Per Jacques Derrida
di Tommaso Giartosio
Quando è arrivata su Televideo la notizia della morte di Jacques Derrida, subito dopo mi è arrivata dal cuore un’altra notizia, per me più sconcertante: provavo pena.
L’uomo aveva 74 anni. Era malato da tempo (e lo sapevo). Ho letto solo qualcuno dei suoi scritti, e non l’ho mai visto in faccia.
Eppure provavo questo sentimento di pena, che associo, personalmente, a una frase in francese. Durante i funerali di mio padre un uomo che aveva lavorato occasionalmente con lui, un vescovo nero dell’Africa centrale, salì sull’altare e spiegò così la sua presenza: Fratelli, la morte di Emanuele, devo dire, m’a quelque peu secoué. Mi ha un poco scosso.
Il che, detto da chi per mestiere deve frequentare la morte, è abbastanza forte. Perché la morte dovrebbe scuoterci? La morte di un uomo anziano e malato − un “padre”, sì, ma uno tra i tanti altri “padri” che la vita ci fa incontrare?
Scrivo queste poche righe per cercare di spiegarmelo, di spiegare perché la morte di Jacques Derrida m’a quelque peu secoué.
Non possiedo le competenze di un filosofo professionista. Posso solo parlare dalla mia posizione di individuo che per qualche anno ha vissuto in ambienti accademici americani saturi di decostruzionismo.
Nonostante lo scandalo de Man avesse scosso la sua autorevolezza, Derrida lì
e allora (Berkeley, ’89−’94) era presentissimo. Il suo influsso era percepibile in tutti, come un gesto, uno stile, una postura adottata anche in modo inconsapevole. Una moda? Sì, anche una moda: ogni egemonia culturale genera le sue derive modaiole (o esoteriche, o escapiste). Ma il gesto derridiano era anche, per sua natura, un movimento di liberazione.
Era liberazione il suo “non c’è alcun fuori testo”. Io lo spiego così:
nessun testo (nessun Protocollo) può degradare il suo intorno al rango di
“fuori testo” e, forte di ciò, dirsi autosufficiente, autoevidente, accecante. Occorre invece riposare la vista, se necessario, e subito dopo passare a esaminare la cornice − per esempio il progetto, il movente − che è parte integrante del testo e contribuisce alla sua feconda impurità.
Altroché pensiero unico: la decostruzione mostrava innanzi tutto la necessaria frattalità del pensiero. Chiedeva di attivare un’intelligenza smisurata − ma miracolosamente priva, almeno nelle pagine di Derrida stesso, di paranoia. In tempi come i nostri, tempi di antitesi facili e frettolose, il pensiero derridiano è prezioso perché lento, impuro, ironico.
Un’altra forza liberatrice era la valorizzazione di un altro paratesto: la nota, l’opera minore, la lettera privata. Il significato essenziale − o comunque reale − andava cercato in questi luoghi marginali e minimi. Certo, questo l’avevano già detto in tanti, da Freud a Carlo Ginzburg, ma Derrida aveva trovato percorsi di lettura ancora inesplorati e provocatori: prova ne era lo scandalo di tanti suoi lettori.
Erano liberazione quelle pagine di Limited Inc. o di Signéponge irte di “giochi di parole” assolutamente motivati. Anche in questo caso, si potrebbe obiettare che la barriera tra saggistica e poesia, tra parola−senso e parola−bellezza, era caduta da tempo, e che anche il potenziale ludico−conoscitivo del gioco di parole era ormai storia antica. Ma anche in questo caso, le reazioni furiose mostravano che in realtà il linguaggio accademico tradizionale, o tutt’al più bellettristico, era ancora un bastione di status. Bene faceva Derrida (in questo simile a Bordieu) a metterlo in crisi.
Del resto non c’era in gioco solo lo status intellettuale, ma anche quello
ontologico−psicologico. Il linguaggio di Derrida metteva in discussione l’idea stessa di “io”, e per questo veniva attaccato non solo dai “colti” ma anche
dai “sani”. Ed è difficile trovare un’idea che abbia fatto tanti danni come quella di salute, di purezza.
Era liberazione mostrare il pensiero occidentale come una tradizione tutto sommato compatta, tutto sommato basata su un certo numero di assunti tutto
sommato discutibili. L’aria che respiriamo non è dunque un dato, la si può
capire, forse cambiare. Che poi la diagnosi sia “logocentrismo” o un’altra,
è questione ulteriore.
Quanto al fallologocentrismo, è diventato rapidamente uno slogan (così come
il verbo “decostruire”). Eppure era una scelta autenticamente liberatrice #8722;
soprattutto entro il pensiero di un maschio − riconoscere la necessità di
una riflessione seria sulla sessualità. Per giunta una riflessione che ne cogliesse il radicamento in un ambito ocio−politico−storico−culturale molto più vasto. Oggi chi ne ha il coraggio?
Così questo filosofo che aveva rinunciato a una carriera di calciatore mi sembra oggi il tipo del raro amico etero con cui riesci a parlare di tutto senza imbarazzi e paure, costruendo nelle passeggiate serali una visione del mondo condivisa.
Era liberazione un pensiero laico maturo. Non voglio dire un pensiero ateo − Derrida è stato anche descritto come “un mistico ebraico”, non senza validi argomenti. Ma la questione ontologica non c’entra affatto. Chiamo laica la
volontà di riconoscere sia il meccanismo di produzione del senso, sia la necessità del senso.
Ed era liberazione vedere che con il passare degli anni (nonostante tutte le sciocchezze diffuse ovunque sul decostruzionismo come fumosa teoria postmoderna che astrae dalla realtà e dissuade dall’impegno) Derrida si occupava in modo sempre più attento e penetrante, in modo evidentemente non improvvisato ma del tutto coerente con il suo percorso, di temi sociopolitici.
Quale domani? (Bollati Boringhieri 2004), libro−conversazione con Elisabeth Roudinesco, ce lo mostrava ancora in piena forma.
Ce lo mostra ancora in piena forma. Oggi Maurizio Ferraris scrive sull’inserto
domenicale del Sole−24 ore: “E’ stato l’uomo più innamorato della vita che io abbia mai conosciuto”. Oggi l’amore per la vita ci viene perlopiù proposto come un superamento e un annullamento delle differenze, considerate inessenziali. Derrida ha criticato duramente l’essenzialismo. Ha valorizzato
la differenza proprio perché la sua inessenzialità è l’unica paradossale essenza a cui la nostra vita umana ci dia accesso. Ha amato la differenza e ha amato la vita. Queste cose durano, durano.
Roma, 9−10 ottobre 2004.
Bellissimo Tommaso, bellissimo ricordo di DERRIDA, non un apologia, non un panegirico. Ma un ritratto della sua traccia umana.
“Se la trasparenza dell’intelligibilità fosse assicurata, distruggerebbe il testo, mostrerebbe che non ha avvenire alcuno, che non deborda il presente, che si consuma immediatamente; dunque una certa zona di misconoscimento e di incomprensione è anche una riserva e una possibilità eccessiva – una possibilità per l’eccesso di avere un avvenire, e di conseguenza di generare nuovi contesti. Se tutti possono capire subito quello che voglio dire non ho creato alcun contesto, ho meccanicamente risposto all’attesa, ed è tutto lì, anche se la gente appalaude, e magari legge con piacere; poi, chiude il libro, ed è finita (Jacques Derrida, Il Gusto del Segreto, Laterza)
Dalla breve introduzione a derrida su http://www.geocities.com/dyeg83/derrida.htm, un omaggio all’etica dell’ospitalità
…La de-costruzione, staccate dalle mode che ne hanno fatto un metodo di interpretazione, diventa per Derrida il progetto di un ” nuovo, nuovissimo illuminismo “, la costante preoccupazione per l’altro verso e per cui dobbiamo coltivare un’ etica dell’ospitalità , ovvero l’apertura verso un avvenire che accade senza essere atteso, ad un dialogo che procede dal rispetto e che pone il tema della differenza come punto imprescindibile di partenza per un incontro fra gli uomini: ” come se lo straniero fosse innanzi tutto colui che pone la prima domanda, o colui al quale si rivolge la prima domanda (…); pertanto lo straniero, ponendo la prima domanda, mi mette in questione “. Ecco il punto cruciale, secondo Derrida, del tema dello straniero, di “colui che viene da fuori”, che “parla una strana lingua”, che produce inquietudine e sospetto. ” Lo straniero è in primo luogo straniero rispetto alla lingua giuridica nella quale sono formulati il dovere d’ospitalità, il diritto d’asilo, i limiti, le norme, i codici di polizia eccetera “. Il tema dello straniero per Derrida diventa, non solo metaforicamente, l’emblema di un’interrogazione che la società, ciascuna società, rivolge a se stessa: ” come se lo straniero fosse la questione stessa dell’essere in questione “. Grazie allo straniero la società non può fare a meno di interrogarsi sulla propria cultura, sulla lingua e le istituzioni giuridiche in vigore, in definitiva sul modo con cui attua una legge dell’ospitalità, ” coinvolgendo l’ethos in generale “. E del resto la parola latina “hostis” significa ospite ma anche nemico. La costellazione semantica, nel suo ambiguo oscillare tra termini opposti (oste, ostile, ospizio, osteggiare…), sembra costituire la trama della nostra identità. Ma c’è anche un secondo aspetto, non meno significativo: le ampie meditazioni di Derrida sulla sepoltura, sul nome, sulla memoria, sulla follia che abita il linguaggio, l’esilio e la soglia, ” sono altrettanti segnali rivolti alla domanda del luogo, che invita il soggetto a riconoscere d’essere per prima cosa un ospite “. Svolgendo quella che chiama ” il teatro invisibile dell’ospitalità “, il filosofo ripercorre alcuni tratti dell’elaborazione di Lèvinas, in particolare quelli in cui afferma che “il soggetto è un ospite” o che “il soggetto è un ostaggio”. La tesi centrale di Derrida è che vi è un’impossibile convivenza, una sorta di lacerazione tra ” l’ospitalità incondizionata che va al di là del diritto, del dovere o addirittura della politica ” e ” l’ospitalità circoscritta dal diritto e dal dovere “. In altri termini: ” dando per buona l’ospitalità incondizionata, come dar luogo a un diritto, a un diritto determinato, limitato e delimitabile, in una parola calcolabile? “. Il problema dell’ospitalità, conclude l’autore, ” è sovrapponibile al problema etico “.