Dell’ideale enciclopedico (su Kis) 2#

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Di Massimo Rizzante

Se il romanzo vuole continuare a dare una visione totale del mondo e dell’uomo, se vuole continuare a svolgere la sua funzione totalizzante – oltre a quella catartica e cognitiva – anche nella completa disintegrazione dei valori del mondo contemporaneo (disintegrazione che Kis ha vissuto: disintegrazione politica e famigliare, pubblica e privata e perfino disintegrazione della frontiera tra pubblico e privato), deve fare suo quello che Hermann Broch chiamava stile della vecchiaia o stile dell’essenziale, stile astratto.

Per Broch la forma-romanzo nella sua lotta storica per superare le convenzioni romanzesche dell’epoca romantica e naturalista – lotta che dura ancora – deve sempre più integrare tutte le altre forme. Egli chiamava questo testo integrale romanzo polistorico, di cui il terzo tomo de I sonnambuli (1928-1932) e Gli incolpevoli (1949-1951) sono gli esempi migliori.

Il problema estetico, la trasformazione della forma-romanzo del XIX secolo in un testo integrale, è per Broch una “risposta etica” a un’epoca di disintegrazione dei valori, che ha avuto inizio quando il mondo occidentale ha perduto l’unità e la centralità della sua Chiesa. Gli avvenimenti apocalittici della storia occidentale della prima parte del XX secolo non hanno fatto che accentuare la dissoluzione: “Se l’arte – afferma Broch nel suo saggio Lo stile dell’età mitica (1947) – ha la possibilità o il diritto di continuare a esistere, deve assegnarsi il compito di produrre ogni sforzo al fine di raggiungere l’essenziale, di diventare il contrappeso all’ipertrofico dolore del mondo. Imponendo alle arti un compito simile, quest’epoca di disintegrazione si incarica di imporre loro lo stile della vecchiaia, lo stile dell’essenziale, lo stile astratto”. Per questa ragione, secondo Broch, il romanzo deve imparare dalla pittura non figurativa (egli porta come esempio l’evoluzione di Picasso) e anche dalla musica (egli cita gli esempi di Schönberg e Stravinskij), la più astratta fra le arti. Il romanzo dovrà musicalizzarsi, arricchire quella che Broch chiama la “sintassi” più che dedicarsi ai suoi “vocaboli”, determinare la struttura matematica delle situazioni umane più che dipingere i paesaggi e gli stati d’animo, cogliere “l’essenza del sorriso” più che riprodurre un uomo che sorride.

L’esigenza estetica del romanzo è perciò quella di ridurre e condensare la complessità del mondo. Ma tale riduzione non dovrà sacrificare la complessità del mondo e ciò grazie a una musicalizzazione dell’architettura romanzesca. Condensare e rendere essenziale la materia romanzesca è un’esigenza estetica (bisogna superare l’estetica della rappresentazione della realtà) nata in un’epoca in cui, come afferma Broch, “i problemi privati sono diventati ripugnanti quanto i crimini più efferati” e dove “i problemi personali dell’individuo sono soggetti alla derisione degli dei, i quali hanno tutte le ragioni nel mancare di pietà nei confronti degli uomini. L’individuo è ridotto a niente, ma l’umanità può far fronte agli dei e al destino”.

Nell’opera di Kafka i “problemi personali” dell’uomo, “le complicazioni dell’anima”, avevano già perduto tutta la loro consistenza. L’estetica del personaggio di Kafka è sovrapersonale, come sovrapersonale è la costruzione della personalità di Pasenow, Esch e Hugenau, i protagonisti dei Sonnambuli.

Quando la Storia – quella di cui parlano Broch e Kis – ci mostra tutta la sua onnipotenza, la sua capacità estrema di ridurre, di nientificare l’individuo, la sua forza d’astrazione sostenuta e alimentata dalla tecnica (la guerra, i campi di concentramento, lo sterminio sistematico degli uomini), la sua stessa capacità di rendere risibile, o perfino “criminale” ogni azione poetica dell’uomo, allora la rappresentazione artistica dell’individuo è paradossalmente costretta, se vuole “rappresentare la realtà”, a coglierne l’essenziale, ad astrarsi per estrarne la struttura matematica. Per questo scopo, il romanzo ha bisogno di un metodo di esplorazione sovrapersonale e sovrastorico dell’esistenza umana, che Kis chiama: cronologia spirituale e non storica.

L’ideale del “romanzo enciclopedico” di Kis mi sembra molto più vicino alla “visione del mondo del romanzo” (Das Weltbild des Romans) di Broch che alla Biblioteca di Babele di Borges. L’enciclopedismo di Kis è più un’arte della composizione che un’arte della combinazione. In Kis il gioco formale non diventa mai esercizio di stile sulle eventuali interpretazioni del mondo. Al contrario la sua arte è al servizio, in tutta la sua ricchezza stilistica e varietà di registri, del bisogno profondamente umano di cogliere un’immagine totale del mondo. Invece di un esercizio di stile su un tema le cui possibilità di interpretazione sono già inscritte in un codice – sia esso storico o retorico – , l’opera di Kis è una tutta una lunga e infinita variazione, una lunga e infinita esplorazione dell’uomo a partire dalle sue ossessioni, ossessioni nelle quali la frontiera tra storia personale e privata e storia pubblica e umana è cancellata per sempre.

La Storia dell’uomo è tuttavia la quintessenza dell’astrazione: essa è popolata da uomini senza volto, rappresenta la memoria di ciò che non è individuale, una memoria astratta. Il romanzo corregge la Storia, ovvero la rende concreta. Il suo scopo infinito ed inesauribile è offrire ad ogni individuo una storia, un volto (penso a Una tomba per Boris Davidovic, questo tragico, poetico e parodistico monumento eretto di fronte al sorprendente quanto inspiegabile oblio della Storia). Per compiere ciò, secondo Kis, il romanzo non può affidarsi alla sola immaginazione. Esso deve addurre delle prove, scovare dei documenti, rinvenire delle tracce, collegare tra loro dettagli e costruire, partendo da questo quadro altamente incompleto un’immagine veridica della totalità. La correzione apportata dalla letteratura è, in ogni caso, una ricostruzione divorata dal dubbio e dall’incertezza: essa, infatti, è cosciente che la Storia s’incarica sempre di falsificare, se non cancellare i documenti, le testimonianze e tutte le tracce.

Nell’Enciclopedia dei morti(1983), l’ultima opera edita in vita da Danilo Kis, opera nella quale, a mio avviso, il romanziere si avvicina di più al suo ideale artistico, i due livelli, storico e ontologico, giungono fino a coincidere, realizzando in modo sistematico quella “cronologia spirituale e non storica” di cui Kis aveva parlato dopo la pubblicazione di Una tomba per Boris Davidovic,.

In questa raccolta di novelle, che non è altro che una forma particolare di romanzo, si ritrovano le condizioni fondamentali dell’ideale enciclopedico di Kis: la riduzione archittetonica (si tratta di un romanzo suddiviso in nove novelle il cui denominatore comune è il tema della morte con alla fine un Post-scriptum del narratore in cui questi offre una serie di spiegazioni sulla genesi del libro e un elenco particolareggiato dei riferimenti storici e bibliografici); la polifonia degli stili e dei registri (ogni novella imita un codice specifico: leggenda, lettera, ricerca filologica, cronaca di un delitto, ecc. Ogni novella, grazie alla sua forma specifica, esplora un aspetto specifico della morte); la condensazione della materia romanzesca (la novella che, ad esempio, dà il titolo al libro è allo stesso tempo un romanzo nel romanzo, il centro gravitazionale dell’insieme e la rappresentazione metaforica dell’aspirazione enciclopedica dell’autore).

Ogni novella si svolge in un tempo preciso e determinato. Ci si può ritrovare nella prima novella o prima parte del romanzo, il cui titolo è Simon Mago, nell’epoca immediatamente successiva alla morte di Cristo, o negli anni Venti del XX secolo nella seconda, o alla fine del secolo XIX a Praga nella sesta, o ai giorni nostri nella terza, quella che dà il titolo al libro, e nella nona, o ancora all’inizio del regno di Francesco Giuseppe, nel 1858, nella quinta.

Ciò che dà unità all’opera è il tema della morte. I diversi tempi storici si incontrano a partire dal tema. Inoltre, l’unità dell’opera è rafforzata dalla dispersione controllata di dettagli e motivi comuni che si ritrovano nelle diverse novelle. Guy Scarpetta ha giustamente parlato a questo proposito di “echi a distanza” che seguirebbero una logica delle coincidenze nel tempo, nei diversi tempi storici presenti nelle novelle. Ma a questo, si deve aggiungere, a mio avviso, un altro fattore di unità: il principio di contiguità che determina la disposizione delle novelle, principio che è parte integrante della logica delle coincidenze, a sua volta elemento strutturale dell’ideale artistico di Kis.

Alla fine di ciascuna novella è possibile, infatti, riscontrare, in modo più o meno manifesto, un legame con la successiva. Ad esempio, alla fine della prima troviamo Sofia, una prostituta siriana, fedele compagna di Simon Mago, che dopo la morte del maestro se ne ritorna triste al suo vecchio mestiere: “La gente si scostò e lei fendette la folla silenziosa e si diresse verso il deserto, singhiozzando. Il suo corpo mortale tornò in un lupanare e il suo spirito trasmigrò verso una nuova Illusione”. All’inizio della seconda, Onoranze funebri, siamo in Germania, ad Amburgo, nella zona del porto nel 1923 o 1924. Qui una prostituta di nome Marietta muore: “In una delle stanzette che si allineano nelle vicinanze del porto era morta all’improvviso, di polmonite, una prostituta di nome Marietta. L’ucraino Bandura, un marinaio e rivoluzionario, sosteneva che ‘si era consumata d’amore’. Egli non poteva associare nulla di banale con il suo corpo divino, e poi la polmonite è ‘una malattia borghese’”. Il “corpo mortale” di Sofia risuona come un’eco in quello “divino” di Marietta, mentre lo spirito di quest’ultima incrocia quello della prima, trasmigrato verso “una nuova Illusione”. Ma non è finita.

L’Illusione di Sofia, incarnata nella prima novella dalla religione e dai miracoli di Simon Mago, è qui “ripresa” nella sua variante profana: la morte di Marietta, amata dal rivoluzionario Bandura, sarà l’occasione per quest’ultimo di organizzare un funerale che è una vera e propria manifestazione proletaria. Alla fine di Onoranze funebri, Bandura sta raccontando le vicende del funerale a qualcuno di nome Johann o Jan Valtin (l’incontro tra i due uomini avviene cinque anni dopo la morte di Marietta). All’inizio della terza novella, novella che si svolge ai giorni nostri, la protagonista si trova in Svezia invitata dall’Istituto di studi teatrali. La sua guida è una certa signora Johansson. Alla fine della quarta novella, i dormienti della leggenda giacciono supini nella caverna del monte Celion: “Giacevano nel profondo sonno dei morti. Se fossi là capitato d’improvviso e li avessi visti, ti saresti volto in fuga pieno d’arcano spavento”. In questo caso “l’arcano spavento”, cioè le ultime parole della novella risuonano già nel titolo della successiva, Lo specchio ignoto, la quale non è altro che la cronaca di un misterioso delitto del 1858 i cui arcani furono materia di discussione di diversi periodici di spiritismo dell’epoca.

Coincidenze? Certamente. Ma bisogna entrare nella diabolica legge delle coincidenze che si verificano nel corso del tempo, o meglio nel corso dei diversi tempi storici delle diverse novelle (o capitoli di romanzo), bisogna entrare nella logica delle coincidenze che determinano la loro contiguità per comprendere che è attraverso questo particolare metodo delle coincidenze che l’autore giunge a superare l’orizzonte psicologico dei personaggi e la successione lineare dell’intreccio. Nell’Enciclopedia dei morti non si può mai distinguere i diversi momenti presenti di ciascuna novella dalla presenza della morte in quanto problema ontologico. L’autore, attraverso la ricostruzione del “momento presente”, storicizza ogni volta la Morte, le dà un volto, mentre, attraverso quello che ho chiamato “il metodo delle coincidenze”, egli riconduce la Morte al suo ruolo, quello di grande incognita umana.

Kis è riuscito in un’impresa eccezionale: ogni ricostruzione storica, ogni variante sulla morte è nello stesse tempo una variazione ontologica sulla morte.

Nell’ideale di Kis la cronologia delle voci enciclopediche è illusoria, illusoria perché la Storia si ripete – le sue voci si ripetono (la Morte, sempre la Morte). Ma il sapere romanzesco, l’arte del concreto esiste per correggere la Storia, per essere la sua variante e la sua variazione.

( fine )

(immagine di Peter Greenaway)

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.