THE RAY AND MARIA STATA CENTER DI FRANK O. GEHRY

di Gianni Biondillo
stata.bmpNon è difficile voler bene alle architetture di Frank Owen Gehry. Non ostante lo stile “terremotato”, l’accartocciarsi e il frantumarsi dei suoi volumi edilizi, non ostante l’insistente sensazione di perdita dell’equilibrio, il disprezzo per le regole base della statica e della “buona educazione” urbana, le opere di Gehry, canadese di nascita ma statunitense d’adozione, sono per loro natura amichevoli. Lo sono per l’insita spettacolarità barocca, certo, ma questo non basterebbe, lo sono perché hanno, caso non unico ma di certo raro in tutta la storia dell’architettura, un gran senso dell’umorismo.

Nessuno, attraversandole, sente che il piegarsi innaturale delle pareti, il deformarsi dei serramenti, l’accartocciarsi delle coperture, sia l’annuncio di una catastrofe imminente; nessuno vive gli spazi gehryani con la stessa critica drammaticità che tanti altri grandi architetti contemporanei esprimono nelle loro realizzazioni. In qualche modo le opere di questo architetto sono come la concretizzazione tridimensionale del senso di meraviglia tipico della cultura hollywoodiana (e non è un caso che proprio in California Gehry è cresciuto professionalmente).

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Insomma, al suo lavoro ci si affeziona subito. C’è anche chi lo detesta, intendiamoci. Spesso sono quegli intellettuali barbosi e snob che per partito preso al cinema guardano solo film iraniani, ma più frequentemente chi proprio non sopporta Gehry è il professionista privo di talento, o il politico dalla vista opaca. Queste persone non accettano l’idea che si possano rendere concreti, e con prassi da consumato manager, anche i sogni più infantili. E che con un intero universo onirico si possa rivitalizzare una città che stava morendo, come è il caso eclatante del Guggenheim di Bilbao, trasformandola nella seconda città più visitata della Spagna. Bisognerebbe scommettere con artisti geniali quali Gehry perché tanto poi si vince sempre; ma, si sa, nel nostro paese questa lungimiranza etica e politica manca.

stata3.jpgNon manca negli Stati Uniti, però. E lo conferma, se ce n’era bisogno, quest’ultima opera inaugurata da pochi giorni, il Ray and Maria Stata Center, nuova addizione al campus del glorioso MIT. Con la folle spesa di 300 milioni di dollari sono stati accorpati in un unico complesso edilizio gli istituti, le aule, i laboratori e i servizi dei dipartimenti di Scienze informatiche, Intelligenza Artificiale, Linguistica e Filosofia, nell’espresso desiderio di creare una solida interazione fra le varie discipline che si interessano di linguaggio, che sia esso artificiale o umano (se ne può approfondire la conoscenza sul sito ufficiale: http://web.mit.edu/buildings/statacenter).

Già questo, a pensarci, odora di utopia. Credere convintamente che discipline di orientamento diverso, dalle più tecnico scientifiche alle più strettamente umanistiche, possano convivere sotto lo stesso tetto (anche se squinternato da un architetto folle), che questi saperi possano interagire moltiplicando il loro potenziale, sa di incredibile. Ma gli americani sono pragmatici; quando pensano una cosa la realizzano non si limitano a sognarla.

stata.jpgAnche qui Gehry insiste con tutto il suo tellurico armamentario stilistico. Lui che per poter rendere costruibili le sue opere ha dovuto nel decennio scorso (mentre da noi ancora si disegnava sui tecnigrafi) utilizzare un programma informatico (CATIA) che era usato nell’ambito dell’ingegneria aerospaziale, sembra divertirsi ora a distruggere, piuttosto che costruire, l’edificio, anzi il frammento di città perché tale sembra, che dovrebbe accogliere le migliori menti logiche e informatiche degli Stati Uniti (e anche i loro soldi: Bill Gates, con la ragguardevole somma di 20 milioni di dollari, è fra i donatori più facoltosi).

E’ evidente, però, che è una distruzione per modo di dire, che è un gioco il suo. Il terremoto non avverrà mai, l’edificio, il scenografico lacerto di città, non cadrà mai su se stesso. Siamo nell’ambito di una dinamica spettacolare che già conosciamo. Nessuno, al cinema, veramente pensa che James Bond sia in reale pericolo; anche nella situazione più assurda, anche nella più inverosimile, sappiamo che troverà sicuramente il modo di uscirne vincitore.

Tutto a posto, allora, tutti soddisfatti, no? Sì, anzi, no! Perché, oltre a chi lo ama e chi lo detesta, c’è una terza categoria di persone che si approccia all’opera di Gehry. Ed è quella che, come chi scrive, a suo tempo è andata a Bilbao come in pellegrinaggio, che si è commossa davanti alle sue opere come ci si commuove leggendo la Divina Commedia o ascoltando la Nona di Beethoven e che ora sente la fatica, la farragine, delle sue nuove realizzazioni.

stata2.jpgIntendiamoci: cose così in Italia ce le sogniamo. Se servisse a qualcosa sarei in prima fila a combattere affinché un artista come Gehry (o come tanti altri come lui, italiani compresi, che riescono ad esprimersi spesso solo al di fuori del territorio patrio) riuscisse a lasciare un suo segno nel nostro asfittico panorama contemporaneo.

Però è sempre più evidente, nel corso degli anni, che Gehry sembra diventato il miglior imitatore di se stesso. Come se dovesse, insistentemente, spettacolarizzare la sua opera per nascondere una evidente carenza di autentica, nuova, ricerca formale. Quasi che la sua architettura anarchica si sia ormai addomesticata alle buone maniere. Da lui ci si aspetta astrusità e lui, consolatorio, ce le dona, a piene mani.

Gehry è a tutti gli effetti nella storia della cultura occidentale; quello che ha fatto ha cambiato le sorti dell’architettura della fine del secolo. Ma non si può pensare di scrivere sempre la stessa opera, lo stesso poema; si diventa manieristi di se stessi. Ed è quello che gli sta accadendo. Sembra un po’ il nostro Tasso che, mai contento della sua Gerusalemme Liberata, l’ha riscritta per anni trasformandola nella Gerusalemme Conquistata. Fatica inutile, ché tanto nessuno la legge, noi restiamo affezionati alla prima versione.

A questo punto c’è da chiedersi: quali nuovi percorsi, quali nuove vere opere d’ingegno Gehry potrebbe regalarci se la smettesse di guardarsi, ripetutamente e narcisisticamente, allo specchio?

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