Settembre
di Giovanni Carta
Da Feltrinelli – quella grande, quella in galleria – a pochi passi dai libri di cucina ci sono un bel po’ di testi sul cinema. Non soltanto sceneggiature o noiosi saggi sul montaggio, ma anche biografie e bei libri patinati da sfogliare alla maniera delle riviste, di quelli con un sacco di foto di personaggi di celluloide, come si diceva una volta. Sei appena entrato in libreria, e oggi non hai voglia di impantanarti in un romanzo, nei versi dell’ultima Plath: vuoi soltanto galleggiare per qualche minuto nel comodo pettegolezzo hollywoodiano, ancora stupito dal tepore del riscaldamento che, già nella terza settimana di settembre, fa di Feltrinelli un ottimo riparo ai primi freddi.
Ma poi, per quella particolare malia caratteristica di alcune librerie, ti capita in mano un libro che proprio non ti aspettavi, qualcosa di nuovo dove pensavi di avere già stillato fino all’ultima goccia utile. Mondadori ha infatti appena pubblicato un altro di quei suoi libri dal dorso giallo, quelli che stanno comodamente nella tasca della giacca, da portare nella metro e aprire appena se ne ha l’occasione. Questa volta però si tratta di una lettura dal gusto di pasticcini, in perfetta corrispondenza con l’umore del pomeriggio, visto che dalla quarta di copertina Truman Capote guarda perplesso in bianco e nero: Il duca nel suo dominio s’intitola il volume.
La vena fortunata dei ritratti dell’autore reso celebre al grande pubblico da Colazione da Tiffany e che si credeva esaurita con Musica per camaleonti, ci regala una nuova piccola pietra: un’intervista a Marlon Brando. È così per puro piacere che, senza nemmeno accorgermene, ho già raggiunto una poltrona e aperto il piccolo libro. Appena voltata la prima pagina però mi vibra il telefono, un numero sconosciuto. Non sono di quelle persone che danno il numero in giro, quindi l’imprevisto mi inquieta un poco; alla fine però quella stessa curiosità un po’ civettuola che anima il mio pomeriggio svagato mi obbliga a rispondere.
Una voce flebile, quasi volontariamente delicata, mastica alcune parole incomprensibili, come si fosse appena svegliata da un lungo sonno, poi ride un po’, non senza imbarazzo. Presto mi accorgo che parla in inglese, senza tanti preamboli mi chiede cosa ho fatto oggi, se sono a Milano, ha un tono un po’ risentito. (Traduco perché anche se la mia conversazione in inglese è, come oggi erroneamente si dice, fluente, la sua trascrizione mi annoia terribilmente.)
«…C’eri poi ieri sera? Io non ti ho visto, giuro che in mezzo a tutti questi italiani che mi giravano intorno non ti ho visto…» dice.
Anche se ancora non riconosco questa persona – dalla voce non saprei neanche dire se si tratti di un uomo – mi viene in mente che in città solo nell’ultima settimana ci sono state almeno una decina di inaugurazioni di mostre d’arte contemporanea, prime a teatro, presentazioni di nuove collezioni di moda, di libri freschi per l’autunno, poi i dischi, di tutti i generi, per non parlare delle inaugurazioni di ristoranti, show room, locali notturni: settembre è decisamente il mese delle inaugurazioni, degli incontri.
«S-sì, certo…» balbetto per non essere scortese. Spesso infatti mi capita che qualche amico – vecchio, acquisito, di seconda mano, occasionale o di un passato ormai andato – all’improvviso raggiunga quel gradino di notorietà che gli permette di esporre in una galleria di periferia, o di presentare un libro in un caffè da quattro soldi o un nuovo disco di blues. È questo un genere di amici solitamente piuttosto suscettibile. Essi infatti, quando ancora non si sono stancati di quel campo paludoso che è la quasi-notorietà per tornare al sicuro impiego a scuola o in biblioteca, fanno le bizze se solo ti accorgi con un minuto di ritardo della loro opera prima, così inevitabilmente pronta a innovare, distruggere il passato, stupire.
«I miei complimenti,» continuo, «… davvero» mentre cerco di intuire chi accidenti stia parlando all’altro capo, come si usava dire quando tutto era più comodo e i telefoni avevano i fili.
«Complimenti? Ma se mi hanno fatto in tanti pezzi. Non bastavano i pezzi di me che portavo in giro negli anni ottanta… Quand’è che sono stato a Milano l’ultima volta? Quand’era? L’ottantanove?»
Ecco, già il campo si restringe: niente teatro, perché quelli della scuola di teatro sono tutti troppo giovani. Mi rimangono un paio di scrittori, qualche pittore e la moda; per i locali e i negozi, chi si brucia a Milano poi difficilmente ci torna: fuori anche quelli. Intanto la faccenda però già mi annoia, così sfoglio ancora qualche pagina del libro di Capote: l’intervista si è svolta in Giappone nel cinquantasei, Marlon iniziava ad avere una notorietà spaventosa. Capote, dopo i convenevoli blocca un monologo di un Brando subito borioso per chiedergli come si è rotto il naso, acquisendo poi quel profilo imperfetto così decisivo per la sua carriera — «Ma sono io che ho chiamato, o sei tu?» mi interrompe la voce al telefono.
A questo punto non so cosa rispondere, confesso che la cosa prende a disturbarmi un poco: «Comunque sì, mancava di unità, insomma,» sbotto. «Da te oggi mi aspettavo qualcosa di più, come dire, finito, chiuso… Unitario ecco, soprattutto dopo tutti questi anni». È evidente che non so assolutamente di cosa di tratti, non ho alcuna idea di dove mi sto impelagando ma ho deciso di procurarmi un minimo di piacere, un piccolo risarcimento dallo sconosciuto che disturba la mia lettura.
«Ma no…» risponde il mio inaspettato amico. «È stata proprio un’idea dei curatori, ed è appunto questo che mi scoccia. È la fissazione di tutti oggi, anche di mister Rampello, quella di comprendere diverse prospettive, diversi materiali, di partire dai pezzi…: “molteplicità disciplinare come specchio della realtà contemporanea” dice lui, come se io potessi raggiungerla questa realtà poi…»
Mister Rampello dovrebbe essere Davide Rampello, che mi pare sia uno che si occupa di un museo o di qualcosa del genere, non ricordo bene. In ogni caso non mi vanno tanto le arie che si dà l’amico e nemmeno la piega che sta prendendo la conversazione, così taglio corto con un luogo comune per arrivare più in fretta ai saluti: «Oggi però sono queste le uniche cose che possiamo guardare: le parti, le parti di un corpo, le parti di un messaggio, ormai l’idea dell’uno è tramontata. Vabbè, comunque ora» — «Io invece sono il nulla, così ha detto qualcuno un giorno,» mi interrompe lui, «il Nulla in Persona…»Il mio interlocutore non può che essere un pittore metafisico o un filosofo. Parla troppo in astratto per essere uno scrittore anche se decisamente un vero pittore non blatera tanto. A pensarci bene però, anche se è un po’ pessimista non si può negare, ne ha detta una buona.
«Comunque,» continua, «c’è una altra cosa da dire». Il suo tono si fa all’improvviso allegro, perdendo quella delicata noncuranza. Potrei definirlo quasi entusiasta, seppure in un certo modo sordo, asettico: «Guarda, ‘niente’ è eccitante, ‘niente’ è sexy, ‘niente’ non è imbarazzante. L’unica volta che voglio essere qualcosa è di essere fuori da una festa, così posso entrarci! Insomma cosa fai stasera?»
Chiudo definitivamente il libro di Capote e lo caccio nella tasca della giacca, quindi stacco il telefono dall’orecchio e leggo sul display che ormai stiamo parlando da undici minuti. Non è un’informazione importante, ma il dubbio che questa ultima affermazione del nuovo amico mi ha fatto venire in mente circa la sua identità mi ha costretto a una distrazione.
«Allora? Sei mancato, ieri, all’inaugurazione, ormai l’ho capito sai… Ma almeno al party ti farai vedere spero… Mi sembra di essere tornato nei Cinquanta, quando ti correvo dietro come un adolescente dietro il suo Idol, e tu non facevi che sbattermi la porta in faccia…»
Infilo la mano nella tasca e tasto il libricino nuovo, la quarta di copertina, liscia, con quell’istantanea decisamente bella di Capote. È arrivato il momento di capire cosa diavolo succede al mio telefono, quindi mi alzo e cerco di raggiungere il settore Arte della libreria.
«Ma-no… Solo, non mi sento mica tanto bene…» confesso.
«Non me ne parlare,» dice rassegnato, mentre io cerco di raccapezzarmi tra i labirinti del settore filosofia, dove la Feltrinelli finisce in un gorgo senza uscita.
«Stamattina mi sono alzato,» continua «…e il brufolo di ieri sera si era spostato dal mento alla punta del naso. Allora ho iniziato un gioco, un gioco vecchio: il gioco di ritrovarmi, ricordi? Te ne ho già parlato. Ho coperto il brufolo col dito e controllato se il resto, se tutto il resto che mi restituiva lo specchio ero sempre io».«E… insomma? Che ti ha detto il tuo specchio?» chiedo con il fiato rotto dal passo rapido, superando la sezione storico-politica della libreria.
«Lo specchio ha detto il languore annoiato, il pallore sprecato… il freak chic, lo stupore fondamentalmente passivo, la gioia di cinz, la maschera di gesso da folletto, lo sguardo un po’ slavo, l’ingenuità bambina, l’ingenuità al chewing-gum…»
Raggiunti gli scaffali del settore Arte, mi avvento sulle colonne di libri e dopo una breve ricerca trovo, ancora avvolti dalla pellicola, i cataloghi di una personale decisamente importante appena arrivata in città.
Al momento non so dire se prima di lasciare la galleria Vittorio Emanuele, scendere le scale, passare prima tra dischi per poi arrivare in libreria, ho mangiato qualcosa. Certe cose di questo strano pomeriggio cominciano a traballare. Così non so se si tratti di un calo improvviso di zuccheri o di un accesso di vera e propria fame, ma le gambe un po’ mi vengono a mancare mentre strappo via il cellophane e passo il palmo della mano sulle quattro splendide Marilyn, ripetute sulla copertina del catalogo. Così colorate, così splendidamente truccate.
«…Il fascino che alligna nella disperazione,» continua la voce, «la trascuratezza narcisa, la perfetta diversità, l’inafferrabilità, l’ombrosa voyeuristica aura vagamente sinistra, la pallida pelle di albino. Incartapecorita. Rettile. Quasi blu. Gli occhi a spillo. Le orecchie a banana. Le labbra che tendono al grigio, gli arruffati capelli bianco argento, soffici e metallici…»Fortunatamente si è liberato un divanetto e posso sedermi. Certo, non ho nessuna sicurezza sulla vera identità dell’amico che parla inglese. Può essere un George Smith qualunque che ha solo sbagliato numero, ma mentre apro il grosso catalogo sulle ginocchia mi sento prendere da una strana nostalgia: «Si… Si può essere fedeli ad un posto, a una cosa quanto lo si è a una persona…» mi accorgo di aver appena detto, «un posto può farti veramente venire il batticuore…» — «Specialmente se devi prendere l’aereo per arrivarci!» Dice lui prima di erompere in una risata infantile, gioiosa.
«Nostalgia,» fa poi, tornando a quella sua asettica noncuranza che ora alle mie orecchie arriva piacevolmente accogliente, quasi fossimo quegli amici per davvero, come forse il mio telefono questo pomeriggio si è inventato. «Ricordi quando mi dicesti che alcuni tipi di sesso sono totali, complete manifestazioni di nostalgia? Credo che sia vero, ho deciso. Altri tipi di sesso contengono nostalgia in diverse quantità, da un minimo a un massimo, ma credo che si possa certamente dire che gran parte del sesso implica una qualche forma di nostalgia per qualcosa. Il sesso è la nostalgia di quando lo desideravi, qualche volta. Il sesso, in definitiva, è la nostalgia del sesso».
Intanto, sulle pagine del catalogo scorrono i ritratti tanto celebri, immagini di sesso attuale, di sesso sublimato, ripetuto. Da oggetti dello sguardo si trasformano in soggetti, diventano transitivi; sono loro a fotografare me spettatore, e a lasciarmi con il mio amore per quei colori, per quegli sguardi malinconici, così inevitabilmente solo: «Che hai fatto poi stamattina?» chiedo senza pensare, completamente frastornato.
«O, niente di che… Ho fatto un bagno, un bagno rilassante. Proprio come una segretaria» ride, stavolta più malinconico. «Una segretaria che ha appena scalciato via i suoi tacchetti da segretaria e sfilato l’orribile tailleur color di topo! Essere puliti è importante sai, è così importante!» dice. «Le persone veramente pulite sono le vere bellezze. Non importa cosa indossino o con chi siano o quanto costino i loro vestiti o quanto è perfetto il loro trucco: se non sono pulite, non sono belle. La persona più comune e priva di fascino nel mondo può sempre essere bella se è pulita…» — «Diana Vreeland,» lo interrompo, «che è stata direttore di Vogue per dieci anni, era una delle donne più belle del mondo perché non aveva paura di nessuno e faceva ciò che voleva, ma soprattutto perché era molto pulita. Hai ragione, era questa la base della sua bellezza…»
«Già…» dice lui, come se avesse già sentito questa mia affermazione – che chissà da dove mi è arrivata alle labbra, visto che non ricordo di aver visto da nessuna parte nemmeno una foto di questa Vreeland – «…E dire che durante gli anni Sessanta pareva che molti dei miei conoscenti pensassero che l’odore delle ascelle fosse attraente,» continua lui. «Pareva che non indossassero mai nulla di lavabile. Doveva sempre essere tutto pulito a secco: il satin, gli specchietti sui vestiti, il velluto. Il problema era che non venivano mai puliti, neanche a secco, ricordi? Ed è stato ancora peggio quando hanno cominciato tutti a portare indumenti di pelle e di cuoio, e quelli veramente non venivano puliti. Ammetto di aver portato anch’io calzoni di pelle e di cuoio per un breve periodo: non ci si sente mai puliti ed è comunque da degenerati indossare pelli d’animale, a meno che non serva a stare caldi. Così sono tornato ai blue jeans, dopo quel periodo degenerato. Con gran felicità. I blue jeans sono in fondo la cosa più pulita che ci si possa mettere addosso, perché è nella loro natura di essere lavati molto. E sono così americani nella loro essenza!»
Una ragazzina si siede accanto a me. Ha in mano un grosso libro di fotografie di paesaggi e per un attimo mi guarda, poi sorride divertita e comincia a sfogliare il suo libro. Quasi mi viene voglia di passarle il telefono, come per dividere con lei tutta questa storia incredibile. Ma poi invece faccio: «Hai… Hai ancora la stessa idea di bellezza», facendomi piccolo come una formica, davanti alla foto sul catalogo di un bellissimo Elvis argento che mi punta la pistola.
«Abbiamo tutti un diverso senso della bellezza,» risponde lui con tono annoiato. «Quando vedo della gente portare dei vestiti tremendi, che gli stanno male addosso, cerco di immaginarmeli al momento dell’acquisto che pensano: ‘Questo è stupendo. Mi piace. Lo prendo.’ Non riesci a immaginarti che cosa non abbia funzionato nella loro testa per arrivare a comprare quelle braghe marroncine di crêpe di poliestere o quella maglietta acrilica a giro collo con la scritta ‘Miami’ fatta con i brillantini. Ti viene da chiederti che cosa avrebbero rifiutato come non bello: una maglietta acrilica con la scritta ‘Chicago?’»
Ora sono io a ridere. Ormai sono arrivato alle pagine centrali del catalogo, con i ritratti di Armani e Valentino: «Sei piuttosto famoso ora a Milano…» dico.
«Fino a poco tempo fa non ero nessuno in Italia…» — «Oddio, è passato del tempo…» mi sorprendo a dire con noncuranza.
«Già… Forse anche tu hai un po’ di ragione… Fatto sta che Allora (va bene Allora?) in Italia non erano nemmeno in grado di scrivere correttamente il mio nome. Poi L’Uomo Vogue ha scoperto come si scriveva il mio nome da una delle nostre superstar che andava con uno dei loro fotografi: discorsi da letto mi sa, ma comunque egli rivelò il modo corretto di scrivere il mio nome a ‘L’Uomo’ e poi diffuse i titoli dei miei film e le foto dei miei quadri e ora in Italia sono diventato una mania.»
Sfoglio le foto dei party, tutta la bella gente che frequentava se stessa e gli altri nei Sessanta, nei Settanta, negli Ottanta: «Cosa mi dici di Milano, anzi no, domanda banale, cosa pensi della città?»
«Non ci penso, non ci voglio pensare. So solo per esperienza che preferisco lo spazio della città a quello della campagna, dovresti saperlo… Mi piace l’idea di essere in campagna, ma quando ci arrivo mi torna in mente che:
Mi piace passeggiare ma non ci riesco
Mi piace nuotare ma non ci riesco
Mi piace stare al sole ma non ci riesco
Mi piace annusare i fiori ma non ci riesco
Mi piace giocare a tennis ma non ci riesco
Mi piace fare sci d’acqua ma non ci riescoLa lista potrebbe andare avanti, ma ho reso l’idea, e la ragione per cui ‘non ci riesco’ è semplicemente perché non sono il tipo. Non puoi fare le cose se non sei il tipo. Puoi dire le cose anche se non sei il tipo, ma non puoi fare le cose se non sei il tipo. È una brutta cosa…»
«E in campagna non ci sono larghi marciapiedi da passeggiarci sopra…» A questo punto chiudo il catalogo e lo impilo in cima agli altri. A parlare in questo modo mi è venuta voglia di passeggiare per la galleria affollata, per i marciapiedi di via Torino…
«E poi la metropolitana… Dovremmo sempre andare tutti nelle metropolitane affollate. Di solito, quando la gente prende la metropolitana è molto stanca, e così non può cantare o ballare, ma credo che se potesse cantare o ballare nella metropolitana, la troverebbe un’esperienza veramente piacevole. I ragazzi che di notte dipingono graffiti sui vagoni della metropolitana hanno imparato a riciclare molto bene lo spazio della città…»
Mentre passo per l’uscita della libreria accade però una cosa imbarazzante. Una di quelle terribili colonnine animate messe a sentinella accanto alle scale scoppia a squillare e io – imbarazzatissimo! – mi frugo la giacca e cerco di far capire alla guardia in divisa che ho infilato il libro di Truman Capote in tasca inavvertitamente. La guardia chiaramente non ne vuole sapere.
«Cos’è tutto questo baccano?» chiede lui. «Ti è successo qualcosa? Ti hanno ferito? È un’ambulanza quella sirena?»
Mentre cerco di rassicurarlo passo per la cassiera, che fortunatamente conosco. Mentre pago il libro, lei garantisce per me con la guardia, così sembra che il malinteso abbia termine. Solo allora la guardia mi lascia il braccio, anche se mentre salgo le scale sento sulla nuca il suo sguardo diffidente e risentito per non aver potuto fare di più.
«… I ragazzi che di notte dipingono graffiti sui vagoni…» riprende, facilmente rassicurato dai miei Niente niente, continua, «… Tornano nella metropolitana di notte, quando i vagoni sono vuoti, ed è allora che possono cantare e ballare a modo loro nella metropolitana. La metropolitana di notte è un grande palazzo tutto per te. A furia di parlare mi sta venendo una fame…»
Di nuovo all’aperto, la folla della galleria mi prende con sé e io, ancora scosso dalla figuraccia con la guardia, mi lascio condurre verso la piazza.
«Ma accidenti, forse questa sta diventando un’intervista, un’intervista per il nuovo numero della rivista… Pronto? Mi senti? Io non ti sento più tanto bene…» continua. «Sai che non mi piacciono poi più tanto le interviste,» sbotta poi. «La gente dice che tento di plasmare i media quando fornisco contemporaneamente ai giornali storie diverse sulla mia vita,» dice. «A me piaceva dare informazioni diverse a diverse riviste perché era come mettere un segnale per rintracciare dove prende informazioni la gente. In questo modo, quando incontravo qualcuno, potevo sempre dire che giornali e riviste leggeva dalle cose che riportava come mie. A volte tornano indietro, dopo anni e anni, buffi stralci di interviste, come quella volta che un giornalista mi ha detto: ‘Lei ha asserito che Lefrak City è il più bel posto del mondo’, ed io ho capito subito che aveva letto Architectural Form. Ma poi, la cosa più importante, e la vera ragione apparente per cui abbiamo iniziato questa comunicazione strana con le sirene e tu che sei così imbarazzato, timido… Insomma cosa fai poi stasera? Passi a prendermi e poi andiamo assieme al party?»
«Il party! Certo che ci vengo al party! Dimmi in quale albergo alloggi,» chiedo entusiasta e dopo aver sfilato il libro di Capote, preso da un’improvvisa euforia infantile, cerco di imitarne le fattezze sulla quarta di copertina: la posa obliqua, lo sguardo così distaccato.
«Hai da scrivere? Ma mi senti? Io non ti sento quasi più…»
Pesco dalla tasca una biro e vado all’ultima pagina, quella bianca: «Detta pure».
«Oddio, ti posso chiedere un favore?» fa poi lui all’improvviso. «Non è che mi porteresti dei dolci? A parlare mi è venuta una fame… Dei gianduiotti magari, prendili da qualche parte. Ci sono a Milano i gianduiotti? O forse però si possono trovare solo a Torino —
La conversazione a questo punto si interrompe.
Guardo sul display. Il telefono non si è spento. Uno di noi due ha riattaccato. Forse pigiando inavvertitamente un tasto o che ne so uno di noi ha riattaccato. Allora non posso che fermarmi, a pochi passi dalla bocca della metro, con ora nelle orecchie una strana malinconia e la biro in mano che ancora non ha scritto niente.
Alla fine mi decido a chiudere il libro e lo infilo assieme alla penna di nuovo in tasca, come un bambino cui è finito troppo presto il Natale, quindi mi avvio senza una meta per i portici, verso San Babila.
Difficilmente capita di trovare per le strade di Milano le vetrine imbandite dei Caffè storici, che a Torino sono la prima attrattiva turistica. Quei vassoi di cioccolatini di ogni dimensione: dalle praline colorate, ai finti arnesi da fabbro che il cacao rende realmente arrugginiti. Poi sì, i gianduiotti, quelli artigianali, così imperfetti e unici: uno diverso dall’altro, mi sento dire con già quel loro sapore morbido in bocca, mentre passo davanti alla misera vetrina di un bar coi suoi tramezzini.
«Guarda! Vendono le castagne!» dice poi con allegria una ragazza passandomi accanto. Tira su il bavero del cappotto e sparisce alle mie spalle.
In effetti è vero, penso guardandomi intorno alla ricerca dei carretti dei venditori di castagne. Ormai è quasi arrivata la sera. La gente si affretta e sorride ai primi lampioni, come presa da una innaturale euforia: gli uffici e le scuole hanno chiuso da poco e si può passeggiare, ancora non fa tanto freddo. A braccetto di qualcuno o con le mani in tasca si può andare così, senza pensare a niente, fino all’ora di cena: quasi quasi chiudo gli occhi per sentire il suono così diverso di questi passi svagati. Intanto, da un carretto poco lontano, arriva al naso l’odore piacevole che sprigionano le bucce delle castagne, quando infine si aprono e sboccia al calore quella loro lucida polpa gialla.
[liberamente ispirato a Andy Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Milano, RCS, 1999/2004]