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Treviana #1: I cani del nulla

di Linnio AccorroniTrevi1.gif

Il quadro più triste del mondo sta a Londra, alla National Gallery e si chiama la Morte di Procri di Piero di Cosimo; in quella piccola tempera, opera di un pittore “molto stratto e vario di fantasia, si conosceva la stranezza del suo cervello ed il cercare che faceva de le cose difficili” (Vasari, Vite), Piero rilegge da artista “stravagante e di capricciosa invenzione” un episodio delle Metamorfosi di Ovidio, quello dell’amore infelice fra Procri e Cefalo, narrato nel libro VII.

Vicenda la cui trama pare riecheggiare anche nel Così fan tutte, confezionato dal diabolico duo Da Ponte-Mozart: una storia di lontananze, di ambigue fedeltà coniugali e di supposti tradimenti, di misunderstanding e di logomachie , di seduzioni e divertissement allusivamente erotici.

Nel quadro di Cosimo, però, niente rococò tramontante o commiati apparentemente felici, come nel congedo mozartiano, ma invece un explicit cupo e tragicissimo: la bellissima Procri, ammazzata da un giavellotto che lei stessa aveva regalato al suo eterno innamorato Cefalo, perché scambiata da lui per una terribile fiera.

Il quadro di Piero ritrae proprio l’in exitu della vicenda: il fauno Cefalo si inginocchia accanto al corpo esanime della sua amata: chiosa Argan, insolitamente liricheggiante, in un manuale che tutti abbiamo letto:

“ancora tiepida e rosea nelle carni morbide, fa pensare a quelle fanciulle che talvolta si ritrovano intatte e come dormienti negli antichi sarcofagi: e si gridava al miracolo. Il fauno appare stupefatto ed atterrito, già oppresso dal peso insostenibile di un lutto che non consente elaborazione alcuna. La scena è ambientata in una marina, alle primissime luci di un’alba estiva, ancora lattiginosa, con scene di vita comune, quasi banali, che tentano di incastonare, all’interno di uno scenario di quotidianità che vuole essere persuasiva, l’eccezionalità tragica della vicenda: cani che sulla battigia giocano, alcune anatre che tentano, con risultati alterni, acrobatiche prove di volo, più in lontananza, navi che partono o approdano. Però, a rubare quasi del tutto la scena alla potente fisicità della giovanetta morta, ancora bellissima e seducente, ed alla malinconica meditazione del fauno, c’è un cane, in primo piano: è Lelapo, il cane che Procri – Tamquam se parua dedisset (come se con se stessa m’avesse fatto un piccolo dono) -, aveva donato a Cefalo, insieme al fatale giavellotto. Lelapo osserva il corpo della sua padrona, con un’aria solenne ed assorta, al contempo antica e modernissima . Si ha quasi l’impressione che solo lui sappia interpretare quella tragedia inscrivendola all’interno di un sia pur consolatorio orizzonte di senso, una dimensione astratta, dove razionalità e fatalità riescono a conciliarsi”.

Leggendo I cani del nulla di Emanuele Trevi ho avuto sempre presente nella memoria, come un riff di prepotente impatto visivo, questo quadro di Piero di Cosimo: forse perché, come recita giustamente il titolo, è un libro sulla magia iniziatica di certi cani, sulla loro “perturbante” sapienza (la bella copertina candisce la fisicità quasi psicotica della cagnetta Gina), forse per il fatto che in quel quadro, come in questo libro, è evidenziata, in una impermanente “eternità d’istante”, la grazia e bellezza di un menage à trois, che sussume le caratteristiche dell’equilibrio perfetto e della necessarietà.

Leggendo questa ispirata operetta morale, si finisce quasi col pensare che l’unione maschio-femmina più cane sia entelechia di una triade perfetta ed armonica, ribadita dal fermo imagine di un altro quadro-consacrazione di “nozze mistiche”: I coniugi Arnolfini.

Debbo altresì confessare che, a più riprese, mentre lo leggevo, ho provato un sentimento di forte irritazione, quasi di stizza, nell’assistere alla celebrazione di questa deriva intimistica, a questa epica del quotidiano e della felicità domestica, l’ebbrezza minimalistica dell’apologia del tinello, per cui tutta l’opera sembra come pervasa dall’ottica agorafobica di chi osserva il mondo da un punto d’osservazione che è, comunque, aprioristicamente ad escludendum.

Che cosa avevano a che fare queste pagine, apparentemente scipite, con il Trevi di Istruzioni per l’uso del lupo e di Musica distante, opere che mi avevano catturato, grazie alla felice eccentricità delle sue scorribande intellettuali, illuminate da una scrittura che esaltava la logica pura del comparativismo, in grado di miscelare, in folgorante sintesi, materiali apparentemente incongrui ed estranei ad ogni logica relazionante, con la consapevolezza che vita e letteratura, vita ed arte fossero un’endiadi inscindibile: la vita spiegata dai libri, i libri spiegati dalla vita.

Dopo qualche giorno,invece, mi sono accorto che le situazioni, le scene, le meditazioni che screziavano il libro e che, in prima istanza, m’avevano irritato, continuavano, con grazia assidua, a dittarmi dentro. Mi si chiariva come la trita quotidianità contenuta in questo libello fosse attigua, soadale a quei splendidi, prosaicissimi versi dell’ultimo Montale:

la verità è nei rosicchiamenti
delle tarme e dei topi
nella polvere ch’esce da cassettoni ammuffiti
e nelle croste dei grana stagionati.

Anche un breve frammento, sempre tratto dalla Vita di Piero di Cosimo del Vasari può assumere nuove inusitate valenze, dopo la lettura del libro di Trevi:

“[Piero di Cosimo] fermavasi talvolta a considerare un muro dove lungamente fosse stato sputato da persone malate, e ne cavava le battaglie de’ cavagli e le più fantastiche città ed i più grandi paesi che si vedesse mai; simil faceva de’ nuvoli de l’aria.”

Da uno sputo sopra un muro, da una deiezione di persone malate, su un muro calcinato e diruto, si possono ‘cavare’ luoghi bellissimi e meravigliosi: fantastiche città, grandi paesi, i nuvoli de l’aria. Ecco, questa capacità di ricreazione e rigenerazione delle cose, di risemantizzazione del reale, a partire dalla materia più degradata e spuria, più quotidiana ed effimera, è forse la più importante “istruzione per l’uso” che fuoriesce dal libro di Trevi.

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