Perso l’amore (non resta che bere)
di Tiziano Scarpa
Anche se un po’ in ritardo, ho letto un romanzo proprio bello: Perso l’amore (non resta che bere) di Marco Rossari E’ uscito da Fernandel l’anno scorso. (Rossari è autore anche di una più recente raccolta di racconti, Invano veritas, edita da e/o; devo ancora leggerla). Alla fine della lettura ho messo giù qualche riga. Non prendetela come una recensione, sono appunti.
Marco Rossari ha una salda sovranità sulla lingua e sulla scrittura. Il suo romanzo è sarcastico, disincantato, verboso, divertente, straniante, ebbro, autoriflessivo, giovanilistico – ma ruota intorno a una smentita del giovanilismo.
Il protagonista, Mr Marco, ha ventitre anni. È uno studente universitario. Ha passato qualche giorno a Londra. Ha conosciuto una ragazza australiana in un locale. Era ubriaco. Ha fatto sesso con lei senza precauzioni. Di ritorno a Milano, è assillato dai rimorsi. Come farà a dirlo alla sua ragazza, Valentina? Si rende conto che non l’ama più. E poi, teme di aver preso l’Aids. Inizia da qui un piccolo divertente delirio paranoico sulla malattia immaginata. A Marco piace molto bere, descrive i locali milanesi con disprezzo verso i suoi frequentatori (ma sopportiamo le sue tirate moralistiche grazie alla verve con cui le porge), la sua storia d’amore sfuma.
Mr Marco passa un autunno di autodevastazione, beve, fuma, fa tardi con gli amici: questo periodo è raccontato come se fosse una ricetta per cucinare un “pasticcio”. Una sera sente una fitta al petto. Va a fare un controllo all’ospedale. Scopre di avere avuto un infarto.
Lo ricoverano in clinica per parecchi giorni. Conosce Giulia, passata di lì per una coincidenza (ritirare i biglietti di un concerto dove Mr Marco, ovviamente, non può più andare). Se ne innamora. Esce dalla clinica, deve smettere gli stravizi. Si fidanza con Giulia. Ma anche in questo caso le cose vanno storte, per colpa di Marco, che si fa risucchiare dalla sua attrazione per l’annichilimento. La paura della morte, il timore che il cuore gli ceda, gli procurano ansia, che cerca di sedare con l’alcol (proprio ciò che dovrebbe evitare). Il circolo vizioso si riattiva, ed è peggio di prima.
Dicevo che il romanzo è una specie di smentita del giovanilismo proprio perché imperniato attorno a un evento che di norma non accade ai giovani: un infarto! Nelle prime pagine si patisce un po’ questo tono giovanilistico, ma presto ha il sopravvento una musica linguistica diversa. Certo, Philip Roth, Charles Bukowski e Viktor Erofeev trapelano in molte pagine, più una spruzzatina postmoderna, con le note a piè di pagina che smentiscono, ironizzano ecc., come nella Cognizione gaddiana o nelle didascalie dei fumetti di Altan (sicuramente l’autore le avrà mutuate piuttosto da David Foster Wallace); ma la voce dell’autore è originale.
Rossari racconta rimuginando, mescola alla narrazione in presa diretta ipotesi narrative pessimistiche (immagina il peggio che potrebbe succedergli) e vari tipi di soluzioni originali: i tre mesi raccontati come una ricetta; un “pentalogo” salutista che promette di seguire dopo essere stato dimesso; i ricorrenti dialoghi immaginari con la dottoressa sadica di Qualcuno volò sul nido del cuculo.
Un autore molto, molto interessante e un romanzo profondo, saggio, umanissimo, sulla morte e l’annientamento che piombano dentro la giovinezza e in un certo senso la rendono ancora più “giovane” e sregolata, non per ansia di spassarsela, ma per angoscia e certezza del fallimento. Il male qui non è sociale ma radicale, naturale, ontologico.