sangue! Quindi mi unisco alla birra per festeggiare…

  34. biondillo, sono sostanzialmente d’accordo con la tua ultima affermazione (arricchire e iniettare l’idioma), però:

    il bello delle lingue (e di conseguenza dei dialetti) è il complesso delle loro peculiarità. se si accetta l’immissione massiccia di apporti da lingue straniere, per esempio, si cede a un impulso deleterio per la preservazione della ricchezza data dalla diversità. una lingua in cui si può dire “ho postato sul topic e mi è arrivata la newsletter dal server” (e dico una scemenza, lo so bene, ma è per dirne una sintonizzata con questo ambiente) non è una lingua ricca. è una lingua pigra.
    ora, senza arrivare a produrre neologismi un po’ forzati (anche se il processo creatore di questi termini è affascinantissimo) come in islandese o in misura minore in francese, si può compiere uno sforzo di adattamento ricercando nel nostro ricchissimo vocabolario termini che si prestino a usi moderni e postmoderni.

    io odio me stesso quando devo dire account e non mi viene al volo una parola adatta nella mia lingua. ma davvero, non sono un reazionario o un purista. è che proprio non capisco il perché.

    saluti.

  35. Per Riccardo:
    – Il Satta, pur citando vari esempi, anche illustri, di forme senza la i, continua a esprimere la sua preferenza per la coniugazione regolare: prima persona plurale, noi sogniamo all’indicativo e congiuntivo; seconda persona plurale, voi sognate indicativo, che voi sogniate congiuntivo.
    – Il Serianni ammette sia le forme con la i, che quelle senza.
    – Il Sensini riporta come ormai entrate nell’uso le forme senza la i.
    – Il DISC Compact dà senza commenti: sogniamo sognate all’indicativo, sogniamo sogniate al congiuntivo.
    Quindi, ognuno fa come crede.
    (http://www.mauriziopistone.it/discussioni/grammatica_1_b.html)

    Io a questo punto non so più se ho fatto un refuso, un errore di batittura, una astruseria, una raffinatezza o una bestialità.

    Per Gabriella: complimenti per l’esame. Ci si sbronza presto.

    Per Fabio: apri un annoso discorso. Non credo tu sia un barboso purista. Chiedi, più semplicemente, alla tua lingua (che è storicamente ricca) di dare una risposta al “nuovo che avanza”. Io, nel mio piccolo, ad esempio, non faccio una “scannerizzazione” ma una “scansione”.

  36. “ho postato sul topic e mi è arrivata la newsletter dal server” non è pigro, è efficiente: adeguato al contesto e all’obbiettivo della specifica comunicazione. Cercarne un equivalente del tipo “ho inviato un messaggio relativo all’argomento in questione e mi è arrivato il bollettino elettronico dal calcolator servente” equivale ad autodefinirsi lebbrosi entro la comunità degli umani attivi sul web. Esistono invece vere incursioni dalla “lingua” informatica in italiano, come ad esempio “poppami lo stack”, o anche “shifta di un posto”, “skippa le prime tre pagine”, “è entrato in loop” e il diffuso “du’ palle…skip intro” (nel senso di “falla breve”).
    A me in generale piace l’uso di una lingua che si carica (ma per scelta, strategicamente) di neologismi e magari di espressioni dialettali come quelle che citavo nel post precedente, mentre non riesco a vedere un senso nella difesa di una qualche “purezza”: “I use the best / I use the rest”, direbbero i Sex Pistols.
    Ttrovo invece realmente “pigri” e poveri in alcuni testi la struttura della frase, il ritmo, il suono e il modesto assortimento di vocaboli, la scarsa fantasia nel tentare, anche in modo umilmente artigianale, di forzare la lingua.

  37. ma infatti, dust, va benissimo forzare la lingua quando si scrive o si fa letteratura. sono d’accordo. il problema è che, per dirla con céline, se lo stecco di legno è spezzato lo vedi dritto dentro l’acqua, ma al di fuori è solo uno stecco di legno spezzato.

  38. céline parlava dello stecco di legno spezzato nell’acqua come metafora della trasformazione inevitabile che un fatto linguistico scritto (prosa, dialogo, eccetera) deve subire nel momento in cui diviene tale. per vederlo dritto anche immerso nell’acqua, lo stecco di legno deve essere preventivamente spezzato. cioè adattato.
    ho fatto il riferimento a céline per supportare la mia concordanza rispetto al discorso di “forzare la lingua” in letteratura (cioè l’acqua della metafora). e per dire che al di fuori dell’acqua, cioè nella non letteratura, lo stecco di legno è tale solo se integro, altrimento è spezzato.
    o almeno così la vedo io.

    ciao.

  39. Fabio, in primo luogo grazie della metafora (la ignoravo, ed è secca, perfetta) e della paziente spiegazione – il mio apporto alla discussione è minimo rispetto agli spunti che mi offre e spero mi sopporterete. Quello che non riesco bene a capire è: che cos’è la “non-acqua” ? in altri termini, la lingua la utilizzo sempre in uno specifico contesto, con un particolare supporto e con un (o un vettore di) obbiettivi di comunicazione. Rimaniamo al linguaggio dell’informatica: l’inglese ha vinto e un server è un server, e io mi esprimo male (cioé in modo inefficiente) se cerco di chiamarlo in altro modo (vedi i patetici vocaboli francesi) mentre parlo ad un addetto ai lavori. Analogo il discorso per gli sms: la brevità te la impone il mezzo, è proprio “strutturale” a quel tipo di comunicazione. La povertà espressiva la vedo quando un testo scritto o una conversazione “sembrano” sms. Lì dove potrebbero esserci varietà e invenzione, cura e sforzo di adeguare in modo “fine” il linguaggio agli obbiettivi e ai contenuti di ciò che si intende comunicare – e invece il dizionario si riduce a una manciata di vocaboli buoni a tutti gli usi (cito ad esempio l’uso nel linguaggio comune del termine “depressione” e derivati). ok, la finisco qui

  40. un server è prima di tutto l’idea di server, poi il fatto che in inghilterra e in america e in altri paesi anglofoni sia prima di tutto un server detto server è un dato incontrovertibile. il fatto che in italia, ungheria e brasile sia anche un server detto server è ciò che contesto io. ma mi rendo conto che il mio discorso sia sterile e antico, o semmai in ritardo.

    ciò che dici rispetto all’efficienza è interessante, molto.
    la letteratura non richiede efficienza a mio avviso. o la richiede con modalità avulse e altre rispetto all’efficienza comunicativa di tipo, diciamo, “operativo”.
    se sul lavoro dico server dico bene. se in un sms dico server dico bene. se a un amico dico server probabilmente dico bene, anche se – paradossalmente – sto attuando un’estensione del dominio (ahahaha!) dell’efficienza in un ambito puramente privato e intimo.
    ma se in un libro dico server, che sto facendo? sto forzando l’esempio? forse sì.
    ma diciamo che in un libro NON È DETTO che io debba dire server.
    ecco, in quest’ottica la metterei io (e difatti ce la metto).

  41. Sentite questa: nel pluripremiato bestseller “Avanzi di balera” la sigarette fumate a catena dai due protagonisti vengono definite “svapore”. Uno dei due, per dire che ha avuto un più che soddisfacente rapporto sessuale con una signora, nel suo delirante monologo interiore ammette con un certo orgoglio: “Ho estrinsecato tutto il mio scibile straiatorio”. La sua camera da letto viene da lui definita prima un “vecchio bordello”, poi, non contento, rincara la dose: “Un Salon Kitty d’hinterland”.
    Per dire che ha dormito della grossa dice: “Ho ronfato in posizione alare, cherubinamente”. Un amico dei due, tale Valdo Scopelliti (nomen omen) viene definito così: “Valdo, trent’anni di vita, magari anche di solitudine,tutti, o quasi, impiegati a saltare la cavallina stronza, a spuledrare in giro.Sicilianoverace, di “Palemmo”, bel fiulett, un pò efferveeffemminato in apparenza, ciglia lunghe, occhi azzurrocielo, riccioli mori, voce bassa all’Alberto Lupo di Canzonissima, totalmente versato nello studio della figologia pragmatica”. (Oggi a quasi quattordici anni dalla stesura, l’autore avrebbe senz’altro sostituito il totalmente con l’interamente, perchè trattasi di “capitale”, appunto, “interamente versato”). Uno dei due protagonisti, a un certo punto, chiede: “Ma sto Nenè duva l’è?”, chiede in portacicchese il professore”. (Portacicchese = milanese).Le teen-agers sono “ragazzine acerbose”, i caffè bevuti a rotta di gargarozzo sono sempre definiti “ricchicaffè”, la tazza di caffè è la “cafataz”, l’erezione è definita “induranghimento”, duro è ovviamente “durango” a ricordare un nome da speghetti-western, dopo l’amore uno dei due protagonisti fuma sdraiato – in pieno stile cinematografico anni 60/70 – “svapora virginiana”(ovvero una Marlboro) con la lei di turno “con gesti lenti e patinati”, probabilmente pensando alla carta dei vecchi Playboy con Maria Rosaria Omaggio… Eccetera eccetera eccetera.
    Anche questo, nel suo piccolissimo, è poesia dialettale…
    Nel suo secondo romanzo, scritto quasi dieci anni dopo, l’autore, nonostante l’enorme successo di vendite del suo esordio, ha cambiato totalmente stile. Ma tutto sommato non rinnega niente.
    (Pubblicità amarcord)

  42. qui siamo perfettamente d’accordo: in un libro – o meglio in un blog, che è il mio confine naturale – ho molti più gradi di libertà, il limite essendo comunque dato dalla necessità di far capire di che oggetto parlo (e qui, se non SO che cosa è un server darò comunque una descrizione “inadeguata”, come un tizio che entra in pizzeria e ordina “una pizza”). inversamente: quando parlo con il mio sistemista tipicamente uso espressioni come “quel cazzo di macchina”

  43. Fabio, nonostante le 120 giornate di continue ristampe (una Sodoma e Gomorra editoriale) del libro ne rimangono non pochissime copie (stranamente invendute…)nei magazzini della Addictions Libri (con l’occasione saluto, nel caso fosse in ascolto, l’editore Francesco Altieri e l’allora editor Leonardo Pelo). Il mio “stregato” esordio si può acquistare agevolmente su Mamma Internet. Se lo acquisti ti pago da bere (Guiness o birra chiara tedesca, per altri beveraggi non me la sento di pagare) quando vieni qui nella Milano non più da bere da parecchi aperitivi.
    Ciao!

  44. Propongo una campagna di sensibilizzazione: ora che arriva l’estate adotta anche tu un “avanzi di balera”. Non abbandonarlo in un magazzino librario, portatelo con te sotto l’ombrellone!

  45. franz, lo sai che adoro le provocazioni… adesso lo ordino dal sito di addictions.
    ma sappi che bevo moltissimo!
    muahahahahahaha!!! (quella era una risata demoniaca)

  46. Ti ringrazio Gianni! Con tutti i “libri da ombrellone” scritti da Cani& Porci e oltretutto da cani, una serie di bastardini di impura razza Krauspenhaar non potrà certo nuocere nelle lunghe ore da sdraio sui litoranei degli Italiani. Gli avanzi di balera non abbaiano, non mordono, non scagazzano nemmeno. Nelle “estrinsecazioni dello scibile sdraiatorio” dei lettori-padroni, i bastardini potranno essere riposti in una sacca da spiaggia ovviamente non scrotale…;-))

  47. Fabio, fai bene a ridere, soprattutto in modo demoniaco… Ma posso arrivare a offrirti una birra e mezzo… poi, come si dice, alla Weight Watchers, ciccia…
    Eh si, lo sappiamo: la vita dell’Artista Non Ricco di Famiglia è difficile, tanto tanto difficile…;-)

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.