Corsa di cavalli o cavalli che corrono?
di Carla Benedetti
Caro Giuseppe Caliceti,
ti scrivo per approfondire il discorso sulla restaurazione e spiegare in che senso secondo me parlare di marginalità della scrittura e della cultura è un’autodescrizione fallace e castrante. Ma prima vorrei dirti che mi dispiace se la mia prima replica al tuo pezzo è stata sentita come un’aggressione. Non c’era da parte mia nessun intento di sminuire la tua voce e il tuo contributo, e tanto meno il tuo lavoro di scrittore, ma solo un grande bisogno di andare subito al punto, al punto che, per lo meno a me, sembra nodale, e di farlo emergere chiaramente e drammaticamente. Non contro di te, ma contro una falsa descrizione epocale che oggi rischia di paralizzare anche le menti più fertili e combattive. Ed è di questo che voglio parlare ora, prendendo tutto il tempo che ci vuole a spiegarsi. Quel tempo che invece ho bruciato nella mia prima replica e che ha fatto sì che potesse sembrare un’aggressione gratuita
La scrittura in rete, con la rapidità che consente, spinge spesso a saltare i preamboli e a accelerare le tappe, soprattutto quando il ritmo della discussione è inclazante. Così io ho cominciato la mia replica al tuo scritto così :
“Caliceti ha un’idea rinunciataria e immiserita della letteratura e della cultura… Quella stessa idea debole, immiserita, depotenziata che le macchine di potere dispiegate nella nostra epoca stanno cercando di inculcare negli stessi scrittori (per non parlare dei critici!)”
Se avessi avuto un po’ più di tempo, cioè se il ritmo della discussione non fosse stato così incalzante, avrei potuto invece iniziare così:
“Caro Caliceti, ho letto il tuo intervento con grande interesse, e ti ringrazio molto dell’attenzione che hai rivolto a questa iniziativa di Nazione Indiana di aprire una discussione sulla “restaurazione” con un primo intervento di Antonio Moresco, a cui seguiranno altri, in vista dell’incontro di Torino. Molte delle cose che dici mi trovano d’accordo. Su una invece ho delle forti perplessità. Tu scrivi che per gli scrittori la cosa migliore è “accettare serenamente un ruolo di “marginalità” che oggi la letteratura nel mondo (e soprattutto in Italia) ha da almeno alcuni secoli”. Così fecero del resto Sanguineti e altri cosiddetti neoavanguardisti: “hanno accettato serenamente un loro ruolo, nella vita pubblica italiana, marginale”. Ecco su questo punto ho delle fortissime obiezioni da farti. Perché in una frase del genere io vedo esprimersi, forse senza che tu ci abbia riflettuto fino in fondo, un’idea rinunciataria e immiserita della letteratura e della cultura… Quella stessa idea debole, immiserita, depotenziata che le macchine di potere dispiegate nella nostra epoca stanno cercando di inculcare negli stessi scrittori (per non parlare dei critici!)”
Forse con questo preambolo la mia replica sarebbe sembrata meno aggressiva. Ma avrei detto la stessa cosa.
Comunque vista la discussione accesa che ne è seguita, anche all’interno di Nazione Indiana, viene da dire che non tutto il male vien per nuocere. Non tutte le drasticità espositive nuocciono al confronto. A volte c’è bisogno anche dello scontro, quando è sulle idee, ovviamente, e non contiene ingiurie gratuite. Del resto fa parte della restaurazione in corso la pretesa che non esista più il conflitto. Pretendono che tutti ci accomodiamo tranquilli nello spazio residuale che viene oggi concesso alla cultura, nella pseudo-gara tra chi vende di più e di meno (la corsa dei cavalli isitituzionalizzata delle classifiche dei libri più venduti), oppure nelle poltroncine da studio televisivo che spesso le pagine culturali predispongono perché abbia luogo qualche finta polemichetta, la sceneggiata delle opinioni contrapposte attorno a argomenti preconfezionati: se sia meglio il profumo della carta stampata o l’assenza di odore della rete, se è vero o no che la cultura di sinistra ha snobbato la letteratura popolare, se è meglio la letteratura di genere o la letteratura senza genere, se è vero che gli scrittori italiani sanno raccontare la realtà contemporanea o si occupano solo del proprio ombelico e così via. Insomma, i cliché giornalistici che, secondo loro, sono gli argomenti che tirano (una noia!).
Così ci preconfezionano anche l’argomento su cui ci dovremmo “scontrare”. Niente approfondimenti. Niente confronto vero. Increspature di superficie, in cui lo scontro è finto, e ciò che si dice non fa male a nessuno. Ma soprattutto fa parte della restaurazione la pretesa che non vi sia più conflitto nel mondo.
Per questo a me non piace quel far finta di essere tutti d’accordo (come ha fatto Filippo La Porta, che iniziava la sua lettera a Moresco dicendo “sono d’accordo con te, condivido totalmente la tua diagnosi”, anche se poi si capiva subito, tra le righe, che non era d’accordo su nulla – e questo lo dico senza astio verso di lui ma con profonda insofferenza per questo stile di esposizione, che ammolla le differenze e i punti di attrito).
Ma ora arrivo all’argomento che mi preme di più. L’idea depotenziata di letteratura e le descrizioni epocali. Sono cose su cui rifletto da tempo, e che ho anche messo al centro di alcuni miei libri. E quindi, quando uno le cose le ha già scritte, tende superficialmente a darle per già chiare, evita di ridirle, anche per paura di ripetersi, di annoiare. Invece non è così. Perciò hai tutte le ragioni di stupirti e di non capire come mai ho attribuito quell’idea immiserita di letteratura anche alla neoavanguardia.
Io l’ho attribuita soprattutto al postmoderno, ma anche la neoavanguardia ha avuto secondo me la sua parte. Io ammiro la produzione poetica di Sanguineti e non è quella che qui è in discussione. Ma l’idea di letteratura, non solo sua, ma anche di molti altri in quegli anni, era già questa: la letteratura, la scrittura non può più veicolare delle esperienze fondamentali per la vita, non può più farsi portatrice di punti di vista ‘altri’ sul mondo. Dunque una pratica morta, che accetta ora ironicamente ora malinconicamente, ma pur sempre in maniera pacifica e priva di conflitti, di non essere altro che una corsa di cavalli nell’ippodromo che le è stato predisposto.
Negli scrittori della neoavanguardia una tale accettazione si era consumata in forma polemica, e dunque ancora in qualche modo ‘tragica’. Quando Sanguineti dichiarava di voler fare della letteratura “‘un’arte da museo’“, un tale ‘programma’ aveva il valore provocatorio di un suicidio. Era la divulgazione militante della fine dell’arte, della sua degradazione a merce, di cui non si poteva più rimandare la consapevolezza. Invece nessun tipo di tensione critica nei confronti dell’istituzione letteraria colonizzata dall’industria culturale è sopravvissuta dopo. Con il postmoderno la rinuncia a un’idea ‘forte’ di letteratura è diventata del tutto pacifica, solo appena venata di un’ironica malinconia, o di un euforico cinsimo.
Io credo che il postmoderno sia stato fondamentalmente, più che una nuova forma di arte, una descrizione che l’arte ha cominciato a dare di sé, un’autodescrizione che contempla la propria morte come già avvenuta. Senz’altro un mezzo per rilanciare l’arte oltre le impasse della modernità. Ma anche una liquidazione delle potenzialità dello scrivere, e un gioco a chiudere.
E se oggi se c’è qualcosa che sembra davvero unificare la cultura italiana, passando al di sopra di tutte le contrapposizioni e di tutti gli schieramenti, è proprio la forma mentis della chiusura: alla scrittura letteraria, ormai data per esaurita, non resterebbe che adeguarsi serenamente in quel margine, senza attriti, senza conflitto, e senza rischi, che l’industria culturale le riserva. Perché se la morte della letteratura è già avvenuta, nel cimitero un solo gioco sopravvive: quello del mercato. Da una parte quanti malinconici cultori della pseudo-alta letteratura hanno continuato a sostenere nell’ultimo decennio che la letteratura vive ormai in una condizione postuma! Dall’altra quanti euforici giocolieri della scrittura formattata, immiserita, ridotta a un centesimo delle sue possibilità, fatta passare per “letteratura popolare”! Nessuno si aspetta più che la letteratura possa ancora avere una vita, che un’opera possa trascinarci a vedere ciò che non si è ancora visto, perturbare, inseminare le menti.
Così l’idea dell’esaurimento della letteratura (cavallo di battaglia del postmoderno), questa pseudo descrizione epocale è diventata un’ideologia buona per il mercato, per un’industria della cultura che fa impallidire quella descritta da Adorno e Horkheimer negli anni ’40. E questo è soprattutto l’esito molto ‘italiano’ del postmoderno, non il postmoderno in sé che fuori d’Italia ha assunto anche altri volti.
Quindi, alle nostre spalle c’è il postmoderno. La grande e articolata autodescrizione epocale che la modernità occidentale a un certo punto ha cominciato a dare di sé. E non è stata una descrizione innocua. Nessuna descrizione del mondo lo è. Ogni descrizione agisce. Agisce profondamente sulle rappresentazioni, e dunque anche sulle azioni che si possono o non si possono fare. Attraverso queste autodescrizioni si producono delle formae mentis, che si riproducono attraverso ciò che si dice quotidianamente, iterato in variazioni infinite, non solo nei ritornelli che ci arrivano dai giornali e dai media, ma anche presupposti , dati come indiscutibili in certi nostri discorsi.
Anche nel tuo, in quello che hai fatto qui in risposta al pezzo di Moresco sulla restaurazione (non in ciò che scrivi, non nei tuoi libri), sentivo agire questa premessa, data come indiscutibile e pacifica, mentre invece andrebbe radicalmente rimessa in discussione.
Ed è proprio per questo che abbiamo usato la parola “restaurazione”, come una contro-descrizione rispetto a quella dominante.
Se dici che viviamo in un’epoca in cui la letteratura e la cultura sono marginali, hai già dato una descrizione non conflittuale della situazione in cui ci troviamo. E infatti tu aggiungi che questa è una condizione che si deve accettare serenamente. Non lo dici, è ovvio, perché ti sta bene che sia così, ma perché la riconosci come necessaria, non modificabile, in quanto non può che essere così (e solo uno sciocco o un velleitario può cercare di opporsi a ciò che è necessariamente).
Se invece dici che viviamo in un’epoca di restaurazione, ecco che la descrizione cambia improvvisamente. Si può accettare serenamente la restaurazione? No. Perché essa non è una condizione necessaria, ma un processo, una dinamica in corso, uno scontro. Dire “restaurazione” ti fa apparire improvvisamente l’esistenza di forze antagoniste, che stanno in un’altra dimensione, che tendono verso altro, che sognano e vivono in un altro modo (quelle che invece l’altra descrizione cancella). Ti fa apparire immediatamente l’esistenza di un campo di conflitto.
Non è detto che queste forze antagoniste vincano sulle forze della restaurazione, anzi potrebbe anche darsi che alla fine vengano schiacciate, che il genocidio culturale si compia in tutta la sua devastazione (e insisto sulla parola “genocidio”, anche se mi è stato obiettato che sarebbe meglio riservarla a genocidi veri, in cui vite umane sono cancellate, proprio perché secondo me anche ciò che chiamiamo “cultura” è strettamente legato alla vita, e il genere umano non può sopravvivere senza la trasmissione di pensiero e di esperienza. La normalizzazione delle forme di espressione che oggi si sta producendo a livello planetario, che impone a ogni pensiero e a ogni esperienza di impoverirsi, di semplificarsi, di amputarsi di profondità e complessità, per entrare dentro ai formati mediatici, narrativi, comunicativi e di pensiero ammessi, può quindi avere conseguenze molto più devastanti sulla vita di quelle che si immaginano quando si ragiona solo in termini culturalisti).
Però, anche se le forze della restaurazione sono schiaccianti, non si può cancellare l’esistenza di questo campo di conflitto, di queste forze in antagonismo. Sarebbe come dire che gli iracheni devono accettare serenamente l’occupazione U.S.A perché l’impero è più forte. Se si ragionasse così nessuna resistenza, nessun movimento avrebbe alcun senso. Perché dobbiamo ragionare così proprio nel campo della cultura?
La marginalità della cultura e della letteratura, ammesso che esista davvero, non è un dato necessario. E’ semmai il prodotto contingente di forze storiche, culturali, economiche, ideologiche…. Comunque, io non credo che la cultura e la letteratura siano oggi marginali. Non credo che ciò che si chiama cultura abbia da due secoli la zona marginale che tu dici. Pensa alla potenza che può avere un libro. Pensa alla tua stessa esperienza di lettore-scrittore. Pensa che razza di reazioni fertili può produrre in un individuo la lettura di ciò che un altro individuo ha scritto e pensato, nel passato o oggi! Su cosa ci formiamo? Il pensiero, la scrittura, l’invenzione artistica, vivono di combattimento e di sogno. O altrimenti non vivono, perché sono già stati annientati. Cosa che però io non credo. Credo che l’unico modo di non essere pessimisti è non cancellare l’esistenza di un conflitto, e mettere in evidenza che esiste una tensione, ed è proprio questo che a me sembra la parola “restaurazione” possa riuscire a fare.
Se invece ci si ferma alla rappresentazione che di queste attività fanno le istituzioni della nostra epoca, cioè i sondaggi di mercato e le aziende editoriali, pubblicitarie e altro, allora scrivere ti potrà anche apparire come un’attività che si espleta in una zona marginale, come in un orticello per pochi.
Cosa conta per esempio l’Etica di Spinoza in questo mare statistico delle classifiche? Nulla. Ma se pensi a quante menti ha inseminato nei secoli quel meraviglioso sogno mentale, e quante ancora ne potrebbe inseminare nel futuro allora ti rendi conto che conta, eccome!
Secondo me la scomessa più importante oggi è riuscire a pensare fuori da quella dimensione che ci viene spacciata come l’unica possibile, ma che non è affatto l’unica possibile, e che vorrebbero anche farci percepire come necessaria, in virtù di pseudodescrizioni epocali che la presentano come ormai consustanziale alla cultura.
Per il momento mi fermo qui, ma vorrei, appena ne ho il tempo, ritornare su questi argomenti, e anche approfondirli con te, se ne avrai voglia, e con altri.
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Per Carla Benedetti: il numero di telefono di Caliceti è 0522-325463.
Per Antonio Moresco: il numero di Mozzi è: 049- 7057700.
Per Giulio Mozzi: il numero di Andrea Inglese è: 02-89641201 (quella della mamma, a Torino: 011-2832408).
Quello di Helena Janeczek non lo so. E’ di Monaco ma vive in Italia. Fai una una ricerca tu, io me so’ stufato.
Un po’ di bastone, un po’ di carota, cuntent Caliceti ? Dai, facci contenti: in fondo vogliamo soltanto che ti genufletti. Cosa ti costa ?
Penso che se un’opera abbia funzione germinativa, il suo autore, quantomeno, dovrebbe radicarsi senza germogliare. Quel che non convince nell’intervento controrestaurativo di Moresco è il tono vago.
[E d’altro canto, da una critica militante qulae la Benedetti,coraggiosa e preparata, ci si aspetterebbe, almeno da lei, stile, rispetto, riflessività e modi.Che agisca da modello e che non si affretti a reagire alla maniera di una studentessa da collettivo di lettere!]
Se c’è un nemico, questo va puntato e chiamato per nome, se c’è gente che lavora controrestaurativamente(librai, scrittori, editor, editori), di questa gente il nome va fatto. In caso contrario è evidente trattarsi non di “profezia” ma di “paternale” fantasmatica e debole, sfocante, tesa a far cadere l’attenzione sull’autore più che sull’opera. Un loop sempiterno, senza sguainamento di spada.
Cosa mi significa, infatti, la sottolineatura “conosci la mia inermità e la forza delle mie illusioni”? Le profezie non si sostanziano di illusioni, le illusioni, poi, non sono per niente inermi, tantomeno chi scrive radicalmente è inerme. E meno male che non lo sia! Basta che lo si sappia, però!!
Dicevo:che motivo c’è-vista l’indubbia grandezza di Moresco(persona e opera)- di, ad ogni piè sospinto, dopo l’attacco, deporre “vittimisticamente” le armi, e ricondursi quindi al proprio ego?
L’ansia definitoria e catalogante(vd. “La restaurazione”)è azione a pieno titolo rivendicativa.E’ lampante, e non c’è nulla di male, basta riconoscerselo, però!
Così facendo, si perde di vista la dialettica in atto e si cerca di risucchiare nel tono vago similprofetico le forze agenti.
I regolamenti di conti con annessi tagliatori di gola entrati in azione in questi giorni non possono che infastidire e far ridere i lettori.
Come anche l’idea di “casa”(“casa chiusa”? :-)), tirata in ballo da Montanari, è ipocrita, a questo punto. Per quanto comprenda Montanari e lo trovi a pelle simpatico, a me sembra buonismo a buon mercato. In questa casa ci sono e ci si fanno le cimici, pauraaaa!!!! Il cinismo si rende necessario, onesto, non il “volemose bene” rigorgogliante ora, visto quali pugnali si sono affilati nei giorni scorsi.
Tanto che si teme per la vita del povero Biondillo scomparso!!! :-))))))))
il mio tel è sbagliato
sono tutti sbagliati. governi sei solo un pagliaccio!
no, sono giusti. ho chiamato tutti. urgono rinforzi. qui so’ cazzi. ok corral per tutti. tutto per un pugno di libri.
ahi!
Chissà se con Carla Benedetti si può aprire un dialogo sulle pagine culturali dei quotidiani o dei settimanali. E su cosa si aspettano i protagonisti del mondo letterario, autori e critici più o meno militanti, dalla vecchia, defunta, marginale, consumistica, Terza Pagina. Carla Benedetti scrive: A volte c’è bisogno anche dello scontro, quando è sulle idee, ovviamente, e non contiene ingiurie gratuite. Del resto fa parte della restaurazione in corso la pretesa che non esista più il conflitto. Pretendono che tutti ci accomodiamo tranquilli nello spazio residuale che viene oggi concesso alla cultura, nella pseudo-gara tra chi vende di più e di meno (la corsa dei cavalli isitituzionalizzata delle classifiche dei libri più venduti), oppure nelle poltroncine da studio televisivo che spesso le pagine culturali predispongono perché abbia luogo qualche finta polemichetta, la sceneggiata delle opinioni contrapposte attorno a argomenti preconfezionati: se sia meglio il profumo della carta stampata o l’assenza di odore della rete, se è vero o no che la cultura di sinistra ha snobbato la letteratura popolare, se è meglio la letteratura di genere o la letteratura senza genere, se è vero che gli scrittori italiani sanno raccontare la realtà contemporanea o si occupano solo del proprio ombelico e così via. Insomma, i cliché giornalistici che, secondo loro, sono gli argomenti che tirano (una noia!)”. Forse ha ragione lei. Forse le redazioni delle pagine culturali sono piene di gente che riduce qualsiasi cosa a polemichetta o recensioncina, tanto per stare in pace con la coscienza. Forse sono solo degli impiegati della sottocultura. Forse, però, non è così. Non è sempre così. La tranquillità non fa bene alla cultura. E neppure alle pagine culturali. Sono convinto, proprio come scrive Carla Benedetti, che i conflitti non si possono ignorare, soprattutto ora, in questa fase storica di ridefinizione dell’orizzonte e di post Novecento. E’ un momento in cui visioni estetiche, filosofiche, politiche, antropologiche possano affrontarsi senza paura. L’identità è personalità. E tutti siamo d’accordo, credo, che c’è bisogno di personalità forti, di orme visibili sui sentieri della cultura. Ma se questi sicorsi forti latitano, se i conflitti vengono addormantati è solo colpa dei meditori, dei giornalisti? Sono solo loro, i colletti bianchi delle redazioni, a essere sordi e mediocri? Mi sembra una risposta un po’ troppo facile. Da una parte ci sono i grandi critici e i grandi scrittori, che fanno grande letteratura, alta, coraggiosa e radicale, dall’altra l’indifferenza idiota dei mestieranti. Non credo che sia così. Credo che ci siano persone che cercano dall’una e dall’altra parte, che i ruoli sono più ibridi e confusi, che ci sono gli individui e non le razze. Credo che la “riserva indiana” sia un male per chi sta dentro e chi sta fuori. Ma soprattutto credo che la grande letteratura non ha bisogno di scuse o giustificazioni. Non ha bisogno di trovare un motivo extra letterario per esorcizzare il proprio fallimento. Se c’è una cosa che apprezzo di Moresco è di aver continuato a scrivere il suo romanzo, a suo modo, come lo voleva lui. Sul resto si può discutere. Si può rimproverare agli editori di non avere coraggio, di livellarsi a un livello mediano di mediocrità. Si può parlare di restaurazione. Io ho letto in questi ultimi anni alcuni buoni romanzi italiani. Ho letto alcuni buoni romanzi americani o inglesi. Non voglio mettermi a citare titoli di “letteratura radicale”, come la chiamate voi, ma non mi sembra che si sia estinta. Questo significa che anche gli editori, qualche volta, investono in buoni romanzi e in buoni autori. Anche Moresco, in fondo, esiste e non è stato cancellato. Il vittimismo non mi piace. Non mi piace il vittimismo degli scrittori. Non mi piace neppure l’ostentata marginalità di chi dice: mi accontento del mio piccolo spazio, perchè in questa epoca e in questo tempo non c’è posto per me. Sono stanco anche di chi canta il de profundis del romanzo, tanto anche questa è una vecchia storia. Il destino di un romanzo è soprattutto nelle mani di chi lo scrive. Ed è per questo che la grande letteratura ha un futuro.
E’da quanto è cominciata questa chilometrica discussione su restaurazione, marginalità e similia, nata sulle note irruenti del trescone e trasformatasi via via (che la data del Salone s’avvicina?)in una palinodia da minuetto, che serpeggia a mio avviso una concezione sbagliata della neoavanguardia.Espressa in questi termini: Sanguineti e altri cosiddetti neoavanguardisti: “hanno accettato serenamente un loro ruolo, nella vita pubblica italiana, marginale”.Caliceti dixit e Benedetti avalla, per poi contestare non già questa idea (e questa pratica), bensì per criticarla come “idea rinunciataria e immiserita della letteratura”. La neoavanguardia è stato un movimento letterario e culturale aggressivo, inconoclasta, di lotta, irato e sereno (per parafrasare il vecchio Leonetti), ha messo con decisione i piedi nel piatto della cultura italiana dell’epoca, ha attaccato il potere letterario dominante, denunciandolo come reazionario (vedasi il tandem Bassani-Cassola), facendo di Baudelaire un apprendista stregone, costituendo a sua volta un gruppo di potere parallelo e altrettanto forte di quello romano (Moravia, Pasolini, Siciliano, ecc.).Le riviste che da essa sono nate (da Quindici – che cessò le pubblicazioni per i violenti scontri politici tra i redattori – a Che fare – che riunì l’ala politica estrema della neoavanguardia, alla successiva Alfabeta che riunì, dopo, i reduci) non hanno mai avuto una “idea rinunciataria e immiserita della cultura e della letteratura”, ma erano riviste di punta, del movimento e lette dal movimento (che allora non era certo fatto da quattro gatti). Insomma, la neoavanguardia ha generato conflitto culturale, letterario e politico, ed è stata parte di quel conflitto, come del resto è, e qui scopro l’acqua calda, proprio di ogni avanguardia. Nella neoavanguardia si sono mescolate ragioni di mercato “esterne” alle poetiche dei neoavanguardisti e ragioni di poetica “esterne” al mercato. Sia chiaro, non sto criticando, qui, la neoavanguardia, non è questo il punto, ma sto solo ricordando ciò che fu e ciò che fece. E nemmeno in seguito i suoi appartenenti indossarono l’umile saio di marginali e come Cincinnato si ritirarono nei loro campicelli. Coi galloni guadagnati sul campo i più divennero accademici e studiosi di livello internazionale, autori di bast-sellers, dirigenti editoriali, giornalisti di testate prestigiose, presidenti della Rai, deputati parlamentari. Ma anche prima, al loro esordio, in molti erano già nei posti-chiave dell’editoria e della cultura, neo-baroni universitari ecc. e non un pugno di marginali, erano scrittori che pubblicavano nelle collane delle maggiori case editrici. E non credo si possa mescolare neoavanguardia e postmoderno. Nessun prodromo, nessun sintomo, nessuna continuità ideale tra l’una e l’altro. La prima un posto nella storia letteraria l’ha avuto – anche piccolo, magari, come una chiosa – il secondo di storico non ha nulla, è semmai una categoria dello spirito. E adesso quegli stessi che l’hanno inventato, il postmoderno, ci dicono che è finito. Ma la sua specificità di epoca letteraria e culturale va a tutt’oggi ancora dimostrata. Però… oddio, se anche il postmoderno è finito, in che post- ci troviamo? In attesa di saperlo, mi limito a postare questo post
Condivido buona parte din quanto detto sulla neoavanguardia. L’atteggiamento era aggressivo e contro un sistema editoriale e cultural letterario che potremmo definire di Restaurazione. Quando dico che Sanguineti come poeta e scrittore, di fatto, è relegato a un ruolo/successo più marginale nella letteratura italiana di oggi, rispetto al ruolo che magari si è voluto dare a un poeta come Luzi (pensiamo solo alle faccende legate al Nobel…), non sostengo assolutamente che lui e Pagliarani e altri poeti neoavaguardisti ( che erano un movimento, per me interessante come movimento, al di là ancora del laro singolo lavoro letterario, molto diverso….) fossero o siano nè dei minori nè gente che accettasse lo status quo….
Secondo me il termine “restaurazione” è sfuocato, poco significa. Restaurazione di che? verrebbe da chiedersi. Quale sarebbe la situazione preesistente a cui stiamo tornando ora? E questa tendenza alla restaurazione riguarderebbe la letteratura, la cultura o più in generale l’intera società?
A mio avviso è poco chiaro il termine restaurazione. Mi sembra infatti che sia più corretto parlare di slabbratura, dissolvenza, degenerazione.
In politica, l’economia e la finanza fagocitano sempre più qualsiasi traccia di pulsione ideale o di tensione verso i bisogni profondi dell’uomo (la perdita progressiva dei valori tradizionali sia di destra che di sinistra). Nella società, l’eccesso di spettacolarizzazione di ogni evento, la medializzazione della realtà, i reality show che veicolano comportamenti di ipermodernità degenerata, il nulla spacciato per massima apertura dei costumi, per progresso. Nell’editoria, sperimentazione e ricerca sacrificate sull’altare della vendibilità, del mass market, del sensazionalismo splatter.
Sulla criticabilità dell’oggi concordo appieno, ma ahimè temo che sia una scorciatoia troppo facile quella di vedere il pericolo solo nella “restaurazione”, laddove invece la realtà è assai più complessa e contraddittoria. Sospetto inoltre che le progressive e mirabolanti sorti dell’umanità, si stiano inoltrando pericolosamente verso oscuri e inesplorati baratri di una non sufficientemente analizzata modernità. E se il pericolo vero fosse proprio questo?
giusto una precisazione per i lettori di NI che credono che ANCHE la poesia non sia marginale (perché ANCHE la poesia è letteratura), oltre al pezzo-cuneo di Moresco, è già stato postato un pezzo sul tema dell’editoria (di POESIA) il 3 aprile: “DA 10 ANNI IN QUA, PUBBLICARE POESIA” di ANDREA RAOS; lo consiglio a chi è interessato alla questione, e anche a coloro che hanno sollevato giustamente il problema della NEOAVANGUARDIA; perché oltre alle indubitabili luci, ci sono anche delle ombre da considerare
(e poi bisognerebbe scavare oltre la stessa neoavanguardia: ci siamo dimenticati di EMILIO VILLA, SPATOLA, CACCCIATORE, della NICCOLAI, CORRADO COSTA, ecc. ecc.)
giusto una precisazione per i lettori di NI che credono che ANCHE la poesia non sia marginale (perché ANCHE la poesia è letteratura), oltre al pezzo-cuneo di Moresco, è già stato postato un pezzo sul tema dell’editoria (di POESIA) il 3 aprile: “DA 10 ANNI IN QUA, PUBBLICARE POESIA” di ANDREA RAOS; lo consiglio a chi è interessato alla questione, e anche a coloro che hanno sollevato giustamente il problema della NEOAVANGUARDIA; perché oltre alle indubitabili luci, ci sono anche delle ombre da considerare
(e poi bisognerebbe scavare oltre la stessa neoavanguardia: ci siamo dimenticati di EMILIO VILLA, SPATOLA, CACCCIATORE, della NICCOLAI, CORRADO COSTA,? ecc. ecc.)
Scusate, Mozzi aveva fatto una domanda precisa “in pratica come si fa?”. Non dico che il quadro teorico non si possa approfondire, però se uno fa una domanda bisogna rispondergli, se no sembra un vecchio film di Antonioni.
Andrea, a quale domanda di Mozzi tiriferisci? Se è al suo ultimo pezzo io ho cercato di dare una piccola risposta, nei commenti.
Condivido in pieno quello che dice Silvia Brusotti. Nemmeno io vedo in atto una Restaurazione, vedo piuttosto uno svanimento. Svanimento del senso delle cose. Anche a me non è chiaro che cosa si starebbe restaurando, quale posizione di potere. Invece mi sembra molto evidente che il “Genocidio culturale” (Carla Benedetti) sia in atto, così come vedo l’azione devastatrice dei “puri meccanismi economici e monopolistici” (Antonio Moresco).
L’economico ha scavalcato il politico, e l’artista resta a guardare. E’ il suo destino? Deve fare qualcosa? Può fare qualcosa? Io mi faccio queste domande. E per cominciare a rispondere mi dico che la marginalità può essere un ripiego provvisorio, a volte necessario, ma non può essere programmatica. Altrimenti diventa troppo simile al silenzio e all’inazione. Per me bisogna fare un patto con Mefistofele, per sfidarlo sul terreno fondamentale: la questione del senso. Mefistofele è la perdita del senso delle cose, il vuoto meccanismo tecnico. Non ci si può ritirare, lasciandogli il campo libero. E la prima cosa da fare è guardarlo bene in faccia, conoscerlo chiaramente, per non confonderlo con un fantomatico Restauratore.
Una chiosa per Andrea Inglese, quando scrive: “ci siamo dimenticati di Emilio Villa, Spatola, Cacciatore, Nicolai, Corrado Costa”… e perché non aggiungere: di Patrizia Vicinelli, di Torricelli (che agli incontri del Gruppo 63 si prendevano elogi e complimemti leggendo i loro testi)… No, non credo che la questione neoavanguardia vada impostata così. Brevemente, io sostengo che la neoavanguardia nel suo complesso MAI è stata marginale, anzi il contrario, e che a livello di singoli aveva raggiunto posti di potere culturale, editoriale, politico ragguardevoli. Ma per passare ai nomi che cita Inglese, bisogna fare un passo indietro, entrare stavolta in merito al giudizio critico (una cosa che s’è persa con gli anni nel mare di una falsa oggettività scientifica, e non è stata solo colpa dello strutturalismo) e chiederci se le opere di quei poeti avevano e hanno valore poetico tale o dignità formale sufficiente da poter dire che sono stati ingiustamente dimenticati. Nell’elenco c’è un po’di confusione, e se i testi di Cacciatore o Villa (due poeti che sono sempre stati a cuore ai nipotini neoavanguardisti radicali) li posso considerare oggettivamente validi, quelli di altri neoavanguardisti decisamente no. Perché, a proposito di marginalità, sono rimasti marginali (a parte imperdonabili e colpevoli omissioni: non sono convinto che il corso della storia faccia di per sé giustizia) molti che bivaccavano ai margini della neoavanguardia, e che marginali più che volerlo a livello di scelta lo sono divenuti malgrado loro. Quando uno scrittore mette tutta la sua vita nello scrivere, la prima coa che non vuole è restare marginale. Semmai viene emarginato (ma è tutt’altra dinamica “verbale”) per i temi che tratta o lo stile che usa dall’establishment cultural-politico. Tanto per precisare, e perché la chiosa non diventi un trattato.
robeh su un sacco di cose siamo d’accordo:
1) la neoavanguardia (gruppo 63) non è stato marginale; (ma altri autori, “sperimentali”, di area neovanguardista sono invece stati emarginati – rimasti marginali)
2) dobbiamo verificare, con giudizio critico sui testi, se Corrado Costa o Adriano Spatola o Emilio Villa sono stati ingiustamente emarginati (per Villa, il lavoro è già avviato: vedi Aldo Tagliaferri, vedi tra i giovani critici Cecilia Bello)
3)l’elenco è confuso: ogni elenco è confuso:
elefante, kilometro, dente, quasar, posticipazione
sulla marginalità in poesia c’è invece parecchio da dire e da chiarire, ma soprattutto da leggere, commentare, criticare, prima di sentenziare giuste sepolture e dimenticanze
imo:
postmoderno è (anche, tra le altre cose) la reazione interna dell’arte e della filosofia “borghesi” agli aspetti totalitari del progetto modernista e alla dittatura dell’io razionale sul corpo senza organi – in tal senso trattasi di progetto radicalmente auto-emancipatorio – nonché il primo approccio complesso con la propria estinzione/superamento, cioè con l’estinzione della “grande borghesia” come classe separata (cfr Agamben) dentro la più vasta trasformazione di classe post-fordista che data dagli anni ’60’ del novecento, con l’avvento del lavoro imamteriale (incorporazione del linguaggio nella produzione, cfr Virno, Negri, Marazzi), la sua segmentazione interna, la divisione planetaria del lavoro e con l’esplosione della società e cultura di massa: ossia con l’esplosione dall’interno del contraddittorio ma fenomenale progetto emancipatorio interno alle classi prefordiste e fordiste durante la loro lotta secolare.
Il che non significa affatto “fine della storia”, delle classi o del comando (lettura iperliberista), ma di certo non significa nemmeno apoteosi del dominio (lettura tipicamente M-L e spiritualista): piuttosto è il riposizionamento dei piani, la radicale torsione e il rilancio del paradigma emancipatorio su un nuovo livello e con una nuova radicalità.
In tal senso il postmoderno artistico si è presentato volta a volta, ad esempio, secondo i caratteri del riflesso, dello specchio, della decostruzione e con molti altri ancora (così che pretendere di usarlo come etichetta onnicomprensiva di una corrente o una tecnica o una posizione politica è almeno scorretto). Vedere in ciò un ripiego o una remissione significa non essere all’altezza dei tempi (Le letture di Habermas e persino di Jameson sono drammaticamente attardate).
A tale enorme fenomeno culturale e sociale, per sua natura complesso e contraddittorio (come ciò che l’ha preceduto, del resto), non si risponde opponendogli volontaristicamente – e semplicisticamente – gli ideali umanistici (cioè appunto i presupposti borgesi del modernismo, francamente improponibili) o qualche vago frontismo o alternativismo da nuova sinistra vecchia maniera, o addirittura il richiamo ai “fondamenti forti” (che, o sono religiosi o non sono: il che spiega lo spirito vigorosamente anti-postmodernista di tutti i neo-con e identitarismi vari – se siamo alla catastrofe, “solo un dio ci può salvare”. Ma “non siamo”, appunto).
Si risponde piuttosto raccogliendone la sfida e prendendone sul serio le domande.