Capirci qualcosa
di Franz Krauspenhaar
Sto anch’io leggendo quotidianamente su NI, da qualche tempo, una quantità smisurata di lettere aperte. Cioè, non sono proprio aperte: sono lettere di Carla Benedetti a Giulio Mozzi, di Giulio Mozzi a Tutti, di Giuseppe Caliceti a Carla Benedetti eccetera eccetera. Tutto è partito da un pezzo di Antonio Moresco, La restaurazione. Ma che ve lo dico a fare?
E’ un discorso di mezzo, vale a dire di internet. Nessun discorso è a mezzo, invece: chi più chi meno, chi con un uppercut chi con un colpo d’incontro, sta menando pubblici fendenti. Ed è come – tornando al mezzo mediatico internet- se queste lettere personali scritte di getto e con passione venissero aperte da tutti. Non solo: internet ti permette di dire la tua a tutti (anche sotto falso nome) a proposito di queste stesse lettere. Che infatti non sono semplici missive: sono prese di posizione, con eventuali aggiustamenti fatti nella lettera aperta successiva magari a mente più serena. E dunque sono lettere personali pubbliche. E pertanto non sono più personali. E carta – seppure informatica- canta, canta eccome.
Essendo confusionario per natura ammetto di non raccapezzarmici più. Ero rimasto indietro: ancora riflettevo sull’ ipotetico scontro in atto, di cui ormai mesi fa s’era abbondantemente parlato, tra letteratura popolare e letteratura di progetto, e sulla monocultura del bestseller. Al massimo vedevo profilarsi la non proprio simpatica figura da bon vivant di Piperno in sostituzione di quella sorniona di Faletti come bersaglio mobile tra una presentazione e una comparsata in tivu e l’altra.
Ma ora: cos’è la restaurazione? Non è una controspinta che segue a una rivoluzione? Sarò schematico, ma dov’è l’avete vista, voi, la rivoluzione?
Se una rivoluzione c’è stata, io non c’ero. E se c’ero, sicuramente dormivo. Dove? Sui banchi di scuola. Oppure non ho visto nulla, commissario, glielo giuro… Ma si, per dio, quale rivoluzione?
Non posso negare che certe argomentazioni messe sul tappeto (tipica espressione anni 70) siano a prova di bomba ( le bombe – residuati anni 70 anche queste- continuano a esplodere ma ormai lontano da qui, e per nostra fortuna): esiste un generale appiattimento che comunque non è, come tutti voi qui, nato ieri. Ma ora che non si puo’ più sparare unicamente sul poliziotto o sul serial killer (sostituti del pianista dei peggiori western), perché a quanto ho capito Piperno non è uno scrittore di genere, bisognerebbe capire subito con chi prendersela veramente, con quale genere o sottogenere o paragenere. Il giallo è salvo, insomma!… Champagne per tutti!… Prendersela dunque con l’ideologia (?) che sta alla base della poetica di Piperno, per esempio? Cioè con un’ideologia dello status quo? Con l’ideologia del disimpegno? Con il riflusso, partito negli anni 80 e mai più arrestatosi? Siamo dunque in una continua emorragia? Siamo allo sfascio, alla frutta, al si salvi chi puo’? Piperno sarebbe il cantore sottotraccia del berlusconismo, per caso? E’ questa la restaurazione?
Oppure per restaurazione s’intende che lo scrittore, questa figura ancora mitizzata soprattutto in questo nostro paese di non lettori ma di portentosi scrittori che – mancando i lettori come nel Sahara manca l’acqua – si leggono tutti fra loro per forza, ha perso un po’ di (concedetemi l’espressione da spot pubblicitario) appeal? O no, ma quale appeal? Quella è roba per sfilate e sfilatini di Guccipradarmanivalentinoversace: l’appeal è roba da postmodernisti che hanno abbassato la guardia, fottuti disimpegnati che fanno lingua in bocca con l’art pour l’art. O no? Dunque qui, mi è parso di capire, è in gioco la definizione del ruolo dello scrittore diciamo così impegnato (e ovviamente di sinistra) all’interno della società dei media visivi ancor più che quello della letteratura rigorosamente con la elle maiuscola. Secondo me infatti la letteratura – minuscola o maiuscola che sia – non esiste: è come dire che esiste la filosofia. Meglio dire, a mio avviso, che esistono pensieri creativi, che sono la benzina – spesso verde, molto più spesso no – di tutto ciò che la mente umana produce con intellighenzia. A cui seguono parole, opere, omissioni, e per nostra maxima culpa ecc. Esistono idee che possono essere sviscerate con teorizzazioni pure (filosoficamente) e idee che vengono buttate fuori, sulle pagine dei libri e ormai anche del web, attraverso opere di fantasia, attraverso poesie, racconti e romanzi, attraverso narrazioni e visioni scritte. Idee che possono cambiare la nostra vita.
Sono secoli che si dice che il romanzo è morto. Quello, il fetente, però risorge sempre. Il romanzo è la restaurazione incarnata in fogli stampati; il romanzo, dirò di più, è il risorgimento in continua restaurazione. Non lo ammazzerai mai, il romanzo, perché oltretutto se fai fuori i romanzi togli possibilità ai vampiri mediatici (televisione e cinema) di succhiarne il sangue, cioè le idee, le trame, la linfa vitale. La nostra vita è un romanzo. Tutto ciò che è narrazione, di qualunque specie, sotto qualunque forma, si riconduce al romanzo, che oggi come non mai è vivo: soltanto che è vivo soprattutto altrove, fuori dalla letteratura, vale a dire fuori dalla carta stampata, è insomma vivo di sponda, per procura. E’ vivo al cinema, ancora di più in tivu. Vivo e, spesso, vegetativo…
Non è un mistero e nemmeno una novità che oggi quella che chiamiamo letteratura si stringe in un abbraccio talvolta mortale con il cinema, con gli altri mezzi di comunicazione delle idee e delle emozioni, dell’immaginario, con i mezzi narrativi di altra specie. Non soltanto esiste un rapporto succube di vampirizzazione: anche 80 e passa anni fa – in pieno mutismo cinematografico- molti romanzi (non soltanto popolari) venivano adattati per lo schermo, fatalmente. Oggi però assistiamo a qualcosa di ancora più interessante e per nulla negativo: i romanzi nascono anche dalla contaminazione (effettuata già sulla pagina, nell’atto dello scrivere) con il cinema, per cui di un romanzo di Ammaniti (per fare un esempio a mio avviso calzante di narrativa di successo e al contempo di qualità) diciamo che si tratta di un libro “cinematografico”. Il fatto è che il pubblico contemporaneo è stato invaso da sempre da immagini filtrate, e dunque anche nella cosiddetta letteratura il lettore vuole vedere, vuole “leggere” immagini. Anzi no: non è proprio che le vuole leggere, queste immagini; è che – volente o nolente – pure un lettore forte, oggi, è anche o soprattutto un voyeur incallito di immagini provenienti da uno schermo. E lo stesso scrittore, spesso – che non è il figlio della gallina bianca o l’eroe solitario in lotta con la balena anch’essa bianca ma è anch’egli lettore, voyeur e fruitore d’immagini – senza nemmeno rendersene conto (altrimenti sarebbe meno sorgivo e spontaneo, sarebbe poco ispirato, sarebbe solo un mestierante della scrittura nonché cacciatore quasi sempre illuso di bestseller) attacca la sua vorace bocca non alla canna del gas – non subito, perlomeno- ma alla fontana delle immagini – visive, viste – con le quali è cresciuto e continua a crescere.
Mi si potrà obiettare: ben prima che nascesse il cinema, ben prima che si assistesse al famoso arrivo del treno dei Lumière, la letteratura ti faceva “vedere” immagini, è sempre andata così: immagini realistiche o naturalistiche (prendo come esempio sempre francese Zola) o fantastiche (es. Poe). Per non parlare delle immagini “profetiche” di Verne.
Certo, ma allora non esistevano i vampiri mediatici che ti compravano letteralmente. Finché si arriva al discorso che molti bestseller o aspiranti tali vengono scritti (anzi pensati a tavolino) come una successione di scene cinematografiche preconfezionate. Vengono scritti come si scrivono le sceneggiature, vale a dire per passare al girato, sono praticamente dei trattamenti cinematografici travestiti da romanzo. Sono dei trans, ecco… Solo che le sceneggiature – piattaforme di carta – sono destinate al cestino della carta straccia, vengono buttate via non appena si passa sul set, mentre i romanzi restano impilati nei magazzini e fanno poi il loro giro delle settecentosettantasette chiese d’Italia, vedi librerie; quando ovviamente va bene. Sono letteratura.
Forse, e qui mi azzardo a dire ancora la mia senza avere risposte certe (giammai, io cerco davvero di capirci qualcosa e forse non la finirò mai perché la realtà è troppo complessa per essere capita da chiunque, e io sinceramente non mi fido totalmente di nessuno come non mi fido di me stesso) non è solo colpa dei mediatori culturali, dei critici, degli stessi scrittori, se assistiamo e soprattutto subiamo questo innegabile appiattimento generale. Perché nessuno finora ha chiamato in causa i lettori? I lettori sono scimmie ammaestrate? Io non lo credo. I lettori sono i destinatari di questa comunicazione artistica che chiamiamo letteratura. Molti comprano i bestseller perché vi ci trovano una consolazione a buon mercato, certo, molti altri comprano il bestseller come inducente alternativo del sonno, molti altri ancora comprano il libro del momento perché così fan tutti, e se così fan tutti, perché io no?… Il più grande movimento di pensiero – e quindi d’azione- del genere umano di origine occidentale è da sempre il conformismo, infatti: e questo conformismo è spesso il risultato di cattivi insegnamenti e di cattivi esempi. Se nelle scuole ti insegnano a odiare con tutto te stesso la cultura mentre intanto a casa ti insegnano a strappare l’erba del vicino sempre più verde, e se, molto semplicemente, un professore di liceo di buona volontà ma di vita dura deve gareggiare la mattina a colpi di Pascoli contro le trendystronzate che Maria De Filippi propinerà ai suoi stessi alunni al pomeriggio, è chiaro che, a questo dolentissimo punto della questione, anche lo scrittore deve uscire dal suo antro viscerale e particulare e raccontare qualcosa di forte e di avvincente, deve essere uno judoka e battere l’avversario usando le sue stesse armi ma in maniera veramente artistica. Deve appassionare e soprattutto convincere. Senza abbassare le braghe davanti al conformismo e alle mode, senza licenziare la propria dignità e la propria intelligenza e la propria superiore sensibilità.
C’è un mondo là fuori che quasi esige di essere raccontato in tutte le maniere possibili e senza troppi artifici e senza troppa retorica: dobbiamo soltanto farlo nostro non solo per tenercelo stretto come un premio possibilmente letterario, ma soprattutto per regalarlo magari stravolto, sicuramente rianimato, agli altri, ai lettori. Questo è secondo me il vero impegno da prendere: tutto il resto è teoria. Tutto il resto, francamente, è noia.
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Io ci ho provato, a chiamare in causa i lettori, in un commento a un post di Mozzi. Lo dico da profano, cioè da uno che fa un altro lavoro e che legge e scrive per hobby, per cui probabilmente in modo molto molto naif e privo degli strumenti necessari per affrontare una discussione così complessa e articolata, ma la mia impressione è che all’origine di molte nefandezze giustamente denunciate qui da chi è più autorevole di me, forse c’è proprio la cronica penuria di lettori. Anzi, per usare una terminologia economica più adatta, perché l’economia è ormai l’alfabeto del mondo: a causa di un ristretto bacino d’utenza. I clienti di bestseller, quelli che leggono durante le feste, sotto l’ombrellone o in baita, non sono pochi e si sa cosa vogliono. Hanno la sindrome del carcerato – forse perché nell’intimo sanno di vivere gran parte della loro vita in condizione di asservimento, a tal punto da definire “tempo libero” le ore che gli rimangono terminato il lavoro – ed esigono l’evasione, qualcosa che li distragga dai pensieri angoscianti.
Ma i c.d. lettori forti, gli appassionati della letteratura alta (o radicale o quello che sia)
sono, oggettivamente, una minoranza ininfluente,
statisticamente ridicola (pare non più di 20.000).
Quand’è che capita che un libro importante sfondi
questa barriera, raggiunga un numero maggiore di lettori? Quando si crea il caso. Ricordo Houellebecq appena tradotto in Italia, le accuse di pornografia, di razzismo verso l’Islam…
Le recensioni vere e proprie, che si occupavano del libro rintracciandone influenze e apparentamenti (Camus, Céline, Cioran), analizzandone struttura e linguaggio, erano poche e confinate negli “appositi spazi” (riviste settoriali). Ed è curioso perché proprio Houellebecq, nel suo primo romanzo (secondo da noi), intitolato “Estensione del dominio della lotta”, disquisiva anche di questo fenomeno; e cioè di come le strutture mentali e linguistiche dell’economia abbiano contaminato ambiti diversi
come quello sentimentale. Ricordo l’estate scorsa di aver ascoltato una donna che raccontava della fine di una sua relazione adoperando espressioni mercantili (“ho investito tanto in quel rapporto”, “me l’ha venduta così”).
Se i bee-jay occupano spazi non loro, se gli editor preferiscono pubblicare letteratura di genere e disimpegnata, se è vero, infine, che
molti consulenti editoriali sono più manager che talent scout, questo dipende a mio avviso dal fatto che della letteratura alta frega a pochissimi e che la logica del profitto si è
imposta anche al mondo della cultura. Le mostre che riscuotono maggior successo sono quelle sugli impressionisti, anche se sono di fatto accozzaglie di opere senza alcun filo logico, e questo perché gli amanti dell’ “auction painting”, cioè coloro che ammirano solo ciò che il mercato delle aste ha consacrato, sono la maggioranza e determinano il successo di qualsiasi rassegna. Poi, certo, esistono le connivenze, i giornalisti culturali che creano l’ “evento” e tacciono il carattere truffaldino e di improvvisazione di queste rassegne, in cui il curatore inserisce anche opere proprie o degli amici per farne aumentare il valore, e queste vanno denunciate e segnalate; ma sempre essendo consapevoli che, finché non si allargherà il pubblico capace di apprezzare opere di pregio,
le magagne continueranno ad esistere. Ed è allora magra consolazione constatare che, come dice bene Carla, l'”Etica” di Spinoza vendette pochissimo ma influenzò il nostro modo di pensare e di vedere il mondo più di qualsiasi bestseller.
Come lettrice mi piacerebbe vedere raccolto questo dibattito in un unico testo (anzi, in un unico corpo). Perché riesco a cogliere molti punti di unione, nonostante le differenti tensioni (e soluzioni ipotetiche avanzate).
Dopodiché, come qualcuno ha riportato (su proposta di nonricordopiùchi), sta agli autori (e agli editori stessi, agli editori “un po’ indiani” in primis) impegnarsi nel mantenere vivo e propositivo questo confronto-scontro, nel farlo conoscere a un pubblico più vasto possibile e nel farlo fruttare. Continuando a scrivere, certo, ma con una sorta di “base” (o di “insieme d’intenti”) comune, a prescindere dalle peculiarità di ciascuno.
Franz Krauspenhaar ha ragione a temere che in realtà l’agognata rivoluzione potrebbe non essere ancora avvenuta. Perché parte dalla restaurazione, definendola controspinta. Io non ho mai avuto sentore di una rivoluzione precedente. Però se penso al termine restaurazione lo interpreto NON come una reazione negativa a qualcosa, ma come un “agire per mantenere e peggiorare” una situazione già esistente, quella della noia della superficialità della banalità della trendytudine dell’appiattimento del bestselleraggio casuale. Insomma un percorso, un crescendo voluto di pecoritudine. La vera reazione è quella che sta piano piano nascendo, quella rivoluzionaria, che vuole scavare da fuori e da dentro e cambiare le cose. E questo dibattito che cresce, si inciccionisce e distende sempre più braccia mi fa sperare che un bel giorno abbracci tanti, tanti lettori (me compresa) e li strappi alla mollezza. La rivoluzione? Forse è già partita. Anche io vedo questo “insieme d’intenti”.
caro franz, anche io in un commento a mozzi, giorni fa ho scritto “vorrei far notare che in questa discussione è completamente assente non dico in carne ossa ma anche in specie ideale il destinatario di questa richiesta, aspirazione, lotta per la centralità. e cioè il lettore. ma questa centralità, in fondo, a vantaggio di chi dovrebbe essere? a vantaggio di noi lettori (mi ci metto di gran carriera, perché prima che lavoratrice del libro io mi sento lettrice tout-court) o per “voi” letterati, scrittori, critici ecc. perché se la risposta è la seconda, accidenti ho solo perso del gran tempo…” ottenendo la seguente risposta di scarpa “Cara Paola, non mi sembra affatto che il lettore sia assente. Antonio Moresco ha fatto la sua analisi (o, come dice Giulio, la sua profezia) sulla restaurazione anche come lettore, anche come consumatore o acquirente di un’offerta culturale. E a questa discussione stanno partecipando anche non pochi lettori, mi pare (…)Se poi mi stai dicendo che i contributi dei lettori non sono in home page, be’, la rete ormai ha libero accesso, bastano pochi minuti per aprire un blog e venire qui a segnalare con un link o la trascrizione di un indirizzo http con un intervento. Posted by Tiziano Scarpa at 14.04.05 18:04” Ora se perfino scarèpa – che essendo la persona più pacata dovrebbe essere anche quella più in grado di “capire” e insomma, almeno rispondere a tono, ecco io mi scoraggio. comunque grazie di questo intervento
Anch’io faccio fatica a raccapezzarmi, soprattutto perché non capisco le suddivisioni in griglie, in settori e generi. Mi capita anche con il cinema. Mi sembrano spesso schematismi buoni per una visione sociologica (o un esercizio da svolgere in quella palestra fatta di quadrati semiotici… ah Greimas!).
Per quanto riguarda i rapporti con il cinema, due notazioni: 1) la grande lezione di sguardo di molta letteratura americana degli anni ’40; Faulkner, Dos Passos – appunto – non scrivono sceneggiature (anche se F. lavora a Hollywood, con Hawks tra gli altri), ma costruiscono testi che somigliano a sequenze letterarie, organizzandole come fossero inquadrature e movimenti di macchina (le ellissi di F. sono così ardite che solo pochi cineasti hanno saputo fare tanto: Bresson di certo, oggi mi viene in mente certo cinema orientale, e Claire Denis: il suo ultimo film che immagino non arriverà mai in Italia, L’intrus – tratto da un testo di J.L. Nancy e debitore dello Stevenson di Nei mari del sud – è così ellittico, che davvero ci si perde… ma è ellittico perché come in F. c’è un segreto, un cuore di tenebra da nascondere e celare). 2) L’altro problema – dici tu – è che si scrivono spesso libri che sono sceneggiature pronte. Vero. Il vero tragico problema è che restano tali anche sullo schermo: sceneggiature appiccicate allo schermo. Ma un film è ciò che non si può raccontare! Altrimenti è letteratura. Cattiva letteratura è ciò che restano questi brutti film, spesso italiani.
Per quanto riguarda le lettere aperte o chiuse, preferisco quelle “non d’amore” di Sklovskij:
“Ti è stato difficile vagare per la steppa e fare prima il soldato, poi la guardia notturna per dei magazzini, ed infine, semiprigioniero, partecipare a Char’kov ad una rumorosa esibizione di immaginisti.
Perdonaci per te e per gli altri che uccideremo.
Per il fatto che ci riscaldiamo presso fuochi altrui.
Lo stato non risponde della morte violenta degli uomini; al tempo di Cristo non capiva l’aramaico e, in genere, non capisce mai la lingua umana.
I soldati romani, che inchiodavano le mani di Cristo, non sono più colpevoli dei chiodi.
Eppure, per chi è crocifisso, è molto doloroso.
Un tempo si pensava che Chlebnikov non si rendesse conto di come viveva, che non vedesse come le maniche della sua camicia fossero strappate fino alle spalle, che la rete del letto non era coperta dal materasso, che i manoscritti, con i quali riempiva la federa, andavano persi. Eppure, prima di morire, si è ricordato dei suoi manoscritti.
E’ morto in modo orribile. Di setticemia.
Hanno circondato il suo letto di fiori.
Nelle vicinanze non c’era un medico, c’era solo una dottoressa, ma da una donna non si fece avvicinare.
Ricordo il passato.
Accadde a Kuokkala, era già autunno, quando le notti sono buie.
In inverno, avevo incontrato Chlebnikov a casa di un architetto.
Una casa ricca, i mobili di betulla di Carelia, il padrone pallido, con la barba scura, intelligente. Aveva delle figlie.
Qui veniva Chlebnikov. Il padrone leggeva i suoi versi e li capiva. Chlebnikov era simile a un uccello malato, scontento che lo si guardasse.
Simile a tale uccello, stava seduto, con le ali abbassate, in un vecchio soprabito e osservava la figlia del padrone.
Le portava dei fiori e le leggeva le sue opere.
Le ha ripudiate tutte, tranne Il Dio delle Vergini.
Chiedeva a lei come scrivere.”
Chissà se Chlebnikov sapeva dove stava andando la letteratura…
(Dedico queste righe a tutti i restauratori: o presunti tali)
richiesta fuori tema: vorrei poter stampare tutti gli interventi CON i relativi commenti, per leggerli con calma e in modo tradizionale. al momento, però, è un’operazione che richiede, per me, troppo tempo.
oltre a seguire eventualmente il suggerimento di Giulio di rendere accessibili i commenti dalla homepage senza dover passare per gli archivi, che ne dite di creare una versione stampabile dei testi (non so come si fa, però spesso in internet si trova la voce “per la stampa” o qualcosa di simile). grazie
monica
Gli scrittori di Nazione Indiana, ed in generale gli scrittori che si affacciano su Internet (io penso che quelli davvero “sazi” non lo facciano) sembrano sinceramente convinti che il cosiddetto “lettore” avrebbe tutto da guadagnarci a leggere loro, invece che i prodotti “appiattiti” dell’industria culturale. Essi prendono per implicite delle assunzioni in realtà piuttosto forti, come quella di fare della letteratura “alta”, una letteratura cioé che oltre a divertire saprebbe trasformare il lettore da “pollo in batteria” in qualcosa di indefinito, ma indubbiamente migliore.
Se le cose stessero davvero in questi termini, bisognerebbe davvero immaginare il mondo come opera di un demiurgo incapace (o burlone) o per lo meno l’azione sotterranea di qualche diabolico “grande vecchio”.
Ma come? Io ti offro le delizie dello “slow food” e tu mi preferisci le porcherie del “McDonald”?
Visitando blog e siti, ci si accorge che in effetti il pubblico “non lettore”, o lettore d’altri, è per lo più odiato, disprezzato, sbeffeggiato, o tutt’al più “compatito”, dagli aspiranti autori. E qui non c’è proprio nulla di nuovo, il “double-bind” schizofrenico tra l’ “artista” ed il suo “pubblico” è già stato sviscerato in mille geniali maniere, però in genere – prima del “postmoderno” – si poteva forse accettare con maggiore serenità l’eventualità di lavorare per una gloria postuma (in fondo non c’era la TV a farti schiattare continuamente di invidia) e dunque si riusciva ad “elaborare” relativamente “in pace”, con eccezionali benefici sulla qualità del risultato finale.
Ora questo “doppio vincolo”, lungi dal dipanarsi sembra invece esacerbarsi: quelle attitudini ed urgenze che potrebbero trasportare una certa quota di “lettori in batteria” dentro l’orbita di questi nuovi scrittori (diciamo così, un po’ più “complicati” ed “autentici” degli altri) sono, ahimé, le stesse che possono innescare in loro quel “lavoro sull’Io” (terribilmente autogratificante) che li renderà a loro volta dei potenziali scrittori, piuttosto che attenti ed amorevoli lettori. Quindi magari utilizzeranno il tempo (sempre scarso) a loro disposizione per leggere saggi, o le sole opere letterarie che trovino un “senso strategico” entro i loro piani di autoaffermazione. In fondo Harold Bloom ha ben descritto, nel suo “canone occidentale”, quanto poco gli “autori forti” si interessino di quel che fanno i colleghi – fatta eccezione per quei pochi capaci d’imporre loro un’ansia da influenza.
E’ sembre molto brutto vedere qualcuno impegnarsi nel rimuovere la scala dalla quale egli stesso è salito: questi processi germinali – che trovano la propria espressione visibile nei blog – non vanno sbeffeggiati ma capiti, anche quando le dinamiche generali sembrano andare a discapito di certe “tenere” speranze, comprensibilissime ma arbitrarie, per le quali sembra allora rimanere aperta una sola via: quella di lasciare i “polli” nella loro “batteria” ed acquisire piuttosto il controllo dell’allevamento. Impegnandosi cioé soltanto a variare la dieta dei poveri polli, a renderla un pochino più equilibrata, ma non certo a liberarli.
Off topic, ecco l’orario dell’incontro di Nazione Indiana alla Fiera del libro, secondo le informazioni del sito della Fiera:
Lunedì 9 maggio
Ore 16:30
Sala Rossa
Nooo! Il dibattito nooo!
:-)
elio-c, a dire il vero io mi sento più ottimista. Anche Bréton era incazzoso con gli altri suoi compari, probabilmente assai autoreferenziale, però il “suo” manifesto surrealista degli anni venti a qualcosa è servito e qualcosa ha cambiato. Meno male che lui e altri (con alcuni dei quali c’è poi stata una rottura, ma chissenefrega, fanno bene anche quelle) hanno discusso fra loro!
Scusate l’autosegnalazione: ho lasciato un post in cui c’entrano i lettori nei commenti dell’ultimo pezzo di Giulio Mozzi.
Off topic, ecco l’orario dell’incontro di Nazione Indiana alla Fiera del libro, secondo le informazioni del sito della Fiera:
Lunedì 9 maggio
Ore 16:30
Sala Rissa
Premetto che se le mail dei due interlocutori sottostanti non si negassero a ricevere messaggi, non avrei postato qui questo post, col rischio di beccarmi i rimbrotti di Governi o rimpirlo di refusi à la Angelini.
Per Carla Benedetti.
Continuo a non capire (forse mi sono perso qualche puntata di post) il rapporto che fai o che vedi tra neoavanguardia e postmoderno. Ma questo è a sua volta marginale rispetto alla confusione che è sorta nel dibattito tra letteratura (e arte) ed etica (comportamenti, ruoli, ecc.) dello scrittore e/o dell’intellettuale. Non c’è niente da fare: il mezzo condiziona lo stile, oltre la forma mentis, e nel mio caso devo ancora abituarmi alla diversità di scrittura che impone un blog, un post. Comunque, se di emarginazione è lecito (e meglio) parlare rispetto alla staticità del fenomeno “marginalità”, allora la prossima mossa dovrebbe essere quella di re-interrogarci sul mandato e sul ruolo dello scrittore, ossia re-imPOSTare il tutto, magari ricordando anche posizioni troppo frettolosamente liquidate nell’era (spirituale) del postmoderno come quelle di Fortini (mi scuso con gli allergici). E tenere ben presenti i confini tra letterario ed extraletterario, ossia la specificità e la non-correlazione tra l’oggetto letteratura e il soggetto scrittore. Perché a mio avviso non si fanno passi avanti nel dibattito ricorrendo a metafore macchinistiche o ad allegorie sul funzionamento della macchina (il macchinismo lasciamolo al secolo in cui è sorto, ossia al Settecento).
Per Andrea Inglese..
Sono almeno tre decenni che quando si parla di marginalità (o meglio di emarginazione) saltano fuori i nomi di Emilio Villa o di Cacciatore. Li facevano tempo fa i romani (Filippo Bettini e quelli di “Quaderni di critica”), poi li ri-fecero quelli del Gruppo 93, sempre con un tono un po’ carbonaro, da commemorazione dei martiri. E adeso sono rispuntati su NI. Ma l’emarginazione, come processo culturale e politico messo in atto dalla
cultura dominante, in Italia sta tutta lì? Se non ricordo male Cacciatore doveva entrare, e a pieno diritto aggiungo io, nell’antologia I Novissmi, ma all’ultimo momento venne escluso. Se ciò è vero, si apre un
ulteriore scenario che indica come anche tra chi lottava contro l’emerginazione per affermarsi giocava un potere di esclusione non meno forte di quello dominante. Non solo, ma anni fa un piccolo editore (Manni) ha cercato di rimediare a siffatta emarginazione, e perfino il
Corriere si era scomodato a recensire positivamente il libro, quindi anche ai marginali i media, benché tardivamente, sono disponibili a conferire una laurea
honoris causa. Il che ci dice che la natura, le dinamiche, le “facce” del potere culturale dominante non sono così semplici da decifrare, se non si mettono in campo elementi analitici che vadano al di là della semplice denuncia.
Ops! scusate per questo doppione, non mi ero accorto di avelo già postato in un’altra casella. Ho fatto un po’ di casino, chiedo venia. O se no: al petto, Ramon!
Forte la “Sala rissa”…;-)
Elio ormai è la voce della nostra coscienza… Polli da batteria, polli ruspanti… Non me ne volere: ma hai dimenticato di parlare del tuo sponsor, che spero diventi anche il mio quanto prima, il grande Francesco Amadori.
Io personalmente non penso ci sia un grande vecchio che tira le fila del gioco. Ci sono delle storture un po’ dappertutto, ma insomma io volevo soprattutto dire che, al di là di tutto, esiste il LETTORE. Il lettore non è che va blandito a tutti i costi, ma è con quello che uno scrittore comunica: altrimenti si finisce per scrivere per chi? Per i “colleghi”? (parola che mi dà pure fastidio)Per i posteri? Per i post?…
A r.c.: quello che dici mi trova d’accordo, hai fatto un’analisi lucida e piena di sintesi, insomma hai sviluppato il discorso sul rapporto tra letteratura e cinema che non nasce di certo oggi.
A Monica, che fa una domanda secondo me importante perché pratica: spero che, perlomeno, si riesca ad accedere presto alla colonna dei commenti direttamente dalla homepage, come si era ventilato nel passato recente. Questo per rendere il blog collettivo più diretto.
solo tre brevissime note sul romanzo. 1) il problema non è se sia morto, ma se sia l’unico vivente, come pensano gli editori e non solo loro 2) ogni narrazione è romanzo? ma una cosa è la rappresentazione, altra la frottola, in cui rientra infine il romanzo 3) è innegabile che i linguaggi iconici hanno una maggior potenza rappresentativa: meglio dunque sfruttare lo specifico della scrittura, la sua capacità di negazione e duplicazione, e conseguentemente di astrazione, piuttosto che ostinarsi a rappresentare flosciamente ciò che sarà davvero rappresentato dal cinema