Dimensione Follia
di Elena Volpato
Ha aperto alla Galleria d’Arte Contemporanea di Trento una mostra curata da Roberto Pinto intitolata Dimensione Follia. Inevitabile la perplessità iniziale sulla scelta tematica. Leggi “follia” e ti si rovesciano addosso pagine e pagine di letteratura critica, dalle prime letture psicanalitiche dell’arte fino all’Art Brut. Sembra proprio di non poter sostenere di nuovo, all’interno di una mostra, tutta la mitologia del folle genio artistico che, dall’ottocento romantico in poi, non riusciamo, nonostante i molti tentativi, ad allontanare. Ma proprio quando tutte le premesse sembrano allontanarci da un progetto, l’intelligenza del curatore e il valore delle opere in mostra ci fanno incredibilmente ricredere.
Roberto Pinto co-curatore dell’appena inaugurata edizione 2004 della Biennale di Gwanju, Corea, è riuscito a fare di una tematica abusata e dell’altrettanto troppo abusta metodologia tematica un reale momento di rilettura di alcune importanti ricerche dell’arte visiva d’oggi e, ancor più difficile, ha finalmente ampliato lo spettro degli approcci di ricerca nello studio del rapporto tra arte e follia.
La mostra riesce in tutti questi intenti scavalcando gli indirizzi più classici della ricerca, dimenticando per una volta ciò che i curatori della mostra dedicata a Salvador Dalì a palazzo Grassi (Venezia) si ostinano a non voler dimenticare: la convinzione che il vero genio artistico preveda quasi di necessità l’ostentazione di quotidiane stranezze, che l’eccezionalità creativa vada di pari passo con una specie di raffinata stramberia. Il Dandismo ha abbandonato la scena dell’arte contemporanea alla fine degli anni Ottanta e speriamo di aver chiuso i conti con quell’esperienza ancora per un po’. Pinto fa di più, dimentica anche l’Art Brut e dichiara esplicitamente di non volerne tenere conto, anzi affronta l’intero problema invertendo i termini della questione, partendo non dall’ostentata eccezionalità della creatività artistica rispetto al linguaggio quotidiano ma piuttosto registrando il curioso effetto normalizzante che ogni comportamento o azione fuori dagli schemi socialmente accettati subisce non appena viene inserito nello spazio dell’arte contemporanea. Questo è quanto accaduto per l’ambiente performativo degli anni Sessanta e Settanta e continua ad accadere in forme diverse ancora oggi. Perciç ad essere ripensato non è tanto il margine tra follia e creatività, ma quello tra follia e normalità, solo in un secondo momento l’arte interviene nel confronto ponendosi come una sorta di switcher che modula di volta in volta il flusso su due correnti pressoché parallele. Basaglia scrisse: “Io ho detto che non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana, in noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.”(…) Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.” Facendo proprio questo intento di Basaglia la mostra di Trento riesce a rileggere alcune tra le opere più note della fine degli anni Sessanta come “Seedbed” di Vito Acconci e “Revolving Upside down” di Bruce Nauman, opere di cui ormai era rimasta quasi unicamente l’interpretazione più metalinguistica che intendeva la prima come espressione della critica agli asettici e semi-istituzionali spazi espositivi dimenticando quanto l’artista metta realmente in gioco se stesso e la propria individualità solipsista, nascosto nell’intercapedine tra pavimento e doppio-pavimento, e la seconda come ricerca minimalista sullo spazio e studio formalista del mezzo video, dimenticando che l’esplicito riferimento alle azioni del teatro beckettiano, non sono semplici metodologie di iterazione del gesto, ma sono vere e proprie tensioni compulsive. A questi esempi storici sono affiancati lavori più recenti come l’impressionante video di Patty Chang, dove la normalità della modificazione adolescienziale del proprio corpo si confonde con un insano sadomasochismo che vede l’adolescente protagonista esprimere un sentimento misto di terrore e sofferenza per il muoversi strisciante di alcune anguille sotto la sua camicetta e di piacere per quell’insolito contatto. All’oppressione presente nelle opere menzionate e in molte altre della mostra che prevedono l’allestimento di spazi chiusi, di stanze claustrali, di corridoi dalle pareti spinte una verso le altre, risponde la follia ‘aerea’ delle opere di Eija-liisa Ahtila e degli scatti liberatori del coreano Li Wei dove il disagio giovanile spicca un salto che è figlio tanto del balzo vitale e distruttivo di Rimbaud verso la vita, tanto del concettualismo di Yves Kline, con in più una follia tutta contemporanea da metropoli asiatica globalizzata.
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Dimensione Follia, sì
Ho letto i nomi degli Artisti invitati:
Adel Abdessemed, Marina Abramovic, Vito Acconci, Francis Alys, Eija Liisa Ahtila, Monica Bonvicini, Chris Burden, Roberto Cuoghi, Amy Cutler, Patty Chang, Sue De Beer, Stan Douglas, Mike Kelley & Paul McCarthy, Yayoi Kusama, Li Wei, Maria Marshall, Marzia Migliora, Aernout Mik, Ottonella Mocellin, Bruce Nauman, Tony Oursler, Adrian Paci, Eric Parker, Federico Petrella, Pipilotti Rist, Gregor Schneider, Michael Smith, Monika Sosnowska, Vibeke Tandberg, Fred Tomaselli, Minnette Vári, Cesare Viel, Gillian Wearing.
Conosco molti di questi nomi, alcuni sono artisti dello star system internazionale concettuale, altri meno noti e giovani.
Superficialmente, di primo acchito, mi viene in mente che tutto ciò sia un pretesto creato da Pinto per esporre lavori proposti da alcuni mercanti interessati alla sopravalutazione o alla rivalutazione dei prodotti e degli operatori stessi.
Penso male, però non mi sogno di ispirarmi ad Andreotti.
Vorrei sapere per prima cosa a chi appartengono le opere esposte, quali sono i mercanti che hanno in contratto gli artisti suddetti.
Non entro nemmeno nel merito della valutazione estetica dei lavori esposti, che non li ho veduti, ma mi sono letto ben bene l’elenco degli artisti: in linea di massima so cosa producono.
Trovo quanto meno disdicevole e poco onesto dare cotesto titolo DIMENSIONE FOLLIA alla presente mostra: da spazio a supposizioni e interpretazioni affatto attinenti al contenuto e può essere soltanto richiamo per allodole o polenta per i pesci (come diceva Bernardo Antonio Vittone).
Eh, questa è tutta gente sanissima. E’ vero che poi la mostra viene spiegata, che si tratta di follia rappresentata da gente appunto sana, ma il titolo trae in inganno. Bisognerebbe vedere la mostra naturalmente, ma insomma, il nome Dimensione Follia evoca delle immagini molto molto potenti. Non so se i lavori raccolti abbiano la forza del foyer de l’art brut, o di certe immagini, per fare due esempi casuali, di Antonio Moresco e del Grande Male di David B.(spero che nessuno si offenda se considero grandissimi artisti figurativi uno scrittore e un fumettaro).
Su tiscali si possono vedere parecchie foto, ma ora non trovo il link preciso.