Lettera a Carla sul combattimento e sul sogno
di Andrea Inglese
Cara Carla,
tu chiami ad un’attitudine di combattimento e di sogno. Ti dirò perché, in questo contesto, io scelga di intervenire con il sogno, e non con il combattimento.
Il combattimento può valere contro un amico, che interpreta il ruolo dell’avversario, come avviene negli scontri rituali, sportivi o di arti marziali. Si combatte, ma si sa che si combatterà ancora. Si combatte, per rafforzare se stessi, non per sconfiggere definitvamente l’avversario (amico). E dopo magari si va a bere assieme.
Ma si può combattere anche un avversario, che è nemico. Un nemico non per ragioni private, ma perché difende principi e atteggiamenti che sono contrari alla nostra visione del mondo. E qui il combattimento è cruento. Si combatte per sconfiggere quei principi e quegli atteggiamenti. E né prima né dopo il combattimento, si va a bere assieme.
Chi è il nemico della letteratura, intesa in senso forte, radicale? Chi è colui che si deve combattare? Forse semplificherò troppo, ma credo sia qualcuno che deve avere almeno due caratteristiche. Avere un’idea della letteratura contraria alla nostra e avere un grado sufficiente di potere o autorità, per imporla ad altri, diffonderla intorno a sé, produrre consenso intorno ad essa. Colui insomma che costruisce una carriera di critico, di storico o teorico della letteratura su tale idea. E ancor più nemico, è colui a cui questo consenso rende in termini economici. Il proprietario di un’azienda “culturale”, casa editrice o testata giornalistica. Costui infatti avrà interesse a diffondere una tale idea, che potrebbe accordarsi con le sue strategie di vendita. Ma il peggior nemico di tutti, è quell’essere ibrido, a cavallo tra cultura e azienda, tra scrittura e management, tra cattedra universitaria e consulenza editoriale, che decide della pubblicazione e della non pubblicazione. Che decide, insomma, di cosa entrerà a far parte dell’universo letterario, e di cosa ne resterà fuori, ai margini, nel limbo. (È chiaro che il nemico, in questo senso, è colui che svolge questo suo ruolo contro la letteratura radicale.) Esistono queste tre tipologie di nemici? Se sì, ad essi bisogna dare un volto e un nome, e combatterle. Ma bisogna indicare atti specifici, essere a conoscenza di decisioni, o dedurle dalla storia di una collana, ecc. Che è il lavoro che tu hai fatto, Carla, nel tuo Il Tradimento dei critici, in particolare nel tuo pezzo sul “caso Martone”. E hai pure incocciato in un nemico vero, il signor Pedullà, con il seguito che conosciamo. In conclusione: non credo che Giuseppe Caliceti sia un nemico nel senso sopraindicato. Delle opinioni sulla letteratura, condivisibili o meno, espresse su questo o altri blog, non ne fanno ai miei occhi un nemico. L’inimicizia e il combattimento si giocano sulla prassi di un intelletuale in senso forte (sul potere, che la sua parola detiene, di produrre consenso). Ma su questo immagino che siamo concordi.
Postilla sul combattimento. La forza del sogno è assolutamente essenziale ad uno scrittore radicale. Non altrettanto lo è il combattimento. È quello che ricorda Pallavicini. La vita per un sacco di gente, e di scrittori tra gli altri, è talmente difficile, che la militanza può diventare un lusso. E il combattimento è innazitutto quello per sottrarre tempo al lavoro salariato e continuare a scrivere.
Ecco i miei sogni : non faccio che “enunciarteli”.
1)Che le istituzioni letterarie continuino, malgrado tutto, ad esistere, e che siano praticate da scrittori radicali, capaci di ampliare o intensificare la nostra comprensione del mondo e farci, allo stesso tempo, godere di esso attraverso il linguaggio. Questi scrittori non devono per forza essere celebrati subito, non devono per forza abbracciare posizioni politiche progressiste o rivoluzionarie. Questi scrittori purtroppo potrebbero anche essere delle persone immorali o amorali. Anche dei criminali veri e propri. Da loro non ci aspettiamo esempi etici o suggerimenti politici, da loro vogliamo l’opera, quella capace di promuovere una “riforma dell’intelletto”. Questi scrittori potrebbero anche avere un’opinione completamente inadeguata, obsoleta o errata della letteratura. Potrebbero teorizzare in modo banale o idiota sull’opera. Ciò che davvero conta, è che la loro opera, poetica o narrativa, sia capace di essere radicale. (Per questo motivo, sarebbe urgente analizzare le singole opere alla luce delle ideologie dominanti, cercando di verificare dove esse sfondano le ossature cognitive imposte in un dato momento, a una data società.)
Postilla: a) nessuno può pretendere, in una data epoca, di conoscere “infallibilmente” la lista completa di coloro che fanno parte di questo gruppo; è probabile che nella propria lista ci siano anche molti bravi scrittori, che si verificheranno non essere scrittori radicali nel senso sopraesposto; ed è molto probabile che in tale lista manchino invece parecchi scrittori radicali, o che ci siano ma per dei “motivi” sbagliati; b) ma le istituzioni letterarie per esistere hanno bisogno anche di scrittori minori: senza Edouard Dujardin neppure James Joyce.
2) Che esistano degli scrittori capaci di assumere il ruolo di “critico”, come pensato da Fortini, ossia:
“il critico letterario potrebbe essere colui che parla ad altri (non in quanto specialisti di alcuna specialità ma in quanto raggruppati, o in conflitto, per situazione di cultura, ideologia, classe) e pone l’opera letteraria ed i suoi significati in rapporto con tutto quello che egli sa del pensiero; delle ideologie, delle credenze, della società: sapere nel senso di sapienza e non solo in quello delle scienze positive; e con quello che egli crede e vuole, in un dichiarato confronto fra il messaggio letterario e gli altri messaggi che lui critico attraversano e visitano (…)”
3) Che esistano molte persone, che nonostante le loro molte debolezze e le loro paure, nonostante il loro desiderio di sicurezza e di conforto personale, siano capaci di agire con atti e parole per alleviare l’evitabile dolore che una spaventosa quantità di esseri umani subiscono. E che siano capaci di agire in questo senso, anche quando perdono parte della loro sicurezza e del loro conforto. (Questo sogno, è ovviamente il primo, in termini gerarchici.)
Postilla: Questo davvero, in margine, per quanto marginali siano le questioni eminentemente lessicali. Trovo eccessivo il termine “genocidio” quando è associato a “culturale”, e indica la distruzione di opportunità cognitive all’interno di una società. Questo, per un semplice fatto, che il termine è ancora in uso oggi per indicare la distruzione tout court di esseri umani (di masse di esseri umani). (E l’uso del termine è dato dall’occorrenza del fatto.) Avendo appena messo il naso nella storia di due genocidi del XX secolo, quello degli ebrei e quello dei Tutsi in Rwanda, la parola ha per me un peso specifico tale, da renderla inutilizzabile in contesti che ne attenuino l’assoluta atrocità. Per questo, preferisco il termine “restaurazione”, scelto da Antonio.
Un abbraccio
(p.s. questa lettera , spero sia evidente, ha come funzione di chiarire differenze, ma sopratutto di aggiungere ulteriori elementi di riflessione, che potrebbero interessare noi tutti – dentro e fuori NI -)
Comments are closed.
Perché non ve fate ‘na telefonata?
Divertente, Governi! Il tuo commento mi ha messo allegria, sul serio. Però a me interessa quello che si dicono. Che lo mettano in rete mi pare una bella idea. Così chi vuole interviene o gli dice bravi oppure stronzi oppure fa una bella battuta come la tua.
Caro Andrea,
sono molto d’accordo con i punti fermi da te enunciati. Spiace constatare che il tuo intervento è stato quello meno commentato.
Leggendo i diversi contributi del dibattito aperto da Antonio – che pure credo cruciale -, sembra infatti che un certo sterile massimalismo (nel modo di ragionare e di portare avanti le argomentazioni come nella categoricità dei toni), insieme a spiacevoli schermaglie personali (che non interessano davvero a nessuno), stia purtroppo prevalendo sull’analisi reale dei problemi messi sul tappeto e sulla possibilità di un confronto intellettualmente serrato, e aggiornato, tra le posizioni in campo.
Un saluto a tutti gli amici di NI.
Alessandro Broggi
(Chiedo scusa per il post multiplo – miei problemi con il PC). AB.
caro alessandro, grazie delle tue parole; primo perché in genere, i poeti si manifestano rarissimamente qui, anche se qualche “sforzo” per la poesia lo si fa;
dalla filosofia ho imparato una cosa: che la verità è un processo, che non sta nella testa della gente, ma tra le persone, nello spazio dialogico, sempre in movimento, del discorso. In una discussione, io mi sento quasi sempre staffetta, colui che prende e colui che passa, mai colui che detiene.
Cio’ che più che mi rattristarmi mi annoia alla lunga, è quando ognuno ha il suo pezzo di verità sacrosanta, ma si fa tagliare un braccio piuttosto che prenderne un altro pezzo o mollare il suo. Mi annoia quando tanti dicono delle cose vere, ma nessuno si ascolta. Allora davvero il discorso ci punisce a tutti, e si trasforma in spettro che riotorna, eternamente uguale, con i suoi soliti interrogativi e le sue facili risposte. “E il romanzo?” “E il linguaggio?” “E lo stile?” “E il testo?” “Il romanzo è morto.” “No, c’è solo il romanzo, abbasso la poesia!” “Il testo non c’è, c’è solo l’autore”. “L’autore è svanito, c’è solo mio nonno in cariola, ecc.”
un abbraccio
p.s.
Detto questo, altrimenti sembrerei un habermasiano, credo che vi sia sempre un’inevitabile interferenza (corporea, emotiva, idiosincratica) nel dialogo, e che essa svolge a volte una funzione negativa, a volte positivissima; le schermaglie personali non interesseranno tutti, questo sono d’accordo, ma a volte sono necessarie pure quelle: non le puoi estrarre dal discorso, non si puo’ insomma “depurare” a priori un discorso. Cio’ che conta è fermarsi ogni tanto, anche nel pieno del furore, a pugno alzato, a coltellaccio sul tavolo, e ascoltarsi. Vedere insomma cosa c’è da prendere e da lasciare, per anadare avanti.