Preghiera funebre
di Antonio Moresco
… Non lo so, non so neppure io da dove mi sia arrivato questo impulso improvviso. Forse da tutto l’orrore che mi portavo dietro da giorni e giorni, durante quello spaventoso conclave all’interno della Sistina sradicata assieme a tutto il resto dalla sua sede e trasportata fino alla nuova sede di Pietro, a Los Angeles, forse dallo Spirito Santo, chi può dire… Le luci basse, tutta quella massa sterminata e stilizzata di cardinali nella penombra. Torcevo gli occhi, ogni tanto, verso quegli scimmioni nudi dipinti su pareti e soffitto, poi di nuovo verso gli altri vecchi scimmioni nudi ricoperti di paramenti. “Che orrore, che orrore!” mi dicevo, “E’ tutto un enorme corpo marcio, privo di grazia, non potrà esserci mai redenzione per questa orribile cosa marcia che si perpetua. Signore, mio sventurato Signore, come potrà mai essere attraversata dalla luce, da qualsiasi luce, questa spaventosa cancrena? Cosa devo fare? Cosa posso fare? Che contributo posso dare?”
Poi… non lo so… Ho sentito in quello stesso istante che stava risuonando forte il mio nome, il mio povero nome, al termine dell’ultima, estenuante votazione, all’interno di quello spazio spaventoso, in penombra, di quella capsula marcia della storia, dell’arte.
Distinguevo solo le metastasi di quelle teste turrite che si giravano tutte assieme verso di me in quella spaventosa mancanza di luce. Il rimbombo di una voce mi ha domandato qualcosa. Ho balbettato meccanicamente di sì, che accettavo. Mi hanno scaraventato addosso i paramenti papali, pesanti come piombo, dall’alto. Mi hanno chiesto che nome intendevo assumere. “Elvis II!” ho risposto.Ci siamo incamminati lungo tutti quei corridoi, quelle sale, e poi ancora lungo altri corridoi bui, attraversati qua e là da forme felpate, in ombra. Tutta l’enorme cloaca trasmigrata a Los Angeles pullulava di bagliori nel buio. Mi sono affacciato al balcone. Una mano vicino a me ha posizionato meglio il microfono all’altezza della mia bocca. Non sapevo cosa dire. Non avevo in mente niente. Non avevo pensato a niente, camminando fin lì lungo quei corridoi bui col cuore in gola, in tumulto. Eppure, quando ho cominciato a parlare, le parole hanno cominciato a sgorgarmi improvvisamente e come per conto proprio dalle labbra. Non capivo bene cosa stavo dicendo, come se qualcos’altro o qualcun altro stesse parlando attraverso la mia povera bocca, percepivo solo che stavo dichiarando la mia intenzione, come primo gesto compiutamente papale, di sciogliere la Chiesa, dopo duemila anni, che accettavo di farmi strumento di questo tremendo gesto religioso totale, che l’unico gesto possibile di umiltà e di resurrezione era sciogliere finalmente questa orribile cosa.
Ho finito di parlare. C’era un silenzio impietrito, tutt’intorno a me, tra le persone che mi circondavano su quella grande finestra, nella piazza in penombra. Non so ancora come ho fatto ad allontanarmi da lì. Lo sbalordimento è stato tale che sono riuscito a girarmi su me stesso e a imboccare il varco del corridoio, e poi le scale, e ad attraversare altri spazi oscurati e altre strade, e ad arrivare a una delle uscite esterne senza che nessuna delle persone che vedevo confusamente ai lati, impietrite, riuscisse a fare un gesto verso di me. Vedevo soltanto, ai lati del mio corpo ricoperto dai paramenti papali, forme talari bloccate nella penombra e divise quasi catarifrangenti delle guardie, delle mie guardie, dovrei dire, immobili negli angoli come uccelli tropicali paralizzati da un raggio di luce in mezzo al fogliame. “Com’è possibile!” fantasticavo dirigendomi verso l’ultima porta che conduceva fuori, all’esterno, “è bastato pronunciare quelle parole perché ogni cosa si devitalizzasse di colpo, tutto l’enorme baraccone si sgonfiasse come una camera d’aria bucata, diventasse esamine, morto. Ha capito improvvisamente di essere morto, non riesce più a fare un gesto, a muovere un passo…” Eppure, nello stesso tempo, mi sforzavo di non farmi sommergere dalla paura e di non accelerare troppo la velocità dei miei passi, anche se istintivamente avrei voluto mettermi a correre all’impazzata per guadagnare l’uscita, perché tutti quanti là dentro non si riavessero dall’incantesimo in cui erano piombati e, fiutando nel buio la mia paura, il mio terrore, si scagliassero da tutte le parti contro di me per dare inizio al linciaggio.
Ho imboccato finalmente l’ultima delle porte esterne, ho attraversato così, col cuore che martellava, il primo cortile, poi un altro cortile. Ho spinto con le mie stesse mani l’ultimo pesante portone che mi divideva dall’esterno. Sono uscito fuori, di notte, da quella voragine entrata improvvisamente in necrosi. Ho mosso i primi passi fuori da quella bolla sgonfiata, più veloci, più forti, ho cominciato a correre, letteralmente, sempre più forte, all’impazzata, prima che là dentro tutti quei corpi e quelle strutture si risvegliassero improvvisamente dalla catalessi in cui erano piombati e cominciassero improvvisamente, furiosamente, a seguirmi, come una muta di cani, con le lingue fuori, agitando le loro clave ricurve, le protesi digriganti, dorate, per assalirmi da tutte le parti e cancellarmi, sbranarmi.
Infatti, qualche istante dopo, ho avvertito alle mie spalle prima qualcosa come un leggero, gigantesco sospiro, poi uno spaventoso boato, come se all’interno della vescica che lasciavo dietro di me fosse esplosa improvvisamente una bomba. Si dovevano essere nello stesso tempo accese tutte le luci perché, anche se non mi giravo un solo secondo per non rallentare la velocità della mia corsa, capivo che un enorme bagliore si era acceso di colpo alle mie spalle. Scorgevo davanti a me l’ombra del mio corpo proiettata contro l’asfalto racchiuso in quella tenaglia di colonne, e poi di quella grande strada che si apriva, come se si fosse sollevato improvvisamente alle mie spalle un mastodontico incendio. “Si sono ripresi”, mi sono detto, “si sono risvegliati dall’incantesino. I morti si sono svegliati, si stanno già scatenando tutti assieme, alle mie spalle. Cosa succederà adesso, se riusciranno ad acciuffarmi?”
Ho cominciato a correre ancora più forte, mi allontanavo sempre più attraverso le grandi strade di quella città dispiegata, e intanto mi sbarazzavo dei miei paramenti papali, staccavo febbrilmente le file di bottoni, le borchie, le croste. Ho buttato tutto in un bidone delle immondizie, sul marciapiede, ho buttato là dentro anche quelle grandi scarpe bianche smaltate, da donna. Ho ricominciato a correre con le sole calze ai piedi, quel po’ di biancheria che portavo sotto, come un vagabondo qualsiasi, per non farmi riconoscere da lontano dalla muta degli inseguitori, che si sarebbe scatenata di lì a qualche momento. Mi sono allontanato rapidamente dalla zona, senza smettere di correre all’impazzata. Il cuore mi batteva sempre più forte. Tenevo la bocca tutta spalancata per poter respirare. D’un tratto ho sentito, ho avvertito, che una macchina stava scivolando senza fare rumore al mio fianco. “Mi hanno beccato!” mi sono detto, “sarà una di quelle macchine vaste, silenziose, oscurate, dentro le quali viaggiano i morti…” Mi sono girato con gli occhi sbarrati. Invece era solo un’auto della polizia, col lampeggiante acceso sul tetto. Mi hanno intimato di fermarmi. Mi sono fermato. Sono scesi. Ho pensato confusamente che, vedendomi correre a quell’ora, da solo, mi avevano scambiato per qualche balordo che scappava via a piedi dopo una rapina. Sono balzati fuori in due, coi manganelli. Mi hanno buttato contro la macchina, con le mani alzate, le gambe allargate. Mi hanno sferrato un paio di colpi, sulla schiena, le spalle, per mettermi calmo, uno dei due solamente, mentre l’altro stava parlando via radio con la centrale. Non risultava fosse successo niente, in quella zona. Quello che parlava alla radio è tornato verso di me, mi ha sferrato un calcio nei coglioni, dal basso all’alto, da dietro, mentre stavo ancora a gambe larghe contro la macchina, e l’altro mi perquisiva per vedere se avevo armi o magari neve. Sono piombato a terra di colpo, rannicchiato. Hanno continuato a colpirmi a calci. Mi hanno raccolto da terra, uno da una parte l’altro dall’altra. Mi hanno caricato sulla macchina, si sono diretti verso il più vicino posto di polizia. Li sentivo appena parlare di fronte a me, con le loro voci tranquille, impastate dalle birre, dal sonno. “Meglio così!” mi dicevo, “farò perdere le mie tracce!”
Ho passato una notte là dentro, abbandonato sopra una panca. C’era un sacco di gente in giro. Si sono dimenticati di me. Non sono stato neppure interrogato. “E tu che cazzo ci fai qui?” mi ha chiesto uno ad un certo punto, passando. Ho allargato le braccia. Mi hanno buttato fuori. Ma prima quel tipo, vedendomi senza scarpe, mi ha tirato dietro pietosamente un paio di vecchie scarpe da ginnastica puzzolenti che era andato a prendere senza dire una parola in uno spogliatoio. Me le sono infilate, mentre ero già fuori, per strada. Ho stretto al massimo i lacci, perché erano di almeno due numeri più grandi. Mi sono guardato attorno, in quel luogo mai visto, con la biancheria a brandelli per il pestaggio. Mi sono tirato su il mio vecchio ciuffo con una mano. Ho ripreso a camminare, barcollando per i colpi ricevuti, per la notte in bianco, con le mie nuove scarpe.
E’ cominciata così la mia fuga, il mio viaggio. Sono balzato sul primo autobus che ho incontrato per strada, per Pasadena, mi pare… Adesso non sto a raccontare tutto quello che è successo, mentre mi spostavo da una città all’altra, da un paese all’altro, da un continente all’altro, per far perdere le mie tracce, mentre i morti mi braccavano continuamente per acciuffarmi, tutta la loro rete era in fibrillazione. Dovevo cambiare continuamente identità, aspetto, cambiavo continuamente il posto dove mi fermavo a dormire, a mangiare, confuso nei grandi self service sovraffollati, nelle grandi metropoli straripanti di figure e di volti, in mezzo agli ultimi della fila, alle persone dimenticate, ai margini, che possono solo aspettare che arrivi anche per loro l’annuncio. Ho incontrato mille uomini e donne, durante questa mia fuga che non so come finirà. Che mi hanno dato un pasto caldo, un po’ di vestiti, senza chiedere niente in cambio, anche se non avevano niente. Mi hanno abbracciato quando avevo freddo, di notte, in certe stanze non riscaldate, dai vetri rotti. Gente che non ha idea di chi sono, non mi ha chiesto da dove venivo, non sa il mio nome, né io il loro, fino al momento in cui verrà dato l’annuncio. Allora li chiamerò, ad uno ad uno. Mi ricorderò dei loro volti e dei loro nomi, li manderò a cercare ai quattro angoli della terra, e mi inchinerò di fronte a loro e bacerò i loro piedi “Io non sono nulla” gli dirò, “siete voi la Chiesa. Io ho dovuto soltanto fare questo viaggio per potervi incontrare, ad uno ad uno, ho fatto anch’io la mia parte, la mia piccola parte, per quel poco che valgo, per prepararmi e prepararci tutti quanti all’annuncio, qui dentro. Ma se non ci foste stati voi sarei caduto immediatamente nelle mani dei morti che mi stavano dando la caccia.” Quando mi arrivavano così vicino che sentivo il loro fetido fiato sulle spalle, e dovevo scappare di notte, attraverso piccole finestre sfondate, in quelle grandi città sconosciute, e una mano mi sosteneva di colpo per non farmi cadere, mentre scappavo sulle tegole sconnesse dei tetti e vedevo vertiginosamente dall’alto immagini di città che credevo esistessero soltanto nei sogni che fa la mente, tutta quella filigrana in movimento di corpi nell’atmosfera. Dovevo fare anch’io la mia parte per poterci sbarazzare di questa spaventosa cancrena e poter ricominciare a sentire la voce indifesa e potente dell’annuncio. Una mano mi consegnava a un’altra mano, entravo sempre più nella trama vivente dell’annuncio, mentre fuggivo disperatamente attraverso questo pianeta, mille diverse città appena intraviste dall’alto, scavalcando le acque che separano i continenti, imbarcandomi sulle navi come uomo di fatica. Pulivo i cessi, spazzavo via le chiazze di vomito sopra i ponti. Nelle grandi metropoli costiere delle Americhe, dell’Asia, dell’Australia, con le sue immense pianure dove corrono a balzi quei loro grandi animali focomelici, nelle sterminate vie delle grandi città dell’ovest, dell’est, in una vecchia casa di legno della Siberia, di Mosca, senza passaporti, permessi, nascosto da persone pietose in un appartamento sovraffollato all’interno di uno di quegli enormi condomini imperiali diroccati e pieni di archi, su per quelle trombe di scale dalle piastrelle spaccate e le scale mobili delle metropolitane che sprofondano a velocità vertiginosa nelle viscere della terra, illuminate da luci fioche che sembrano di torciere, cercando di non venire fermato senza documenti in una di quelle stazioni sotterranee piene di colonne e di lampadari e mosaici come navate di enormi cattedrali inghiottite, in quella babele di strade e di case affastellate le une sopra le altre e sempre sul punto di sbriciolarsi. Lavorando nei sottoscala, di notte. Prima di ripartire improvvisamente per altre destinazioni, non appena avevo l’impressione di cogliere attorno a me sguardi indagatori, cenni d’intesa. Qualcuno col cappello pubblicitario calato sugli occhi che girava nella mia zona, faceva delle strane domande nei fast food. E non c’era niente di certo, non c’era progetto, eppure un’altra porta si apriva inaspettatamente di fronte a me, la mia fuga riprendeva, continuavo a portare con me il mio povero corpo e il mio sconosciuto potere, da quando avevo dato anch’io il mio piccolo annuncio all’interno dell’altro annuncio infinitamente più grande, per non venire ghermito di nuovo dal sacerdozio dei morti, e non farmi riportare là inebetito dai sedativi, dove tutta questa storia aveva avuto inizio. Anzi, prima ancora, sotto quella grande volta sulla quale danzano grandi scimmie nude, per farmi pronunciare parole d’abiura, per cancellare lo scandalo di quelle prime parole che mi erano affiorate alle labbra. Cosa succederà allora a me stesso, a tutti quanti, qui dentro, se dovessero riuscire alla fine a catturarmi? Mi afferreranno dalle due parti mentre uscirò vestito da sguattero da qualche piccola porta, su un retro. Mi getteranno di peso in un’auto scura, bombata, dai finestrini oscurati. Una mano vicino al posto di guida inserirà un cd di musica sacra, alzerà il volume al massimo, mentre le ruote cominceranno a girare sotto di me, nel silenzio, nel buio. Tutto l’interno sigillato dell’auto vibrerà per le note dell’organo, e fuori non si sentirà nulla di quanto starà avvenendo all’interno, assolutamente nulla, tutta la capsula sacra si sposterà nelle città addormentate, passando di tanto in tanto vicino a figure sbandate che girano in piena notte lungo quelle vaste strade, uomini delle bande che tornano a casa armati fino ai denti, con gli occhi imbambolati, drogati.
Passerò di mano in mano durante il resto del viaggio, mi sposteranno narcotizzato da un’auto all’altra, sugli aerei privati che si levano senza interruzione nella notte, da certe piste segrete segnate dai fuochi. Avvertirò appena di essere all’interno di qualcosa di sigillato da tutte le parti che si sposta attraverso l’aria nera del mondo. E poi le ruote del carrello che sbattono con violenza contro la pista, prima una e poi l’altra. Mi spingeranno a forza su un’altra auto oscurata, capirò a un certo punto dal rumore pneumatico che avvolgerà l’auto, ad ondate, che il guidatore si è infilato dentro le serie di porte che portano all’interno di quella grande caverna sacra da cui ero fuggito subito dopo avere dato l’annuncio. Si lancerà là dentro a velocità pazzesca, crescente, infilando una dopo l’altra la successione di portoni, cortili, e poi altre volte e altri cortili, e poi altre superfici inerpicate, inclinate, come se non si fermasse neppure dove iniziano quelle cascate di marmo delle prime scale ma continuasse irresistibilmente ad andare anche sopra quelle, salendo lungo sempre nuove scalinate morbide, buie, e poi infilando grandi corridoi e grandi sale affrescate nella penombra, tra il brusio di quelle maschere sacerdotali acquattate con gli occhi chiusi nel buio. Mi scaraventeranno fuori dall’auto, mi solleveranno da terra, mi trascineranno così per altri corridoi e altri scaloni, fino alla caverna ascensionale della Sistina. Mi getteranno in mezzo alla massa dei cardinali raccolti ad anello attorno al mio corpo ricoperto di poveri abiti secolari raccattati qua e là durante la mia fuga nel mondo, riuniti permanentemente in conclave dal giorno della mia elezione al soglio di Pietro, in attesa che venissi riacciuffato e riportato là dentro, per riprendere la trama millenaria dal punto esatto in cui io l’avevo stracciata. Non diranno niente, non pronunceranno parole, anatemi, vedrò solo levarsi nell’assoluto silenzio, nella penombra, le loro clave liturgiche, mentre cominceranno a bastonarmi furiosamente da tutte le parti, a massacrarmi. Vedrò appena i loro volti congestionati incombere sopra di me con le labbra serrate, il movimento delle loro bocche di grandi scimmie infuriate ricoperte di paramenti. Sentirò i colpi sempre più violenti sulla mia testa, sulle tempie, sugli occhi, mentre tutto si confonderà attorno a me sotto il movimento convulso di quel pestaggio visto dal basso, contro lo sfondo lontano di quelle grandi scimmie nude nel giorno del giudizio, attorno a un’altra mastodontica scimmia con la mano levata, incazzata. “Oh, Signore” pregherò con quel poco che mi sarà rimasto della mia povera mente, del mio cuore sfondato sempre più dalle costole scardinate per la furia di quello spaventoso linciaggio, “oh, Signore, cosa sta succedendo? Il cerchio si sta chiudendo o si sta aprendo? Cosa stanno facendo attorno a me questi organismi biologici disperati ricoperti di paramenti? Che cosa è successo nella poltiglia della materia creata perché si formassero infine queste poltiglie viventi ricoperte di paramenti? E io da chi sono stato ispirato? Chi sono? Da che parte sono? Io non so nulla, non so neppure se mi hai abbandonato o non mi hai abbandonato. Io non ho neppure la consolazione di sapere che tu mi hai abbandonato!” E intanto arriveranno altri colpi, altri ancora, sentirò le povere ossa della mia testa sfondarsi rapidamente da tutte le parti. La poltiglia della mia povera mente cesserà di soffrire. Rimarrò a terra sfracellato, con le ossa spezzate, in mezzo alla massa stilizzata dei cardinali. Continueranno il conclave con i volti ancora imbrattati degli schizzi di sangue, contro il taglio delle bocche serrate, sulle rughe dei volti. Eleggeranno rapidamente il nuovo papa. Lo vestiranno. Percorrerà anche lui gli stessi corridoi e le stesse scale, uscirà anche lui sul balcone col volto ancora imbrattato di sangue, mentre tutti giù in basso, sulla piazza, saranno ancora con le teste levate, col cuore in gola, in attesa nel tempo immobilizzato dall’istante, o addirittura dall’istante prima, del mio annuncio sullo stesso balcone… Che cosa succederà a questo punto? Che cosa dirà il nuovo papa? Tirerà diritto come se niente fosse, come se le mie parole non fossero state neppure pronunciate e neppure immaginate, facendo ripartire di nuovo tutto questo ciclo spaventoso che continua a ruotare, oppure si arresterà anche lui all’improvviso, mentre tutti attorno a lui aspetteranno senza fiatare. E poi magari anche lui, senza sapere perché, senza averci neppure lontanamente pensato un istante prima, non potrà trattenersi dal pronunciare, con la sua decrepita bocca ancora imbrattata del mio sangue, le stesse parole che avevo irresistibilmente pronunciato anch’io allo stesso punto, affacciandomi a quello stesso balcone. E allora, un istante dopo, ci sarà di nuovo quello spaventoso silenzio. E anche lui si girerà su se stesso, attraverserà a sua volta quei corridoi immensi e quegli scaloni, passando accanto a quelle maschere insanguinate, impietrite, trattenendo l’istinto di mettersi a correre all’impazzata per non svegliarle dal loro sonno. Raggiungerà così i portoni esterni, scavalcherà anche l’ultimo portone, balzerà fuori così, nella notte. Comincerà a correre a perdifiato, all’aperto, nella bolla dell’aria, nelle strade. Si strapperà di dosso correndo gli abiti papali, quelle scarpe da donna. Vedrà accendersi improvvisamente alle proprie spalle tutto il braciere dell’immane caverna da cui è appena uscito. Comincerà a sua volta a fuggire attraverso il mondo, e quegli altri a inseguirlo con le lingue fuori, a braccarlo…
(Brano tratto da Canti del caos, seconda parte, Rizzoli, 2003)
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Qui bisogna mettersi d’accordo: stavo copiando questo pezzo a mano, una fatica bestia… E’ la seconda volta che accade in pochi giorni. Per Pasqua volevo pubblicare una poesia da PASQUE di Zanzotto, l’ha pubblicata Mozzi. Tutto ruota attorno al fatto che odio copiare, mi gira la testa, sto male a copiare. C’è necessità di mettere in linea un deposito di testi attingibili, contemporanei, significativi, disposti per qualunque evento, per qualunque celebrazione. Faremo una biblioteca occasionale permanente. Parleremo di ogni possibilità che possa verificarsi, di ogni scadenza verificatasi. Questa sarà la nostra fantascienza: quando accadrà, avremo testi a disposizione. Saremo additati come matti, perché avremo esaurito il prevedibile, ci saremo lanciati in ciò che esorbita dal prevedibile e dalla storia. Ci dedicheremo a una futurologia indistinguibile dalla storiografia umana. Meglio comunque così, Carla: mi hai risparmiato un’ora di copiatura e un Aulin! :-)
Caro Giuseppe, per me leggere Canti del Caos 1 e 2 è stata un’esperienza pazzesca e grandiosa. Non negando che il pezzo riportato da Carla abbia una sua attualità, domando: ma perché prospetti la necessità di crearsi le condizioni per mettere una didascalia a tutto? O forse scherzavi? O eravamo su di un crinale ambiguo? Oppure sono io che sclero perché devo mettere la sveglia a ore assurde e poi, prima di attaccare i miei lavori infami, “mi collego un momento”?
In generale i libri sono più belli di carta, uno se li legge a letto.
Quanto segue invece è riferito a tutti. Ma qualcuno di voi ha vissuto nelle favelas del Brasile? Ha attraversato la Spagna a piedi? E’ stato in galera in Ucraina? Anche tu, Benedetti, hai nettamente una marcia in più, penso sia il caso di concretizzare!
Oggi ci sono le elezioni, speriamo che il Polo faccia un bagno clamoroso. Ciao a tutti
Non era un rilievo né comico né ambiguo, quello che facevo, Anna. Era un’interpretazione del grandissimo brano di Moresco, uno dei punti più alti, secondo me, dei secondi CANTI. Ora, cosa fa Moresco? Cosa fa per me (“secondo me”, ma anche “a mio vantaggio”)? Fa questo: tenta di esaurire il reale. Quale reale? La storia. Non è un riduzionista, Moresco, ma non è neppure un trascendentalista ingenuo. Oltre la storia c’è qualcosa? C’è un immaginario non storico. Quando, nei secondi CANTI, la storia del mondo si scopre che è mossa da una cyclette su cui pedala un monarca negro in kinte, questa allegoria che sfiora l’assurdo (e non è assurda) spiega molto di quanto la letteratura può fare. Essa, come sempre, può concretizzare, dare corpo all’immaginale, che è storico (l’abbiamo immaginato) e non lo è (è di altra natura rispetto al tempo storico). Quest’opera non postula alcun Dio, se non di appoggio, così come non postulerebbe parole, se non di appoggio. Il latte sarà pure latte, ma non è il latte: non è l’esperienza che compi bevendo il latte, la sua timida dolcezza zuccherina e il suo ammantante consistere tra ilngua e palato non sono descrivibili. Il corpo però è simbolico, anche, oltre che storico. Ciò che non arrivo a dire del corpo, non arrivo a dire nemmeno di quel simbolico che è immaginale. Tento di strappare brandelli, esplodo, voglio tutto abbracciare, non ci riesco.
Il delirio sul repertorio didascalico era dunque un invito a superare l’idea che la letteratura possa semplicemente appoggiarsi alla storia. Questo invito è formulato a beneficio di chi, nel liquido mediatico e ideologico che esalta il presente, nuota senza sapere di nuotare. Il problema di non accorgersi che si sta in un amnio immaginale è quello che, mi pare, Moresco affronta per spaccature: è come un pesce che, a un dato punto, sapendo che c’è fuori dell’acqua un regno irrespirabile e invivibile in cui altri esseri alieni stanno, inizia a rompere la superficie delle acque. Contesto il primato della categoria di “visione” in Moresco, la sua scrittura mi pare invece supersensoria. Nella vicenda (non storia!) di Elvis II c’è questa potenza di allargargamento dei polmoni, come volessero tornare a respirare altre quantità d’aria rispetto a quelle che la compressione fisica li costringeva ad assumere.
Il pezzo su Elvis II è, secondo me, la cosa più importante da leggere in questo momento. Ogni ambiguità dirompe, non risolta. Ci fa stare nella pura ambiguità. Non è la messa in scena di un semplice abbattimento delle istituzioni. E’ un punto allegorico perché passato bimillenario e presente e futuro sconcertante convergono. E’ il “mèllei”, lo stare per, lo spalancamente delle potenze in quanto possibilità e il momento in cui, con grazia, si sceglie una possibilità e molte altre ne derivano.
Yeah! Concordo. Però penso che non si dovrebbe mettere on line il finale di un libro così potente…
Non è il finale.