Vomitorium (6)
di Gianni Biondillo e Se Stesso (con l’apparizione del fantasma di Antonio Moresco)
GIANNI BIONDILLO
Dio, che mal di testa…
ME STESSO
Che c’è? Sei ubriaco?
G.B.
Sì, credo di sì. Parlo con me stesso, quindi è chiaro che sono ubriaco. Sarà la birra virtuale…
M.S.
A cosa pensi?
G.B.
Che ho sbagliato tutto.
M.S.
No, non è vero, hai fatto un percorso. Spesso le conclusioni, da sole, senza conoscere la strada fatta perdono di intensità, non trovi? Hai messo in mostra le viscere, anche le parti puzzolenti di te. Ora pulisci il pesce e cuocilo.
G.B.
Cambia metafora che mi viene da vomitare.
M.S.
Va bene, d’accordo. Tanto per rimanere in tema: cosa vedi nell’immagine qua sopra?
G.B.
Quale, quella che ci accompagna tutte le volte? Vedo un uomo che vomita in un lavandino…
M.S.
Ecco. Ecco l’errore. Hai voluto vedere questo e perciò hai visto questo. In realtà è un pittogramma che rappresenta una fontanella, in una Università americana. In pratica l’omino non vomita nel vaso della cultura. Ma ci si abbevera. Capisci cosa intendo?
G.B.
No.
M.S.
Sai cosa penso delle tue classificazioni poste in essere nel tuo primo commento? Che non sono nulla, che non portano da nessuna parte.
G.B.
L’ho già detto io, se mi permetti.
M.S.
Sì, ma occorre ribadirlo. Anche solo parlarne devia inevitabilmente la corretta interpretazione dei problemi. Astrae, disincarna, perde di mordente, ragionare così, categorizzando.
G.B.
Be’, dai lo fanno tutti. Tutti abbiamo in testa schemi interpretativi che ci aiutano a discernere. Vogliamo parlare dell’infinita questione sul genere ad esempio? Insomma… anche Tiziano, in fondo con il suo discorso sui padri, i padristi…
M.S.
Che fai? Guardi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello? Ci ricaschi? La consideri sempre una lotta? Cerchi di vedere chi ne esce vincitore? Non è una sfida, lo intendi? Lo è solo con te stesso. Tutti hanno schemi interpretativi in testa, è vero. Ma la differenza sta nel superarli, non trovi? Non basta, anzi, non occorre difendere un territorio. Neppure una posizione. Questa è già una incarnazione di potenza. Bisogna superarla.
ANTONIO MORESCO
…una postura preconcetta ossificata…
G.B.
Chi è? Chi sta parlando?
M.S.
È il fantasma di Antonio Moresco.
G.B.
Ok, è definitivo. Sono completamente sbronzo.
M.S.
O forse stai sognando…
A.M.
Non è la prima volta che la critica del nostro paese non riesce, non può o non vuole incontrare ciò che vive sotto il suo naso e anzi lo allontana da sé attraverso posture moralistiche o culturalistiche o storicistiche o sociologiche o di altro tipo. Persino Croce non andava più in là di Carducci, neppure Pascoli gli andava bene, per non parlare di Rimbaud e compagnia bella.
Mi piacerebbe confrontarmi con te, ma come fare se tu agiti genericamente criminalizzazioni moralistiche e insiemistiche buone per tutti gli usi invece che confrontarti veramente e radicalmente con quanto sta succedendo in questi anni e con le opere e le vite di chi le mette al mondo?
G.B.
Sai, ho ammantato di sociologia d’accatto una cosa che ha a che fare più con me stesso, con la psicologia, forse. In questi miei dialoghetti ho voluto interpretare la figura del “cretino utile”.
Pronto ad accettare tutto, ogni ignobile commento. Ciò che mi sono chiesto è, zavattinianamente, “La veritàaaa”. Se avessi avuto più coraggio avrei parlato una verifica (dei poteri?) soprattutto con me stesso.
M.S.
Cioè con me.
G.B.
Non so se ti ricordi quel pezzo strepitoso sul gossip editoriale di Giuseppe Genna. Forse alcuni avranno pensato che quello fosse un gioco. So che non lo era.
Lo so perché io per primo mi sono trovato coinvolto in serate di questo tenore. Dove si parlava di tutto e di tutti. Bene e male. Io per primo berciavo, non mi tiro indietro, non mi nascondo. All’inizio, con un certo gusto da neofita, ciucciavo ogni singola frase, ogni sottinteso, ogni maldicenza, quasi beandomi, cullandomi di “farne parte”. Mi ha svegliato dal torpore, fortunatamente molto presto lo ammetto, Benedetta, in una serata dove il suo silenzio rimbombava nelle mie orecchie. Tornando a casa, sul filobus, le ho chiesto la ragione del suo mutismo.
“Sono stata zitta perché non avevo niente da dire. Sono anni che assito a queste rappresentazioni. Sono maschere, che nascondono qualcos’altro, che a me, oggi, non interessa.”
Ecco una lezione, mi sono detto. Attento, Gianni, fai molta attenzione. Nessuno è scevro da colpe, nessuno è mai veramente puro. Cosa stiamo facendo veramente? Che recita stiamo rappresentando?
M.S.
Ma perché, vuoi farmi credere che tutto ciò non accade in una serata fra muratori, o geologi, o architetti? Che in una pizza fra amici d’ufficio, fra informatici, non ci si accoltelli continuamente? O fra segretarie d’azienda? Cosa pretendevi, l’ascetismo? Perché confondi la cultura con le persone? La cultura è un vaso. O ti ci abbeveri o ci vomiti dentro. Sei tu che fai la differenza.
Hai spostato l’attenzione sulle persone e non sulle opere. Non hai nessun dovere di andarci a cena, o di farci una vacanza assieme. Questo è culto della personalità, non porta da nessuna parte. Uno scrittore può essere simpatico come stronzo. Arrogante, livoroso, invidioso, egocentrico, ma anche gentile, simpatico, cordiale, modesto… tutto ciò non cambia assolutamente nulla, lo intendi?
Che cosa cambia in te sapere se Proust era un ipocondriaco, o Kafka uno squilibrato… che ce ne frega sapere della antipatia di Tolstoj nei confronti di Dostoevskij? Quello che a te deve interessare sono i libri, le opere, i risultati, le scoperte, lo slancio… ti ricordi il discorso di Sergio?
Tutta la critica che vedo nei confronti degli scrittori in genere è tutta basata su questo equivoco, mi pare. Nell’aver trasformato gli autori in personaggi, come direbbe Helena.
G.B.
Non capisco, cosa vuoi dire?
M.S.
Ma non lo vedi? Appena un intellettuale dice qualcosa che sta sul piano delle idee, dei comportamenti, che cerca di scalfire lo status quo, viene travolto, sistematicamente, da critiche che sono avulse dal suo discorso. Tutto, sempre, si risolve in luoghi comuni. Tale odia tal altro. Lo scrittore A odia lo scrittore B perché pubblica con l’editore C. Ma cosa parla a fare il critico D se poi è integratissimo nel sistema, dato che pubblica sulla rivista E? Chi se ne frega delle parole del libro di F? Non lo leggerò mai. È andato in tv!
A.M.
Di cosa si può discutere se tu vedi gli scrittori di questi anni come una banda di piccoli vanesi unicamente vittime dei meccanismi spettacolarizzanti descritti come invincibili e totalizzanti? Se riduci l’amicizia e la comune passione che si può stabilire -oggi come nel passato- tra persone che condividono nella loro breve vita comuni aspirazioni e passioni a mero consociativismo e spirito di bassa congrega? Se banalizzi e ridicolizzi esperienze personali di dolore e di resistenza con battute estemporanee e cabarettistiche? Se di fronte al bisogno di “aprire” la realtà di questi anni (che non si presenta più come negli anni Cinquanta) per renderla ancora leggibile ed eloquente e abrasiva mediante un contromovimento artistico, spirituale e di conoscenza ci vedi solo ipertrofia linguistica?
G.B.
Gesù mio, quando questo fantasma parla mi fa paura! Ha una voce così profonda… eppure io di persona lo conosco, Antonio. E’ una persona garbata, timida. Con una voce quasi flebile.
M.S.
Ti ricordi la voce di Pasolini? Così a modo, con quella graziosa inflessione bolognese mai sopita negli anni vissuti in giro per il mondo… tutto ciò può apparire interessante, ma non lo è. Quello che conta, alla fine è quello che ha scritto.
G.B.
Eppure no, non sono d’accordo. Non completamente. Pasolini era uno che metteva in atto, in gioco tutto se stesso, corpo compreso. Si buttava nella mischia, lo dichiarava di continuo. Voleva essere esemplare. Sai che ti dico? In questo senso forse dovrei ribaltare tutto quello che ho detto fin ora.
Tutto.
Alla fine proprio chi ha un mestiere altro, chi come me fa l’architetto, o come Sandro il chimico, è quello che non si mette veramente in gioco. Abbiamo il paracadute, in fondo.
Ma se penso ad intelligenze vive, giovani, piene di entusiasmo, come quelle di Roberto Saviano o di Piero Sorrentino, che vivono in una città ostile quasi, se penso a loro, che sanno benissimo che a scrivere non ci si guadagna niente, che non c’è futuro, se penso a un altro ragazzo, a Mario Desiati che a Roma vive barcamenandosi, eppure non perde l’entusiasmo in quello che fa… Insomma, non sono cretini, hanno chiarissimo in mente che si prospetta loro un futuro terribile, fatto di invidie, di rosicamenti, fatto, come dice Raul (un signore di 46 anni, ormai) di furti al supermercato, perché non c’è trippa per gatti… e per cosa poi? Per un riconoscimento minimo, inesistente, per una cosa, come dice Franz, che non interessa a nessuno…. Ma insomma, ma chi glielo fa fare?
Ti faccio un esempio: a fine mese uscirà l’edizione superpocket del mio primo romanzo. Sai quanto ci guadagno? Nove, dico nove, centesimi a copia.
M.S.
Così poco? Mi sa che ti hanno imbrogliato!
G.B.
Non ha importanza. Anzi ne ha molta… Alla fine, per me, è tutto un regalo… ma non credi che scrittori come Tiziano, Antonello o Giuseppe, che persino i detrattori considerano, a malincuore, delle teste pensanti, non credi che, alla fine, avrebbero potuto cambiare registro, convertirsi in qualcosa di più lucroso?
E poi: perché tutto deve risolversi a quanto guadagno? Che se guadagno poco sono uno scrittore frustrato e se guadagno molto sono un venduto?
M.S.
Mi hai fatto venire in mente le parole di Franz, che ho letto tempo fa in un commento, te le riporto: “Un uomo o una donna di quarant’anni che fa un lavoro intellettuale seppure sottopagato a mio avviso non è mai un fallito. Dirò di più: i falliti non esistono se non nell’autoconvincimento del singolo che tale si sente. Comprensibile da un punto di vista umano, certo. Ma parlare di fallimento presuppone l’ottenimento di un traguardo tramite una “performance”. Un intellettuale non ha traguardi. O accetta con stoicismo questa precarietà proprio fisiologica o, per quello che penso io, può tentare di fare il manager assaltatore di successi, se ha le conoscenze. O l’impiegato “a libri” se non le ha, o ne ha di minor peso.”
G.B.
Ecco, appunto… Perché non pensare che esita un entusiasmo vero, un talento, come dice Sergio, una missione, un voler esserci come spirito critico, un voler dare disinteressato, che si disinteressi in prima istanza del mercato per il mercato, che cerchi nelle amicizie, nelle frequentazioni letterarie non la conventicola, non il gruppetto di potere (ma quale potere, siamo seri!) ma la voglia di confrontarsi autentica, tutta sul piano delle idee?
A.M.
Questa Nazione Indiana… senza vincoli di poetica e di altra natura, gelosi ciascuno della propria libertà e indipendenza eppure capaci, quando occorre e ne abbiamo il desiderio, di cavalcare insieme. Incontrarsi, allontanarsi, perdersi di vista, persino, incontrarsi ancora, seguire ognuno le proprie strade, senza lasciarci logorare nel tentativo di ricomporre e moderare le diversità tra di noi, nello sforzo di mediazione che caratterizza anche i gruppi e le tristi consorterie letterarie di piccolo potere che ogni tanto nascono qua e là nello spazio e nel tempo, ma con qualcosa di indefinibile e libero che ci unisce e che ha fatto sì che ci siamo potuti incontrare, allargandoci moltiplicatoriamente verso l’esterno ma senza perdere la nostra libertà e il nostro peso specifico e baricentro, in questo grande vuoto ed enorme spazio che ci circonda…
M.S.
Ehi, ma io queste cose le ho già sentite! È il primo articolo pubblicato su Nazione Indiana, più di due anni fa. Ma così non si va avanti. Così si torna indietro.
G.B.
No. No. Qui ti sbagli. Non sto tornando indietro. Io sto ricominciando!
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Vabbè, per questa volta ti lascio stare e non ti rompo il giocattolino. Ma solo perché sono buono.
Ehi, Barbieri, vieni qua, è tutto tuo. Te lo lascio. Prepara il turibolo.
Ottima sintesi, Gianni. Per quanto mi riguarda, non trovo detestabili le tassonomie per il loro livello di astrazione; in fondo ogni ragionamento necessita di generalizzazioni. Non mi piacciono solo le classificazioni che nascondono una
“classifica”, una gerarchia più o meno esplicita. Sono poi d’accordo con te sul fatto che i c.d. scrittori anomali godano del privilegio del “paracadute”, che li pone al riparo dalle rovinose conseguenze di un eventuale insuccesso; e che invece gli “scrittori veri” rischino di più, si mettano più in gioco; però alla fine il destino di entrambi è fallimentare, e negarlo suona un po’ patetico. Il discorso di Franz non mi convince perché mi sembra autoassolutorio (“fallito è solo chi si sente tale”). Io penso che chi, come noi, si occupa di libri, in modo professionale o dilettantistico, sia un perdente. Dedica tempo ed energie ad una passione che, nella stragrande maggioranza dei casi, sarà priva di sbocchi, qualcosa che gli procurerà inevitabilmente frustrazioni e angoscia. Chi ama la cultura in questo paese non può non essere consapevole di appartenere a una comunità statisticamente irrilevante, pressoché anonima e ininfluente; gente che sa rendere sanguinoso ogni minimo screzio. Persone che non guadagnano un cazzo e contano ancora meno, la cui unica speranza consiste nel confidare che il tempo o i posteri sapranno rendere giustizia di un talento tutto da dimostrare. Franz faceva riferimento ai
“sottopagati”, ma c’è di peggio: esiste anche un’enorme schiera di “volontari”, quelli che non percepiscono neppure un compenso simbolico. Per tacere della categoria dei ghost writer di cui parlava Lagioia, cioè di quelli che sono sì retribuiti, però gli viene sottratta la paternità dei loro scritti, gli si impedisce di avere un nome, di esistere. Insomma, un panorama talmente desolante da autorizzare il disprezzo o la commiserazione della gente comune, dei non lettori, che ci considerano “a ragione” dei falliti, persone vocate, predestinate all’insuccesso. L’unica cosa che contesto è che il fallito non sappia stare al mondo, non sappia vivere. L’insuccesso è la più alta e nobile espressione umana; ogni società – parafrasando Mérot – ha il dovere di avere dei falliti, il fallito è il principio che la legittima. E poi, come diceva il Manga, c’è qualcosa di volgare, di odioso, di prevaricante nell’ “aver ragione”. “Ha ragione” chi vince il campionato, chi governa, chi sa stare al mondo. Ma vivere non significa aver ragione, significa avere torto (ho ragione?).
Prima di Lagioia, Chico Buarque aveva scritto un romanzo che parlava fra l’altro di un ghost writer. E’ uscito parecchi anni fa in Brasile, Feltrinelli lo ha tradotto quest’anno (è Budapest, ovviamente). Molto meno apodittico del Lagioia, pieno di musicalità naturale – e non c’entra niente il fatto che Chico suoni e canti -più ricco, molto più ricco di sfumature.
Per chi si occupa di cultura in Italia, la vita è dura più o meno come per chi si occupa di brokeraggio o promozione finanziaria, direi.
L’intervistatore all’intervistato: “Ecco il nocciolo di uranio, eccolo! Garufi, mi sei stato utilissimo.”
L’intervistato all’intervistatore (e vicino di tavolo): “Ottima sintesi, Gianni!”.
Ma noi non sapremo mai se tra i libri che più Garufi ama leggere, ovvero quelli in cui meno si riconosce e che suscitano in lui la stessa sensazione di ribrezzo [sic!] ed estraneità di quando ascolta la propria stessa voce registrata o si contempla estasiato nella webcam, ci siano davvero anche i libri di Biondillo:-/
Biondillo, comunque, vende parecchio (seconda edizione, già? Di più ancora?), quindi fattùra ed è meritevole per ciò di ogni lode.
Choukhadarian, ma tu pensi sempre al denaro, c’hai proprio gli ‘Euro’ negli occhi! Non era questo il punto. Il punto era sviscerare a fondo il problema di come possa la letteratura/editoria far irruzione nella vita di un tranquillo architetto di Quarto Oggiaro, o anche, se si preferisce, di come un tranquillo architetto di Quarto Oggiaro possa fare irruzione nella letteratura/editoria.
A che pro QUANTIFICARE i danni?:-)
Off Topic
Angelini, renditi utile, dimmi se alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna possono partecipare anche i non addetti ai lavori e se sì quando?
No. Se sono insegnanti, invece, sì, presentando un documento da cui la qualifica risulti. La fiera è dal 14 al 17. Se mi mandi il tuo indirizzo privato email ti informerò di altre possibili vie:-/
La cosa più curiosa è che non sono ammessi i ragazzi, nemmeno se sono figli di autori o di editori. Cossa te par?
Caro Lucio/HCA, non sono io che penso soltanto i soldi: è che vivo ancora in questo mondo qui, dove, a parte i soldi, ci resta forse il campionato di calcio (che, non essendo io il Piperno, non è di mio interesse).
Sulla questione dell’architetto di Quarto Oggiaro che si trova la letteratura-editoria in casa, mi pare ci siano bibliografie sterminate; e a me interessano i testi, non gli architetti, come peraltro sai.
Sergio, forse hai ragione tu. In effetti mi assolvevo, in quell’intervento. Ma dunque, se siamo tutti dei perdenti o dei falliti comunque vada, chi sono i vincenti?
Perchè se è vero che ci sono i perdenti, ci devono anche essere dei vincenti. Se esiste una partita, qualcuno la deve pur vincere. O non vince nessuno? A un certo punto scrivi: “Insomma, un panorama talmente desolante da autorizzare il disprezzo o la commiserazione della gente comune, dei non lettori, che ci considerano “a ragione” dei falliti, persone vocate, predestinate all’insuccesso”. Io non sono così sicuro che sia così. E poi anche noi siamo gente comune, stiamo dentro il mondo, non fuori. E’ un po’ come se gli scrittori, gli intellettuali in genere vivessero una vita “altra”, nella quale i non scrittori, i ragionevoli ragionieri, diciamo così, ci indicano a dito quando passiamo per la strada con i nostri scartafacci in mano e la testa puntata alle nuvole, sussurrando al vicino: “Guarda, quello scrive, recensisce, non c’ha una lira, deve rinunciare al Porsche Carrera 4, ai Caraibi e al puttanone: che coglione, eh?”. Sarà proprio così per tutti?
A me interessano i libri!
Non mi interessa il “personaggio”… Mi interessa mantenere VIVO l’autore! Voglio che ogni autore venga tutelato, sfamato, vestito, “divertito” perché continui a scrivere… sempre di più. Voglio che un essere umano che sappia scrivere POSSA farlo …e farsi leggere da me!
Che abbia preso la laurea in architettura, che abbia lavorato come un facchino in una casa editrice o che abbia solo vergato pezzetti di carta igienica da quando aveva 6 anni… poco importa. Ma voglio che ABBIA la possibilità concreta di FAR LEGGERE ciò che scrive.
Quindi… eh, un po’ devono lottare anche gli scrittori… Ma non tra loro…
Scusate, nella mia posizione di scrivente che non pubblica dovrei star zitto, ma non posso fare a meno di domandar(mi): ma i nostri romanzi per chi li scriviamo ? Per gli amici intimi o per il pubblico ? Vogliamo essere letti (non per fare chissà quali miliardi, ma almeno per avere un riscontro) o ci accontenteremmo di essere pubblicati ? Siamo sicuri che i nostri romanzi non sarebbero dei flop ? Per amor del cielo: che editor e editori prendano anche fior di cappelle è cosa nota. Che ci siano in giro fior di romanzi rifiutati per motivi incomprensibili è più che probabile. Eppure, se gli editori vivono e pagano stipendi, avranno tanti torti ma forse qualche ragione ce l’hanno. E d’altra parte, quale organizzazione editoriale alternativa possiamo indicare ? Anche ai tempi degli editori illuminati i rifiuti editoriali erano all’ordine del giorno. Nei regimi totalitari pubblicano solo gli amici degli amici e le opere valide escono all’estero, magari di contrabbando. Insomma, la situazione attuale è tutt’altro che soddisfacente, ma cosa si può fare per migliorarla ? Poco o niente, temo. A me stesso non faccio che ripetere: “Se fossi un vero scrittore dovrei essere capace di dire tutto ciò che voglio dire, e anche di farmi leggere”. Siccome a quanto pare non ci riesco, per coerenza, credo, dovrei darmi all’ippica. Ma sono troppo vecchio per imparare a montare a cavallo, quindi continuo a scrivere. Almeno faccio una cosa che mi piace.
Caro Franz, quando si parla di fallimenti io gioco in casa, sono un fallito abituale e recidivo, la quintessenza della sconfitta. Anche per questo mi piace il Lotto, lo sento un’anima gemella. L’unica cosa che mi manca per diventare l’ipostasi dell’insuccesso è tifare inter; ma per il resto ho tutte le carte in regola. E dici bene, la contrapposizione spesso è fittizia e pretestuosa; almeno nel mio caso. Faccio un mestiere normale, non intellettuale, e accetto le logiche, le regole del gioco e il deserto assiologico (“la Porsche e il puttanone”) che questa società esprime. Non mi “salva” il fatto di
amare l’arte e la letteratura. Forse l’unica cosa che non mi danna del tutto è la consapevolezza che in questa partita non c’è alcun trofeo in ballo; come credono i “vincenti”. In “Vergogna” di J. M. Coetzee, romanzo di rara intensità e bellezza, c’è un brano in cui il protagonista incontra l’ex moglie, e questa lo rimprovera del suo atteggiamento rinunciatario e apparentemente masochistico, perché si rifiuta di accettare compromessi, di chiedere perdono al fine di essere reintegrato nel suo lavoro. Vado a memoria, ma mi pare che lei concluda il suo discorso dicendogli qualcosa tipo: “continua così e finirai male”. E lui replica “finirò come tutti, con quattro palate di terra in faccia”. Ecco come finisce la partita, sempre che questa sia una partita.
Garufi, convertiti! (Alla cremazione, intendo).