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Il pollice debole

di Alessandra Lisini

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Ho sempre ritenuto possibile che nel pollice di ogni persona in un certo qual modo risiedesse l’anima della persona medesima, e non vedo come l’avere ottenuto che queste righe vengano ponderate da occhi, occhi in cui peraltro non risiede, per ipotesi stessa, e contro ogni credenza popolare, l’anima di chicchessia, e tanto meno quindi quella di colui al quale gli occhi appartengono, per codesto e per motivi che andrò più oltre a enunciare privi di qualsiasi valore empatico o simpatetico, potrebbe in qualche modo ottundere o modificare la mia posizione di partenza.

Con metodo in larga parte empirico è possibile giungere al riconoscimento delle miriadi di situazioni in cui le mani sono al centro della nostra attività sociale e personale. E al contestuale riconoscere che persone senza mani, quali per esempio Capitan Uncino o Freddy Krueger non possano fare altro che puntare con grande ironia su detta assenza per trasformare talvolta e a loro volta con violenza il mondo circostante, per modificarlo a propria immagine. Come se l’assenza di una mano tagliasse in loro l’anima a metà, con un risultato che chiamerei volentieri con desinenza maschile, se solo non fosse vivo in me il timore di suscitare la reazione della solita associazione per la salvaguardia del maschio, un animo netto. L’anima a metà sarebbe quindi sempre un animo: un malanimo, specialmente nei due casi summenzionati. L’anima particolare, di una persona sola, sarà un animo, a meno che non si parli di un grande uomo, allora l’animo diventa qualcos’altro e diventa un’anima, e diventa grande. Ma l’accidentalità dell’anima, il suo fuggire da condizioni generali, universali, si dirà ‘animo’.
Dammi una mano non significa forse: prestami un pezzetto del tuo tempo, della tua energia, della tua anima? L’avvicinamento delle mani tra angeli e madonne nelle Annunciazioni non è forse un accordo-incontro potente tra due mani e due anime?
E non l’animo accidentale, ma la volontà, vale a dire qualcosa più forte dell’animo e di tendente all’anima, è noto si sia sempre esplicitata nel diritto positivo antico con espressioni manuali (manomettere, mancipio, mallevadoria). Mi si obietterà di star parlando di mano in generale, e non di pollice, e che io mi stia dilungando troppo in questa sineddoche argomentativa, facendo il giro largo, convincendo l’occhio lettore della bontà del mio discorso e portando punti preziosi al mio mulino mentre parlo d’altro, per poi con abile giro di parole giungere alla fine facendo ostensione di una cosa non vera. Ché vera sarebbe la ricorrenza fatale e la corrispondenza inoppugnabile tra il carattere, la forma mentis, le inclinazioni consce e inconsce, le incongruenze palesi o nascoste del manutentore con il suo pollice. Ché, come le impronte digitali difficilmente si replicano, se non nei gemelli identici, così ogni detentore di pollice ha il suo e nessuno può replicarne un altro. Osservando allora il pollice della nostra mano destra, anche se tante volte abbiamo tentato di fingerne l’assenza, come se tante volte aggrapparci a esso e succhiarlo, o morderne l’unghia in posizione traversa, non ci avesse procurato una reale vicinanza al nostro nocciolo interiore; guardandolo a lungo, apprezzando le pellicole semi-diafane di sfoglia dermica intorno alla superficie dell’unghia, cerchiamo di essere analitici e obiettivi, di disconoscere per il momento la sua partecipazione alla vita sociale con le altre dita, il suo valore incontestabile di indefesso battitore della barra spaziatrice. Guardiamo bene e cominciamo a intravederla: la nostra anima, femmina, non l’animo puntuale del momento di ira automobilistica; l’anima femmina, che ristà da quando si è né ovuli né spermatozoi, né cellule divise né gameti. O la non-anima, per chi non crede all’anima. Io sto guardando l’unghia della mia anima, la quale si prefigura di essere tonda, ha questa pretesa di rotondità, si sforza di giungere alla perfezione, implora un tagliaunghie, la limetta pietosa che ne definisca il contorno; giro il pollice, grasso, protuberoso, aggettante, me lo sento empatico, elastico, e tuttavia fermo, sicuro di sé. Sicuro di sé? Questo è l’insegnamento del proprio pollice: uno pensava di avere visto chiaramente, e invece al tatto una cosa si ribalta, slabbra, riatta. Nel turgore del muscolo sottostante sta la risposta al tocco, che prima non aveva significato, il ritorno verso l’alto della polpa subungueale. Trastullato si piega, pur teso sull’articolazione vi slitta, sloga verso l’interno e ritorna in sede, provocando sconcerto, e disgusto, esclamazioni stupite delle amiche. Si potrebbero raccogliere foto di pollici, si potrebbe discorrere del come la percezione della visione, soggettiva per nascita e oggettiva per adozione, si sovrapponga a quella tattile, personale e solitaria, indivisa e incondivisa.
E tuttavia non siamo ancora giunti al punto: non ancora convinti, l’auto-valutazione del pollice è faccenda complicata e l’avvento della manicure ha, se possibile, complicato ulteriormente l’obiettività dell’analisi. Solo chi avrà saputo insistere noterà grossi risultati nella comprensione del sé: chi si accontenterà di andare in giro a lanciare più consapevoli OK a pollice alzato, come Arthur Fonzarelli, chi, una volta approfondita la conoscenza, imparerà a usare il pollice per esercitare il potere, decretando morte o vita come un imperatore, un giocatore che suggerisce lo schema, o più semplicemente come l’esperto alla Playstation2 con la consolle in mano. Oppure chi si saprà soffermare sulla sua evoluzione, analizzando diacronicamente i momenti del pollice dagli albori fino ai giorni nostri, potrà più facilmente comprendere che un tempo esso determinava la differenza fondamentale tra chi afferrava una pietra con le mani e chi l’avrebbe schivata soltanto, che è lo stesso pollice che permette di scrivere impugnando la penna e scrivendo di siglare accordi, oggi come allora, e di salutare, accordarsi, pacificarsi con strette di mano, perché per il momento del contatto di pace indice a indice sono capaci soltanto bambini ed extraterrestri, e neppure Dio e Adamo, in rotta d’avvicinamento nella Cappella Sistina da secoli, ce l’hanno ancora fatta. Non servono infatti sistemi complicati, a più moduli, per garantire stabilità. Il nostro pollice lo mostra chiaramente: in due falangi sole è tutta la possibilità di dialogare con altri sistemi digitali più complessi e articolati, sicuramente più instabili e certamente inutili senza l’intervento di questa semplicità binaria. Ci pacificheremo e riusciremo a vedere la verità non attraverso gli occhi, specchio dell’anima, e quindi come in uno specchio, bensì toccandola, e senza rischiare la cecità da rifrazione, soltanto mentre e quando comprenderemo che la visione del pollice è l’unica condizione possibile di partenza, mentre e quando falange su falange, il nostro pollice sarà in corso di dialettica interiore. Cioè quando e mentre avremo davvero, alla fine delle fini, un’anima opponibile.

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