Vomitorium (7)
di Gianni Biondillo e Loredana Lipperini
GIANNI BIONDILLO
Ciao, Lippa. Se ne hai voglia, dimmi la tua. Prendi pure una birra. Io berrò una camomilla, devo ancora smaltire le birre precedenti… se te la senti, diamo in pasto alla rete queste nostre elucubrazioni.
LOREDANA LIPPERINI
Accetto volentieri la birra (per esser logici, a questo punto dovremmo ordinare una pizza e iniziare una disquisizione sulla supremazia di quella milanese sulla romana, come tu sostieni: ma non lo faremo).
G.B.
So che stai seguendo “Vomitorium”, il mio modo di lavare i panni sporchi in pubblica piazza. Ci sto provando, quanto meno. Cerco di lavorare su di me, facendomi aiutare. Cerco di spogliarmi di luoghi comuni che, senza rendermene conto, mi affliggono, o mi confortano, non so. Cerco, anche una sorta di verifica, non so se sociologica, se umana, o quant’altro.
Volevo dirti: è un anno e mezzo (da prima che diventassi uno “scrittore ufficiale”) che frequento quotidianamente i blog. Prima non avevo mai fatto neppure un miserabile commento. Eppure ho internet a disposizione sempre, qui nello studio dove lavoro. Una volta feci un commento, anche articolato, su Nazione Idiana. Poi, come una specie di droga che ti intossica, non ho più smesso. Mi accorgo che, i giorni in cui sono fuori Milano, per lavoro o per vacanza, vivo come in preda ad una scimmia.
Questo mezzo è fantastico. E pericoloso. O sbaglio? Ma questa è ancora una banalità, in fondo.
L.L.
Sto seguendo Vomitorium, sì: e con molto interesse. Credo che almeno l’analisi dei luoghi comuni (l’eliminazione è affare lungo, complesso e forse impossibile) sia cosa fondamentale. Soprattutto su
Internet: immagino sia piuttosto evidente quanto la sottoscritta passi per Webentusiasta. Ed è in effetti così: molto semplicemente, perché la Rete consente incontri e discussioni che è molto difficile, oggi, ospitare sui vecchi media. Qualche settimana fa, il quotidiano Usa Today raccontava che in America avvengono sostituzioni di caporedattori di lungo corso in prestigiosi magazine dedicati alla letteratura per inseguire i lettori conquistati da una concorrenza non immaginabile: quella dei blog letterari, che “hanno creato una comunità alternativa dove non c’è bisogno di aver frequentato le università giuste o di vivere in una grande città. Non c’è bisogno di altre connessioni se non ad Internet”. Ma il pericolo a cui tu accennavi esiste e riguarda proprio il luogocomunismo. Che è, appunto, consolatorio. Anche sul web: non è che Internet sia il luogo dove i peccati vengono assolti. Siamo gli stessi, dentro e fuori la rete.
G.B.
Facciamo allora due piccole digressioni.
La prima: credo che il pezzo di Antonio Moresco ponga argomenti di grande interesse intellettuale. Cosa sta accadendo al mondo della cultura e dell’editoria italiana? Non ho voglia di ribadire cose che lui ha detto ottimamente. A quella lettura critica e ficcante vorrei aggiungere uno sguardo, come dire, propositivo.
Forse è vero che l’editoria stia serrando i ranghi, ma è altrettanto vero che, bene o male, tutto attorno, TUTTO, sta cambiando.
Pensa solo cosa è già in atto nel mondo della musica. Di come ormai autori affermati stiano scavalcando la figura dell’editore per arrivare, direttamente al loro pubblico. Grazie, ovviamente, alla tecnologia disponibile.
Gli stessi libri, quelli di carta, quelli che tutti amiamo, hanno ormai un ciclo di vita brevissimo. Ne parlavo con Tiziano Scarpa: l’edizione economica la si trova dopo, spesso, neppure sei mesi dall’uscita della prima edizione. I quotidiani allegano edizioni a prezzi ancora più economici, dopo altri pochi mesi. Un po’come nel cinema che dalla prima visione al dvd i tempi si sono accorciati a tal punto che spesso paiono uscire in contemporanea.
Già molti autori impongono, chi la carta riciclata, chi la riproducibilità non a scopo di lucro. Apripista ancora insuperati i Wu Ming. Che mettono a disposizione i loro romanzi on line a tutti (ma non solo quello. Su loro bisognerebbe scrivere una ricca pagina a parte).
Cosa voglio dire?
Quanto ancora ci vorrà prima che, con nuove tecnologie, o forse già esistenti, un autore potrà mettere in rete il proprio lavoro, impacchettarlo, dargli una forma compiuta, venderlo al lettore che scaricato il file andrà nel negozietto sottocasa e con la macchina “producilibri” si stamperà la propria copia (se non, addirittura, direttamente a casa)?
Proprio come Peter Gabriel, o un qualunque altro musicista, che scavalca un pezzo della filiera, probabilmente abbattendo i costi, permettendo all’utente di prendere solo quello che vuole.
E se così fosse, che conseguenze autentiche potrebbe determinare tutto ciò?
L.L.
Non so. C’è una parte di me che frena quando si cerca di immaginare il futuro: soprattutto se questo riguarda, come è ovvio che sia, il web. Che ha preso strade assai diverse da come venivano prefigurate anche solo sei anni fa. Però ti rispondo. Certo che Moresco ha ragione quando parla di Restaurazione: immagini, però, che la parte su cui, più che essere in disaccordo, insisto, è quella che accanto alla Restaurazione stessa vede non dico il Rinascimento, o la Rivolta, o il Sol dell’Avvenire o quel che ti pare. Ma strade che si aprono. Progetti possibili, e realizzati. Scritture nuove. E anche (lo dico sapendo che verrò azzannata quanto meno dal mitico Andrea Barbieri) più attenzione a quelle scritture nuove. Fino a dieci anni fa era più difficile che un grande quotidiano, o settimanale, si occupasse di esordienti, o comunque di scrittori che del nuovo erano portatori. E questo non può non essere un bene. Insomma, il mio distinguo riguarda proprio il discorso sui famigerati mediatori
culturali: non è bene farne un’indistinta massa di antagonisti schierati con il potere. Anche perché, scusate, ma non è così. Non è sempre così. Facile accusarmi di una difesa personalistica: lo è anche, per carità. Ma ci sono persone che scrivono sui quotidiani e sulle riviste o parlano alla radio che mi sembra ingeneroso far ricadere in questa definizione.
Poi, per rispondere alla parte più importante della tua domanda: credo che il copyleft sia una strada imprescindibile. Ma credo anche che il “feticcio” del libro sia ancora vivissimo: ovvero, non so quanti autori, nel breve termine, accetterebbero di affidarsi solo alla rete. Perché il feticcio è forte soprattutto presso chi scrive, non solo presso chi legge.
G.B.
La seconda digressione: qualche tempo fa, in una fredda sera meneghina, abbiamo sentito dire a La Porta che:
a) ormai nei salotti letterari c’è gente che dice che Kafka è “carino”.
b) il dibattito letterario è morto.
Noi due eravamo lì a strabuzzare gli occhi. Perché:
a) io i salotti letterari non li frequento e non so neppure dove stanno e come sono fatti.
b) mai come oggi il dibattito è enorme. Ma non è dove crede lui. E’ in rete.
La grandezza della rete, in fondo sta nel fatto che esiste il diritto di replica. Il critico perde, come dire, la sua intoccabilità. In teoria il diritto di replica esiste anche sui giornali, ma lo sai meglio di me che non è vero. L’autore ribatte, punto per punto, e poi il critico dice, ancora, la sua. L’ultima parola. E morta lì!
Sui blog non è così. Anzi: la replica è multifocale, è fatta da più soggetti interagenti: autori, lettori, critici, passanti, etc.
Messa così noi siamo i buoni e gli altri i cattivi. Ma non voglio metterla così. Per ora, però mi fermo.
L.L.
E fai bene, perché il discrimine è difficile. In quella fredda sera milanese quello che mi turbò davvero fu l’accusa di elitismo che proveniva da un’élite. Una docente universitaria che sosteneva che la rete fosse una casta chiusa, perché la tecnologia stessa opponeva una barriera ad un accesso davvero “democratico” (mi pare che fosse proprio questo l’aggettivo usato).
Non è così, ho detto allora. E continuo ad esserne convinta. Certo, discutere in rete richiede non tanto tempo, ma disponibilità mentale: devi accettare di essere criticato. A volte anche insultato. E’ un risvolto che esiste innegabilmente: ma, a costo di sembrare ingenua, non posso non dire che aiuta. Sulle critiche si cresce, se si accetta di riflettere su se stessi e sulle proprie posizioni (gli insulti sono meno utili, ma tant’è). Un critico letterario mi ha scritto recentemente di averci provato, a frequentare i blog, ma di aver perso troppo tempo: anzi, di averlo sottratto ai libri. E a se stesso, ho pensato: alla visione che ha e vuole conservare di se stesso. La rete ci costringe, beneficamente, a guardarci in diversi specchi, compresi quelli deformanti. Tutto qui (ovviamente non è vero: non è tutto, ma la birra è finita).
G.B.
La mia camomilla no, però.
Io credo che, senza nessuna voglia di farlo, la tecnologia ci ha consegnato un mezzo di comunicazione resistente. Non era volontario, non era cercato, ma c’è. Lo stiamo usando al meglio delle sue possibilità?
C’è una piazza comune dove scrittori, lettori, critici, passanti, curiosi, si confrontano paritariamente. Ma questa piazza è sempre più infestata di scarti, spazzatura, fango. Di rumore, noise, che a lungo andare provoca confusione, perdita di attenzione, nausea. Tutto questo non fa il gioco di chi crede ancora nella rivista cartacea, immobile nella sua incapacità di scambio continuo con l’esterno?
Oppure: non è che forse non c’è alternativa? Come dire di no a Carmilla on Line o ai Miserabili, che fanno un lavoro enorme (e tutto gratis) e proprio per questo decidono di non perdere tempo rispondendo a commenti deliranti, evitando di farsi sporcare dagli schizzi di fango che vengono da tutte le parti?
Parliamo sempre della responsabilità dello scrittore. Ma quella del lettore dov’è?
(ancora un pezzo e tolgo il disturbo)
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Qualche nota sparsa e ciarliera.
G.B. dice: “Quanto ancora ci vorrà prima che (…) un autore potrà mettere in rete il proprio lavoro,(…) venderlo al lettore che (…) si stamperà la propria copia (…)?”
Bene, tecnicamente l’unico problema sta nel verbo centrale della frase: vendere.
La disponibilità dei file di un prodotto intellettuale rende facile la duplicazione e distribuzione (musica). Il lettore onesto dovrebbe pagare per garantire il sostentamento dell’autore? La licenza CreativeCommons (che non è copyleft, tecnicamente) non prevede niente del genere, nemmeno dal punto di vista morale (è un passo extra). Allora probabilmente sarà il lettore appassionato e soddisfatto, a pagare. ProgettoCultura ha una collana di libri che si pagano dopo la lettura… ma chi deve viverci si accolla il rischio?
Il principio è tutto sommato simile a quello dello shareware: software disponibile gratuitamente per il quale, se soddisfatti, si dovrebbe pagare qualcosa. Quache autore di shareware per sollecitare i pagamenti fa sì che prima del pagamento qualche funzionalità manchi; uno scrittore potrebbe chessò, togliere l’ultimo capitolo o omettere tutte le scene di sesso.
Bastano queste cose per salvare editoria o autori? Secondo me non molto, non hanno a che fare con il succo. Che in perfetto stile Vomitorium, non ho idea di quale sia.
Saluti!
Eh, no! Non vale! La Lipperini copia! Che internet abbia aperto nuove prospettive l’aveva già scritto Angelini nel primo commento a ‘La Restaurazione’ di Moresco. Copio-incollo:
“Certo che succede anche adesso, ma non più di sempre o meno di sempre. Direi, anzi, che Internet abbia moltiplicato le possibilità di far udire le voci fuori dal coro.”
Brutta copiona di una Lipperini. Lo dico alla maestra.
Ehm, signor fake…A parte il fatto che lo scambio epistolare fra me e Gianni era antecedente al commento, a parte il fatto che nessuno sta dicendo cose nuove ma ribadisce fatti assodati da tempo, ma qui non si parlava di copyleft, appunto? :-)
ho poca fiducia nel magico mondo di internet, se uno scrittore può vendere i suoi libri via internet significa che altrove (spesso attraverso il mondo editoriale tanto biasimato) si è creato un ‘traduttore’ per l’aspirante lettore. non credo nello “scrittore d’internet” perché non esiste, e se esiste è un caso piuttosto flokloristico che reale. il passaggio per l’editoria è un passaggio che vedo ancora obbligato, sia per dare consapevolezza all’autore del lavoro che sta facendo, (scrivere un libro non si esaurisce nell’atto dello scrivere), sia perché il libro ha bisogno di un supporto che resta costoso e scomodo da preparare e di una distribuzione che il privato può seguire solo in maniera numericamente marginale.
nazioneindiana è un po’ uno specchio di questa scarsa realtà d’immagine, coloro che parlano su nazioneindiana sono scrittori o critici che hanno trovato la loro ‘conferma’ di scrittori o critici in ambiti differenti da internet e la loro autorevolezza è data dal loro lavoro svolto altrove. gli schizzi di fango non sono altro che il risultato di questa democraticità di facciata, e proviene spesso da chi questa autorevolezza proveniente dal mondo editoriale non ce l’ha.
non ultimo, la rivista cartacea è un prodotto, e come tale è privo non solo degli schizzi di fango, ma anche dei momenti intermedi di un azione di scrittura, che invece su nazioneindiana si possono vedere e che non so quanto bene facciano agli scrittori stessi. parlo dei commenti scritti a caldo, magari nel cuore della notte, che il giorno dopo appaiono poco ragionati e un po’ deprimenti.
f.