Non potevamo più
di Paolo Pecere
Nella sala si entrava scendendo per scale strette, e poi schivando costose casse stereo allineate come sassi rituali. Seguendo l’invito del commesso si accomodarono nell’ambiente, racchiuso da una porta di vetro infrangibile. P. vide le pareti rosse e irregolari, ricoperte di quel materiale spugnoso che serve a spegnere e contenere le vibrazioni sonore. C’era un solo divanetto, senza schienale, e all’altra estremità dell’ambiente una fila di amplificatori e casse da collegare. Gli schermi appiattiti sulla parete sembravano pannelli di un tempio, di cui non si leggeva più il messaggio. «La soluzione migliore», disse l’uomo del negozio, «potrebbe essere questa». Sollevò da un angolo un altoparlante piuttosto compatto, sul cui lato si aprivano complesse aperture circolari concentriche. «Non ha la mascherina. Si usa come spia. Ma ha il miglior rapporto qualità-prezzo. Il visore è al plasma, quello al centro».
«L’essenziale è che sia bello», disse S., con una vocina liquida e narcotizzata. P., senza guardarla, pensò che era incredibile, che lei non si rendesse conto di parlare in modo così fasullo. Non la guardava eppure era concentrato sul fantasma di lei, che aveva appena fissato: appollaiata sull’angolo del divanetto, che impietosamente ne faceva spiccare la magrezza da anoressica sul fondo insensato di un groviglio di fili.
«Vi faccio vedere», proseguì impassibile il commesso, ed era ormai chiaro che nessuno stava guardando nessun altro, e che le cose sarebbero andate avanti così per un po’.
La porta si richiuse al terzo ascolto, il commesso raggiunse una coppia di clienti che si stavano ringhiando a bassa voce intorno all’oscurità di un proiettore. P. contemplava la monolitica cassa stilo che diffondeva una musica da lui del tutto ignorata. Gli schermi in fondo erano come creature mute che chiedevano aiuto, offrendogli il piacere di ignorarle, almeno loro. In quel volume di suono intenso, come un muro d’acqua, cercava di distinguere il discorso di S., che continuava come nulla fosse. «Non mangiare, almeno non abbuffarsi», diceva S., alzando la voce per puro entusiasmo. «E astenersi dai rapporti sessuali».
P. giungeva le mani, mentre riprovava quella sensazione inevitabile di sollevamento, intellettuale e morale, al di sopra di lei che si confidava. Un distacco, una asimmetria nauseante, che lo riempiva di solitudine, ma che non poteva evitare. Poteva solo cercare di spremersi per entrare in quel pensiero, sperando che la cosa la incoraggiasse e la avvicinasse a lui, al mondo, a qualcosa cui tenersi stretta. Di quanto era dimagrita, nell’ultimo anno? Quindici, venti chili?
S. faceva scivolare le parole sulla lingua come fossero gioielli estratti da un astuccio di velluto.
«Oltrepassare la carne, non capisci?».
«Ti ho già detto di sì. Solo, mi pare che aggiungi tante cose non necessarie ad altre con cui sono d’accordo. Dici che vuoi avere rapporti sessuali soltanto con una persona amata. Sono d’accordo! Ma che bisogno c’è di aggiungere questi discorsi ascetici. Puoi limitarti a cambiare il tuo comportamento, ma non capisco il valore del sacrificio».
«Il sacrificio, il sacrificio», disse S. come continuando. «Oggi la gente non crede in nulla, ognuno fa quello che gli pare. Io lo so io lo so, ne ho sentiti tanti. Vanno a letto con tutti e poi dicono: “era un grande amore, forse”, ogni volta è un grande amore. Calma! As-pet-ta-re! Nessuno ha il coraggio di farlo.»
«Ma che ne sai che le cose vanno così? Ti assicuro che molta gente prova a capirsi, a stare insieme, si mette in gioco. Descrivi le cose come se tutti fossero ipocriti, solo per rafforzare quello in cui credi tu.»
«Non dico ipocriti, attenzione. Magari non se ne rendono conto».
«Ma chi, scusa!»
«Tutti. O quasi tutti».
«Ah, sì? Puoi darmi una percentuale?»
«Credo che il 60-70% dell’umanità sia così»
«Così come?»
«Ferina».
«E tu da dove esci fuori?»
«Non dico a te. Siamo in pochi».
Sugli schermi l’onda si gonfiò e ricoprì tutto come un lenzuolo morbido. Dalla schiuma affioravano piccole schegge di legno che erano tronchi, piloni, assi, portoni. Nel ribollire sporco dell’acqua, che gradualmente ripuliva la terra, P. si sforzava di distinguere quelle masse marroni e disarticolate che erano i corpi. Un ultimo gesto di disperazione, per aggrapparsi, nella luce sgranata composta sulla superficie delle macchine. Temeva che S. li vedesse, quei simulacri di uomini. Temeva quel che avrebbe pensato, quel che avrebbe trovato confermato, di quei pensieri che la stavano uccidendo. Scottava di pietà per lei, costretta a disprezzare i suoi simili come solo modo di trovare un senso delle cose; e insieme di rabbia per quel suo disprezzo impietoso. “Insegnarle ad amare l’uomo”: non era forse un discorso comicamente spostato, e spinoso, e senza uscita? Una cosa troppo grande e astratta per un problema molto concreto e urgente? Le guance scavate quasi taglienti, le occhiaie che descrivevano il segreto dello scheletro, le gambe dei pantaloni afflosciate sopra gli stivaletti a punta in equilibrio instabile. Perché doveva dar credito alle sue affermazioni malate? Solo per testimoniare tra sé un affetto vero, per lei, quello stesso cui doveva aggrapparsi – espressione della sua capacità di comprensione – per non perdere il controllo delle cose? Tutto questo lo smarriva, sospendeva ogni certezza: e solo così, fatalmente, sullo strapiombo del divano secco che dava sulla stanza disabitata e illuminata dai dieci schermi deturpati da bagliori lividi, sentiva che erano vicini, ancora una volta, per un po’.
«Questo è integralismo.», disse P.
«Ed è bello. Le cose giuste devono restare pure. O vince il corpo o vince l’anima».
«No ho sbagliato parola. È fondamentalismo. Ma nemmeno, perché tu non ti richiami a un testo o ad un’autorità precisa. Che cos’è quest’illuminazione ascetica. La lotta tra anima e corpo. Dove pensi che ti porti? Perché non puoi vedere che le cose, nel mondo sono più complicate, precarie sì, ma sempre in gioco, perfettibili? Lo dice anche la chiesa cui dici di riavvicinarti. Tu non puoi giudicare gli uomini in blocco. È ridicolo..»
«Tu sei un eclettico. Non hai un filo conduttore. Ti va bene tutto. “Vantaggi secondari”, così si chiamano in psicoanalisi. Hai una spiegazione per tutto, tutto si giustifica.»
«Continui a confondere comprensione e giustificazione. Io dico solo che deformi le cose come stanno, per dar più forza alle tue personali idee».
«L’uomo è una bestia, non dico che sia una colpa. Dico solo che voglio affermare l’ideale, vorrei che tutti, invece di disperdersi e raccontarsi storie, potessero essere educati».
«Ma stai parlando con me. Diciamoci le cose come stanno, non è per ridurre quel che dici. Tu stai rinne.. stai riflettendo criticamente sul tuo passato, su quello che hai fatto, in termini di rapporti con gli uomini; trovi una regola, un valore: ma ecco che per affermalo devi dire (perché sei fragile) che tutti hanno sbagliato e sbagliano, come e peggio di te, che tutti devono pensarla come te. O c’è il giusto o c’è il peccato».
«Io ho rinunciato da tanto tempo al sesso, con gli uomini. Non mangiare, astenermi, mi fa stare meglio di tutto. È la vittoria, capisci? Le endorfine si posso produrre anche in altri modi. Ogni volta che non mangio cioccolato, io vinco.»
«Ma sei, sei…»
«Le cose vanno dette come stanno, senza indulgenze. I tentativi di cui parli sono tutte costruzioni: uno si dice che ci sta provando, invece di attenersi a una regola.»
«Un sacramento».
«Certo, perché no? I simboli sono importanti, noi ci nutriamo di simboli. Così si può sanzionare un sentimento vero».
«Ma come fai a capire quale sarà, la persona giusta?»
«Per me non è più un problema. Io l’amore l’ho avuto con te, una volta, e non si può ripetere. In generale: bisogna saper aspettare».
«Le tue idee di purezza (anche se tu non faresti mai certe cose) sono come quelle dei nazisti, del Ku Klux Klan».
«L’anima deve prevalere».
«S.: ripeto che in quello che dici c’è qualcosa che condivido, cui mi sono sempre attenuto, che apprezzo. Ma l’arroganza, ce n’è bisogno? Senti come parli di me. Io non perdono tutto a tutti. Io ho un filo conduttore. E non è vero che “mi voglio divertire”. Le cose mi fanno soffrire come fanno soffrire te. Tu puoi seguire il tuo ideale: ma è come dipingi il mondo, che è sbagliato, forzato. Le cose sono più complicate, aperte. Vorrei che trovassi la forza di sopportare le cose. Te la darei io, in qualche modo, ma devi anche trovarla tu».
«Sei la persona più intelligente che conosco, certamente più di me, amore».
«S.?»
«Il mondo di oggi è senza valori.»
«Ma non è questo, S.. Non così».
«Tu hai paura».
«Tu hai paura».
Lei disse che ci avrebbe pensato e sfilò via dal negozio. Faceva così, era l’unico capriccio che si concedeva. Uscire e andare a provare vestiti, a visionare prodotti. Senza comprare nulla, o quasi. Diceva che era come una cura disintossicante, una diminuzione graduale, un farmaco necessario per uscirne. Parlava sempre di uscire dalle cose, e parlava di una verità in cui era entrata alla fine di un sentiero.
S. era seduta su quella sedia “stilografica” che si era comprata con gli ultimi soldi. Ferma con le mani tra le gambe, le ginocchia unite, i piedi in fuori. Sembrava un mucchio di legni appoggiati l’uno contro l’altro, i capelli sollevati e rinsecchiti un ceppo d’erba secca, in attesa di essere acceso. Avevano discusso ancora. Lui veniva da lei e discutevano e lei gli parlava dei principi, lo chiamava “amore”, e lui si sentiva tanto distante, distaccato da lei che parlava così e non capiva che rapporto fosse, quello. Sullo schermo era cominciato il telegiornale: lo squillo di trombe della sigla inghiottì la vibrazione esausta che seguiva le loro parole strascinate ormai e gonfie. P. stava tremando, sentiva che le energie finivano, sentiva che erano di nuovo in un tunnel sbagliato, diretto al centro esatto del dolore, come quando erano stati insieme, per tanti anni. E lei continuava a parlare di quell’amore come l’ideale, carezzava il piacere dell’espiazione. Nel mondo vedeva solo puttane e re corrotti e disgraziati sofferenti. P. non riusciva più a districare quel suo groviglio di abbagli e impulsi giusti, di violenza cieca e senso di giustizia. «Prova a pensare la trascendenza, a modo tuo», le aveva detto lei dopo aver accettato di mordere un biscotto. «La purezza dei valori senza compromessi. L’intransigenza. Spazzare via l’ipocrisia e la schiavitù del corpo». Era tutto mischiato, nelle sue parole, il motivo giusto e il delirio, la compassione e la furia distruttiva, e se non fosse stata lei forse P. l’avrebbe lasciata perdere da tempo alle sue follie, che molto probabilmente, peraltro, erano fabbricate ad uso e consumo dell’unica persona con cui lei parlava, cioè lui.
Si vedeva un aereo che passava velocemente nel cielo, poi una luce informe che divorava tutto il resto. O forse non era un aereo. La guerra, la nuova guerra. O magari un meteorite. P. non aveva ascoltato le notizie, perso com’era nell’ossessione di quel braccio piatto e rigato di vene blu.
S. pareva tremare, su quella sedia che toccava appena con l’osso sacro. Sembrava inchiodata in un punto, mentre il resto si muoveva in qualche vento.
«Che c’è S.? Che c’è?»
«Hai visto? Ancora».
«Continuerà per sempre, forse», disse lui, per colpirla con una verità tagliente.
«Oh Dio, P. Oh Dio, guarda».
Sullo schermo la luce scompariva nel fumo e riappariva a coprire tutto, non si sentivano urla, non c’era commento. La casa sembrava tremare, forse per il vento fuori.
Allora P. capì che lei non avrebbe potuto sopportarlo. Che l’avrebbe perduta per sempre nelle sue idee che tristi gocciolavano in uno stagno morto, avvelenando tutto. Doveva proteggerla: era questo che voleva lei, che lei aveva voluto fin dall’inizio, dicendolo in mille forme, prima esplicite, poi sempre più cifrate. Inutile perdersi nelle astrazioni. In quel momento occorreva far valere i bisogni primari e cancellare tutto il resto, scoperchiare i propri poveri affetti, racimolati e scaduti, e innalzarli nella luce più alta, a dispetto di tutti i discorsi e le spiegazioni e i dubbi in cui passava il tempo; e in questo istante accaldato, ancora, gli parve che fossero di nuovo uniti nell’accordo. Come sarebbe bello ritrovarsi così, dalla parte della ragione, insieme, e urlarlo senza freni contro questo mondo imperiale e disumano, violento e inesorabile come una pressa, come un deserto spazzato dal vento, in cui sappiamo che saremo sempre sconfitti. Così, prima di capire cosa fosse quella cosa che rompeva la logica dello schermo, P., che per mesi si era impedito di farlo come prima e unica regola di coerenza e prudenza per non fare peggio, la abbracciò, la strinse a sé.
Sentì raccogliersi sotto le dita le sue ossa morbide, affondò in profondità nella pelle e se la incastrò nel petto come una bambina spaventata, nascondendole lo schermo e fissandolo con l’intenzione del coraggio. Strinse. E continuò a stringere, con forza, finché non fu finita, quella catastrofe indistinta, quel conato del mondo sofferente; finché in quel dramma comparve, con ritardo immane: l’uomo – seduto alla scrivania – che cominciò a parlare, e le parole divennero spiegazioni, e le spiegazioni riportavano in gioco i discorsi, i dubbi, la sopportazione, cose che per un attimo anche lui aveva perduto, e solo allora allentò la stretta da quel corpo che si ammollò tra le sue braccia, senza più fiato in bocca.