Balada in cü in aria
di Edoardo Zuccato
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
parché l’é ‘na lengua da gent menga fen
ma che mi ta vöri ben
sa pó dì dumâ “mi ta vöri ben”.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
parché vuraria dìtal in tütt i lengui,
anca quej ca semm no
parché mi ta na vöri püssê da quel ca só.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
parché ti te lengiaré dumâ a tradüzión
da tütt ul ben ca pröj par ti –
cumé in dul scrì ho faj an’ mi.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
parché in chela lengua chì parlaremm mai
tra da nön, e i robb ca gh’é in dul fìdigh
sa scultan püssé ben in silenzi.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
par pudé ciamàtt “tusa”
anca se mi e ti gh’emm nagótt d’òl
da spartì cuj truadur e i sò donn.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
parché nön s’emm tucâ dapartütt,
fö’ e dent, e mi sun chì vertu föa
temé ‘l fögh o ‘n libar strasc.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
parché anch i robb gh’é chì tacâ
di volt pâr c’hinn luntàn
e sa capissum mai dul tütt.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
parché sa te capissat dumâ ‘n pu
ul rest te gh’el mettat ti – ul ben
ca pröj l’é grand ma ‘l sta ‘n pê no da par lü.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ,
par ‘végh ‘na porta strencia
(chichinscì, a part i nostar öcc,
vignarà den’ dumâ di öcc liger).
Mô ta disi pü nient
parché ‘na lengua mai straca la gh’é no
ma ‘l ben ca l’ha muü l’é lì
anca quan’ lê la sa fèrma.
Ballata al contrario
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché è una lingua di gente rozza
ma “io ti voglio bene” e “ti amo”
si può dire solo “mi ta vöri ben”.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché vorrei dirtelo in tutte le lingue
comprese quelle che non sappiamo
perché te ne voglio più di quel che so.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché tu leggerai solo la traduzione
di tutto l’amore che provo per te –
come scrivendo ho fatto anch’io.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché in questa lingua non parleremo mai
fra noi, e ciò che ci è più caro
si ascolta meglio in silenzio.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
per poterti chiamare “tusa”
anche se io e te non abbiamo nient’altro
in comune con i trovatori e le loro donne.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché ci siamo toccati dappertutto,
dentro e fuori, e io sono qui spalancato
come il fuoco o un libro logoro.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché anche ciò che è vicino
a volte sembra distante
e noi non ci capiamo mai del tutto.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché capendo solo in parte
il resto ce lo metta tu – l’amore
che sento è grande ma non sta in piedi da solo.
Voglio dirtelo così, proprio in dialetto,
perché la porta sia stretta
(qui, oltre i nostri occhi,
entreranno solo occhi leggeri).
Adesso non ti dico più niente
perché una lingua mai stanca non c’è
ma l’amore che l’ha mossa esiste
anche se lei si ferma.
[tratta da La vita in tram, Marcos y Marcos, 2001.
Il dialetto di questa poesia è l’altomilanese o bosino e, per la precisione, una combinazione dei dialetti di Cassano Magnago e Fagnano Olona. La pronuncia è grossomodo quella del milanese.]
Comments are closed.
questa ballata in realtà non si ferma mai. mi lascia la bocca asciutta mentre la lingua tamburella ancora. l’ho letta tradotta. ma chi l’ha tradotta in realtà l’ha tradita. io da meridionale non l’avrei capita, ma tant’è! la lingua da sola batte ancora per la sua amata…
Mi è piaciuta molto; benchè non sia in grado di parlare milanese lo comprendo e i suoi toni mi entrano nelle orecchie dall’infanzia.
Non capisco perché il termine : “spatasciâ”
sia stato tradotto come” proprio in dialetto”, mi pare che rompa il ritmo, mi pare.
A vöri dìtal inscì, spatasciâ, l’é propri bela!
Sarà quasi una lingua estranea, ma è così musicale… [complimenti alla ricerca/inserimento delle font particolari]
A vöri dìtal inscì, spatasciâ, l’é propri bela!
Sarà quasi una lingua estranea, ma è così musicale… [complimenti alla precisa ricerca/inserimento delle font particolari]
sono contento che sia piaciuta anche ai meridionali… ;-)
per “spatasciâ”: la traduzione è dell’autore, che a quanto ne so punta soprattutto a rendere il senso; una traduzione d’autore non d’autore, insomma… ma proponga, caro bianco, traduzioni alternative sono sempre benvenute.
Ah, le poesie di Zuccato hanno questo ritmo che incanta… è un piacere leggerle e acoltarle anche!
Il reale (anzi la vita) è lì.
La lingua (la lingua scritta in particolare) non lo coglie fino in fondo. Cerca di avvicinarsi, ne assume una parte, un riflesso, ne fa una “traduzione”, ma la traduzione non è l’originale.
Il dialetto sembra più prossimo alla vita, l’italiano più distante, ma vicinanza e distanza non sono del tutto certe; in ogni caso hanno a che fare con chi scrive, chi legge, chi ascolta.
Così “lei” non comprende e non usa il dialetto, deve affidarsi alla traduzione in italiano (una traduzione della traduzione?). Ma anche per “lui” (l’autore) il rapporto con il dialetto non sembra diretto né immediato. Il “tusa” viene tirato in ballo per ragioni letterarie, per via del rimando ai trovatori, non per motivi o nostalgie di altra natura.
Questo rapporto non lineare e non ingenuo con il dialetto potrebbe spiegare anche il testo a fronte, l’adozione di una procedura che pone sullo stesso piano originali e traduzioni di testi in lingue nazionali, o comunque in lingue importanti per numero di parlanti e/o per tradizione letteraria (scritta).
Vicinanza e distanza, di nuovo.
Vicinanza e distanza – in definitiva – come nel rapporto amoroso (nel ritorno al “tema” ci sono spazio e suggestioni e musica per la dimensione lirica, ma la vicenda diventa in qualche misura più prevedibile).
Io mi permetto:
avrei tradotto lo “spatascià” con “spiattellato” oppure con lo stesso “spatasciato”
In Puglia abbiamo invece – quasi omofonia, ma con differente esito, nel senso che vi si introduce una condizione d’azione essendo verbo – ‘spascià’ o ‘spascé’ (nella versione più propriamente portuale o fasanese): rompere, decostruire, destrutturare; generalmente riferito ad azione rapida, neanche minaccia, ma proprio imminenza che ha come oggetto in particolare il deretano o i marroni. Non dissimile da una teoria della poesia del centro o nel centro. Nè senza quella velocità inenarrabile che è il sorpasso di ogni cognizione, ma che è anche l’epifania irragionevole di ogni colpo di talento.
Comunque molto belle le poesie di Edoardo, che saluto seppure in invisibilità d’Internet, in immodulazione della posa, senza insomma un ammiccamento che sia sensibile.
Certo che il rapporto tra dialetto e traduzione in lingua in Zuccato non è a senso unico, è una specie di osmosi, variabile a seconda dei componimenti. Rilevante quanto annotato da Buffoni in Tropicu de Vissevar, la prima raccolta di Zuccato, che personalmente preferisco, se non altro per l’armonia della struttura in cui sono incastonate le singole poesie.
(Per m.z.: Cazzo, dovevo citartelo – Zuccato – a proposito di ‘Poesia alla fermata del tram’ di Desiati, l’altra sera… Questo tram emblema della città e della modernità, e dell’attraversamento sociale, non più solo del viaggio vita-morte come in Caproni, Raboni ecc. Bisognerà riparlarne…)
il libro di edoardo porta in epigrafe “chi a trent’anni prende ancora il tram è un fallito” (m. tatcher).