La crisi della civiltà del nordovest

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Di Sergio Beltramo

Dopo la fase delle grandi guerre e delle grandi rivoluzioni, per la civiltà del nordovest si prepara un lungo periodo di stagnazione: si susseguono lunghi decenni in cui un fragile benessere economico (lascito, peraltro, della sana aggressività di un passato più o meno remoto) si accompagna ad una progressiva perdita di identità, ad un tartufesco senso di dimissione dalle logiche della potenza.
Si cercherà qui soprattutto di introdurre il lettore nel clima spirituale di quella fase storica. Operazione, quest’ultima, per la quale saranno necessari filtri, linguistici e concettuali, che agevolino l’avvicinamento ad una realtà che ci è oltremodo remota, che si alimenta di valori e percezioni così distanti dalla nostra attuale civiltà da apparire del tutto improbabili.

Non si tratta in fondo che della consueta operazione richiesta allo storico: restituire la credibilità di un quadro di vita, restituire un contraddittorio paesaggio di fatti e credenze. Tutto ciò a partire da quegli equivoci materiali che sono le fonti (testi, immagini, oggetti), resti per così dire paleontologici di ardua, e a volte purtroppo impossibile, decifrazione. Relativamente a quest’ultime, lo studente o il ricercatore, potrà accedere direttamente al repertorio filmografico e televisivo, oltre che ad ambienti interattivi e di realtà virtuale (-a pagamento: digitare cod. FONTI-).
Dunque bisognerà in primo luogo focalizzare la lente dello storico su di un groviglio di credenze, di radicate superstizioni, di “deità” –se ci si passa una definizione letteraria-; un nugolo di idoli che un’epoca ha sentito così ovvi da conferire loro una patente di naturalità, di intransitiva realtà e che invece oggi necessitano di essere chiariti, di essere ricostruiti nella loro dimensione para-religiosa, ricollocandoli nel contesto appropriato.

Alcune credenze astratte (e l’astrattezza, si vedrà, rappresenta uno dei connotati identificativi dell’epoca in questione) si presentano come dei veri e propri leitmotiv del “discorso”, sia nella sua dimensione propriamente politica, sia in quella più generalmente culturale: democrazia, libertà, benessere, giustizia sono termini la cui frequenza nell’uso fa pensare a qualcosa di decorativo, un po’ come certi motivi mitologici permangono stancamente, svuotati dell’antico valore cultuale, nelle decorazioni parietali o musive dell’epoca romana. E si vedrà come il nucleo concettuale a cui quei termini fanno riferimento sia da tempo sottaciuto, forse dimenticato, così che si prestano ad equivoche manipolazioni, addirittura a contraddittori utilizzi. Resta poi il fatto che, comunque, nell’invocarli, si invoca un’astrazione, un bizzarro prodotto neuronale privo di qualsiasi corrispondenza nella forma e nella consistenza materica. Ciò che poteva apparire naturale, ovvero il fatto che essi venissero invocati secoli prima come leva ideologica per l’affermazione materiale di un ceto avviato all’accumulo di ricchezza e prestigio, diventa invece fantomatico, quando essi vengono ipostatizzati come “misura” di un vivere “civile”, rispettoso della “dignità umana” (ancora una volta ci si dovrà immergere in un fumo di astratte formulazioni teoriche; ancora una volta, per lo storico, si tratta come di dover ripassare tutta un’astrusa genealogia mitologica).

Altro problema sarà quello di avvicinare il lettore a quella congerie di superstizioni, a quegli essere metaforicamente “ctoni” che riaggallano qua e là, come contrattualismo, egualitarismo, diritto naturale, come il binomio diritti-doveri. Come spiegare il loro tenace permanere a tanti secoli dallo loro enucleazione? (Lo studioso potrà approfondire l’origine di questi idoli, nei bui secoli del ‘600 e ‘700 dello scorso millennio, quando le elucubrazioni magiche di uno sparuto gruppo di stravaganti pseudo filosofi cercarono di scardinare i principi etic- religiosi della società di casta e del privilegio, così come antropologicamente fondata sin dalla creazione dell’essere umano (-a pagamento: digitare cod. SECOLIBUI-). Ulteriore difficoltà deriva poi dal fatto che dette superstizioni, nel loro riaffiorare, si sovrappongono, si affiancano, a volte si fondono con le credenze cui sopra si è accennato (libertà, benessere ecc.) dando luogo a curiose formulazioni che, se di norma sono meri flatus vocis, a volte si trasformano “prodigiosamente” in indirizzi di politica (si veda ad esempio: la pace dei popoli favorisce il benessere, che è un naturale diritto dell’umanità; oppure anche: la giustizia sociale è fondata su di un contratto fra le parti sociali stesse che contempli i diritti di cui godono e i doveri a cui dovranno attenersi)…

Qui la civiltà del nordovest inizia ad affondare; l’astrattezza diventa totalitaria e finisce per imbrigliare qualsiasi naturale spontaneità degli individui e dei gruppi. L’apogeo si trasforma impercettibilmente in crisi profonda: astrusi accostamenti come istruzione/benessere, civiltà/difesa delle minoranze, istruzione-sanità/diritti, umanità/solidarietà, vengono spacciati quali nessi consequenziali, nel senso di istruzionebenessere, civiltàdifesa delle minoranze e così via… Lo stato diviene onnipotente tutore di questi nessi, un po’ come il regime dei faraoni sovrintendeva a tutto l’apparato rituale dell’antico Egitto. E’ uno stato che va pagato, ed entra prassi comune la scorporazione e la donazione di una parte della propria individuale ricchezza per sostentarlo (i più curiosi potranno ad esempio approfondire il bizzarro fenomeno dei cosiddetti “giardini pubblici”, allestiti appunto grazie allo scialo di tali donazioni (–a pagamento: digitare cod. AREEVERDI-). La superstizione per cui l’uomo è naturale possessore di diritti naturali si infiltra profondamente nelle fibre sociali e lo stato, mediante elefantiaci istituti di protezione e conservazione, proprio di tali fantomatici diritti (al lavoro, alla salute, alla dignità ecc.) si fa garante.

Naturalmente alle spalle di tali putrescenti bizantinismi vi sono gli interessi di alcune improduttive e parassitarie caste, fattispecie di gruppi sacerdotali la cui ragione di essere altro non è che la celebrazione dei riti connessi alle credenze di cui si è detto. Lo studioso, nelle aree 5 e 6 (gratuite) avrà così modo di avvicinarsi al mondo dei “liberi giornalisti” –la casta più equivoca e forse anche la più potente-, a quella dei “politici di professione”, dei “giudici” (un ceto ristretto quest’ultimo, che agisce e colpisce in nome di un’entità immateriale che sta al di sopra e al di fuori dei reali rapporti e transizioni umani); e poi ancora “intellettuali, sindacalisti, operatori sociali e sanitari…”

Eppure qualcosa si muove. Proprio laddove il volto di una civiltà sembra più univoco, si scoprono forti segnali contraddittori: mentre l’edificio sociale affonda in una svagata irresponsabilità, qua e là iniziano a pullulare timide concrezioni che alludono ad una ben diversa concretezza, ad un inequivocabile bisogno di tangibilità. In mezzo a tante pallide figure idealistiche, il successo planetario di alcuni sportivi o di alcuni cantanti popolari, gli imperi economici costruiti mediante l’abilità nell’utilizzare spregiudicatamente il colosso mediatico, la ricomparsa nel “discorso” di termini che si riferiscono ad un sentimento mitico dell’origine e dell’etnia, insomma un’insieme di segnali indica inequivocabilmente che, nel bel mezzo della catastrofe, seppur inconsapevolmente sono stati gettati i semi della ripresa. Un’indagine approfondita rivelerà che, nel ripetersi ciclico delle fasi storiche, la decadenza ha due volti: da un lato vi è l’apparente stabilizzarsi, fra isteria e sonnambulismo, dei modi di essere di una civiltà; dall’altro, sotto le ceneri del pregiudizio e della superstizione, emergono spezzoni sociali che con quei modi di essere iniziano a non identificarsi più, che chiedono realtà, corposità, concretezza. Trasfigurate, a volte non ben comprese dagli stessi “attori”, emergono in sostanza le sfumate sinopie del nostro mondo di oggi.

Da questa prospettiva si potrà comprendere che valori che oggi si danno per scontati, sono in realtà conquiste storiche, o meglio riconquiste. Si vedrà che in quei bui anni smarriti nella melassa del libero giornalismo e del culturame, qualche voce, timidamente, ritorna a parlare di appartenenza, di razza, di sacralità e destino, di orgoglio della civiltà, di logica della potenza. Come nel bel mezzo della stagnazione del basso impero romano alcuni fatti (il fortificarsi delle case coloniche, lo svuotarsi dei borghi, il fissarsi di un vincolo ereditario che lega lavoratore e fondo agricolo) inconsapevolmente segnano i paletti che indicano la via della grandezza dei secoli a venire, così nei sonnacchiosi e femminei anni della decadenza della civiltà dl nordovest certi fenomeni eccentrici (si veda appunto la comparsa di quelle parole d’ordine) aprono il varco ad una nuova civiltà. Naturalmente molta acqua dovrà passare sotto ai ponti perché quelle che per noi sono ovvietà diventino davvero tali: si dovranno abbattere i tabù del diritto e della ragione, gli idoli totemici dell’autonomia del giudizio e dell’uguaglianza, tutto un pantheon animista di “principi” e “idee” .

Eppure è dovere dello storico rilevare che fu proprio allora che le cose iniziarono a muoversi: qualcuno iniziò a pensare che invece di “diritto al lavoro/ retribuzione” ecc. si dovesse parlare di libera elargizione di una parte di produttività connessa ad una condizione di “giusto privilegio”; che invece che alla rappresentatività/pluralismo ci si dovesse affidare alla piana, intransitiva logica del successo (e dell’individuo che lo ha ottenuto); che invece che nel contrattualismo la soluzione di tanti problemi stesse nella semplice lotta e annientamento dell’ostacolo; e ancora che invece che nella favola giusnaturalista, il nodo effettivo del convivere civile stesse nel mettersi a servizio di una potenza filantropica, riconoscendone la grandezza, e nell’accorparsi unanime sotto i simboli del proprio gruppo.

L’embrione di tali pensieri, come si vedrà, si trova proprio laggiù, fra quelle sonnacchiose nebbie. E forse solo a partire di là possiamo davvero comprendere il nostro mondo di adesso.

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.