L’uomo con l’impermeabile #1
Gloria e tragedia dell’esibizione
di Tiziano Scarpa
Le orfane del volto
Qualche settimana fa, a Venezia, sono andato alla chiesa di Santa Maria della Pietà ad ascoltare un concerto. Alla Pietà si fanno molte serate musicali, ma questa era un’occasione speciale. Per la prima volta da cent’anni qualcuno suonava in quella chiesa come si faceva nel Sei e Settecento: a dieci metri d’altezza. In stereofonia. Anzi, in quadrifonia.
La chiesa della Pietà è a pianta quadrata. Nei quattro angoli, a una decina di metri di altezza, si aprono quattro nicchie a semicerchio. Sono le cantorìe, predisposte per le ragazze del coro. Lungo i due lati della chiesa, a destra e a sinistra, anch’esse elevate da terra, corrono due balaustre, lunghe una dozzina di metri, e sporgenti un paio di metri. Lì sopra si disponevano le strumentiste.
La Pietà era un’istituzione che raccoglieva gli orfani e i bambini abbandonati, e dava loro un’istruzione e un mestiere. Le più dotate fra le ragazze venivano allevate fra canto e strumenti, quasi nutrite di musica. All’inizio del Settecento, don Antonio Vivaldi fu per più di trent’anni maestro di coro e insegnante di violino di queste ragazze, e compose per loro decine e decine di concerti, mottetti e oratori.
Le balaustre e le cantorie sono chiuse da grate. A vederle vuote, così ariosamente traforate, sembra impossibile che riuscissero a nascondere l’identità delle ragazze. Era questo, infatti, lo scopo delle grate: mascherare i volti delle orfane, affinché gli ascoltatori che accorrevano in massa a sentire quelle virtuose polistrumentiste e quelle voci coltivate, non passassero il tempo a sbirciare lineamenti, lanciare occhiate, corteggiare le ragazze. Non sarebbe stato decente. La musica era offerta agli ascoltatori perché affondassero nello spirito, non per elevarli fino alla pelle sudata delle musiciste in tensione, agli incarnati colmi di sangue sano, muscoli che bruciavano ossigeno trasformandolo in aria musicale.
Le cantorie angolari vennero aperte negli anni Venti del Settecento, probabilmente su idea di Vivaldi stesso e delle ragazze del coro. Con le sue nicchie incastonate nei muri come bocche, con le balaustre traboccanti di suoni, la chiesa della Pietà era una macchina sonora. E anche una maschera sonora, che imprigionava i volti senza elidere le voci.
Quando ascolto i dischi di alcuni concerti di Vivaldi, penso sempre che erano composti per un’orchestra di donne. In alcuni – per esempio nel primo movimento del Concerto in do maggiore per archi e cembalo RV 117, l’Allegro alla francese di apertura – mi sembra di ravvisare evidenti guizzi di femminilità, piuttosto scabrosi per risuonare in una chiesa. In altri sento con chiarezza petulanze civettuole che ribadiscono sé stesse decollando a spirale, sempre più acute; accensioni sciantose, schiume fresche in ebollizione, che si gonfiano, si espandono saponificate, per mitosi di bollicine.
Tutti i viaggiatori del passato erano incuriositi, emozionati all’idea di conoscere i volti di quelle musiciste misteriose: Rousseau di passaggio a Venezia parlò di voci angeliche; ma quando ebbe modo di vedere quelle facce da vicino, senza copertura, restò molto deluso.
Cercavo di guardare le ragazze dell’Oxford Girls’ Choir venute a cantare a Venezia, nell’antica chiesa delle orfanelle, le ascoltavo dal basso, seduto sulle panche, sbirciavo le cantorie, là sopra, le balaustre protette dalla grata, e non riuscivo a distinguere i volti al di là delle inferriate.
Eppure era questo che mi veniva esibito: un alveo musicale di corpi sessuati, di voci sessuate. Un’orchestra di suoni che scaturivano da corpi, da muscoli innervati, da tendini tesi. Ragazze con un nome, una storia, delle abitudini. Mi chiedevo chi fossero, quelle liceali e universitarie inglesi che all’inizio del terzo millennio passano i loro pomeriggi liberi a imparare partiture barocche, sequenze di note scritte trecento anni fa.
Certo, ascoltavo profondamente la musica: Vivaldi, Porpora, Pampani… Ma accanto e dentro il mio ascoltare c’era anche quel radicamento nella scaturigine corporea delle ragazze musiciste. È giusto questo modo di ascoltare la musica? È spurio? È impuro? Bisogna installarsi nella condizione creaturale di chi mi porge un prodotto spirituale? Cogliere la sua condizione, insieme alla sua espressione?
(Ricordo di avere assistito all’esatto contrario di questo concerto vent’anni fa, alle prime esecuzioni del Prometeo di Luigi Nono. Non troppo lontano dalla Pietà, nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo, l’architetto Renzo Piano aveva costruito per l’occasione un’“arca”: una struttura in legno a soppalchi lungo le pareti dell’edificio; i musicisti e i cantanti erano disposti su vari livelli. A differenza delle orfanelle della Pietà, qui gli interpreti erano bene in vista, e tuttavia non si capiva bene da dove arrivassero i suoni, che erano elaborati da un filtro elettronico, né chi li producesse. Massimo Cacciari, autore del libretto dell’opera, aveva rilasciato interviste in cui spiegava che una tale disposizione nello spazio costituiva un deliberato superamento dell’ekdosis sonora. L’ekdosis, ossia l’edizione, il “darsi fuori” di un evento che proviene da qualcos’altro, dalla sua causa materiale; in questo caso, la situazione di proferimento del suono, la riconoscibilità della sua sorgente materica: polpastrelli che pizzicano, mani che percuotono, ciocche tese di criniere recise che strusciano intestini di animali disseccati e attorcigliati, amplificatori elettrificati che voluminano. L’ekdosis: essere sempre coscienti che ciò che ascoltiamo ha una radice fisica, è prodotta da attriti di mani e oggetti, da urti, scontri, strofinii, soffi).
Il lugubre narcisismo
È un luogo comune della nostra epoca tacciare gli artisti di narcisismo. Il movente della crezione artistica, e ancor di più della presentazione a un pubblico di un’opera d’arte, sarebbe soprattutto il compiacimento egotico, la soddisfazione narcisistica.
Trovo che questa accusa sia una delle armi ideologiche più mortificanti che si siano mai escogitate. Tacciare un artista di narcisismo significa pensare che l’arte non sia un’apertura agli altri, ma un disperato scafandro di seduzioni fra l’io e sé stesso, un miserevole gioco di specchi. È una concezione lugubre, alla quale voglio sperare che non credano davvero nemmeno quelli che definiscono narcisisti gli artisti. Voglio sperare che lo facciano per debolezza umana, per vendicarsi degli artisti: del loro smisurato, libero spalancamento. Accusare di narcisismo gli artisti è una mossa politica: presume che l’individuo disarmato, senza potere, senza riconoscimento istituzionale, ricco soltanto del suo talento e della sua forza di volontà, non possa dare nessun contributo alla comunità. L’artista non ha certificato, non ha patente, non ha diploma, non viene eletto, non appartiene a dinastie, non comanda, non è messo a capo: è un individuo armato soltanto del proprio io e della propria arte.
Questa idea di arte, l’accusa di narcisismo rivolta all’arte, in realtà è innanzitutto una trista concezione del rapporto fra individui e comunità. Vorrei riuscire a debellarla, o meglio a spostarla: dal narcisismo all’esibizionismo. Se proprio bisogna tacciare gli artisti di qualcosa, se a tutti i costi si vuole affibbiare loro una perversione, secondo me bisogna definirli esibizionisti, non narcisisti.
L’uomo con l’impermeabile
L’esibizionista è una figura gloriosa e tragica.
L’uomo con l’impermeabile mostra il sesso, mostra tutto il corpo, mostra il corpo sessuato. Spalanca l’impermeabile, e questo suo gesto dice:
“Non limitarti a guardare il mio volto. Io non sono il mio volto. La mia identità è più vasta, è più larga. Anche il resto della mia pelle, tutta la mia superficie è volto. Io soffro la riduzione dell’identità alla faccia, alla sua inquietudine motoria, terremotoria, alle sue mobili cicatrici espressive, alle sue ferite mai richiuse. Il resto del corpo non è mica così stressato. Guarda questo piatto torace: com’è menefreghista! Se ne sta tranquillo, stolido, inespressivo. Chi ha tagliato, chi ha bucato, chi ha seviziato questa superficie facciale crivellandola di orifizi, narici, meati, sbreghi palpebrali, sbadigli? Chi l’ha condannata a oltrepassare espressivamente se stessa, a smentire i propri lineamenti tramite i propri lineamenti stessi, esplodendo in risate, scoppiando a piangere; chi l’ha costretta a cancellarsi, a negarsi, ad affermarsi sempre più in là, diversa, trasfigurata, travisata, travoltata, trafacciata? Guarda altrove, invece, guarda dove è andato a rannicchiarsi il resto di me stesso, come una diaspora, una diluizione, un’allargamento a macchia d’olio: il mio io è colato lungo tutto il corpo; raccogli la mia immagine totale nel tuo sguardo-grondaia!”
(1 – continua)