Un’editoria senza editori – e senza librai?
di Michele Fiorillo
Nazione Indiana sta organizzando per il 9 maggio alla Fiera del libro di Torino (ore 16.30) un incontro sull’editoria e, più in generale, su quanto sta succedendo in questi anni nel campo della cultura e delle sue proiezioni, intitolato “La restaurazione”.
Questo intervento, speditomi da Michele Fiorillo, è l’introduzione all’ultimo numero della rivista “il contesto”, interamente dedicato a “L’industria culturale italiana. L’editoria degli editori”, con testimonianze e interviste a Roberto Cerati, Carmine Donzelli, Ernesto Franco, Giuseppe Laterza, Edoardo Sanguineti, e al regista Paolo Benvenuti. Un utile contributo alla discussione. c.b.
La questione principale che mette in difficoltà la nostra editoria sembra essere un dato abbastanza preoccupante, riguardante la grande disaffezione alla lettura in Italia: secondo i dati Istat del 2000 il 54,5 % degli italiani dai 6 anni in su non ha letto nemmeno un libro nell’arco di un anno – il che crea un mercato del libro ristretto e instabile
. E’ questo della disaffezione alla lettura un problema storico che accompagna l’Italia fin dalla sua Unità – connesso principalmente ai ritardi dell’alfabetizzazione e delle strutture scolastiche e formative (di cui la persistente marginalità del bilancio della Pubblica istruzione è un segno tuttora evidente), e al prevalere per lungo tempo nel costume nazionale di una cultura accademica e retorica il più delle volte poco incline a comunicare ai giovani il piacere della lettura, che ha lasciato poi il campo a pratiche di svago di più facile fruizione, con tutti gli effetti deleteri della “televisizzazione” di massa, a scapito dell’ “acculturazione” di consapevoli cittadini.
Esistono tuttavia delle condizioni strutturali più recenti, avviatesi a partire dagli anni Settanta e Ottanta, intensificatesi nei Novanta, legate alla concentrazione proprietaria anche nell’editoria, con la conseguente centralizzazione della distribuzione e il prevalere di una direzione manageriale sull’editoria degli “editori protagonisti” e dei letterati “editori”, con un impoverimento dell’iniziativa imprenditorial-editoriale. Fenomeni che hanno fatto parlare di un’ Editoria senza editori, secondo le tesi diffuse nel 1999 dal saggio omonimo di Andrè Schiffrin (dirigente di una casa editrice americana di cultura, la Pantheon Books caduta vittima delle concentrazioni editoriali) tradotto in Italia nel 2000 da Bollati Boringhieri con un importante saggio “militante” del suo compianto coordinatore editoriale Alfredo Salsano .
Sulla scorta di quel testo troverete qui di seguito una sorta di presentazione critica della situazione “strutturale” del mondo editoriale, nelle sue linee essenziali, a livello generale e nazionale – che può essere lo spunto per una continuazione dell’indagine sull’editoria che riguardi il nodo centrale della distribuzione, in cerca di un’editoria che non abbia abdicato alla propria funzione di “mediatore” e “diffusore” culturale, che creda nel libro come strumento di circolazione del sapere e delle idee.
Ma davvero non c’è più spazio per un’editoria degli editori?
Su una cosa tutti sembrano concordare: bisogna “allargare il mercato”, spingere gli italiani a leggere di più – e questa forse è la sola missione che sembrano sentire i grandi gruppi editoriali. Per risolvere il problema la prassi consolidata pare esser quella dell’aumento dell’offerta in direzione dei best sellers internazionali, accompagnata dalla razionalizzazione della distribuzione con rotazioni accelerate. Il divario tra il best seller e gli altri libri diventa così sempre più ampio: gli altri libri vendono sempre meno, questi sempre di più.
Tendenze generali dell’editoria libraria
Nel 2000, negli Stati Uniti, l’80 per cento dei libri pubblicati proviene dai cinque grandi gruppi che controllano l’editoria. In Francia i due grandi gruppi Hachette (comprendente per esempio la popolare Libre de Poche) e Vivendi-Havas (che controlla, tra gli altri marchi, Plon e Larousse) concentrano il 60 per cento dell’editoria del paese. E del fatturato dei due gruppi il settore libraio costituisce solo il 25 per cento.
Pierre Bourdieu rileva così un’evoluzione avanzata dell’editoria francese verso il modello americano: «l’integrazione della maggior parte degli editori in grandi gruppi oligopolistici con filiali dirette da managers che, usciti dal mondo della finanza o dei media, non sono tra i più competenti in materia letteraria e impongono all’editoria il modello dell’entertainement» (Une rèvolution conservatrice dans l’èdition, in “Acte de la recherche en sciences sociales”, marzo 1999).
Tuttavia, in Europa – e in Italia– non si ha un livello di concentrazione pari a quello degli Stati Uniti: i processi sono innescati, ma ci sono dei margini per evitare – se lo si vuole evitare – un’editoria senza editori (e senza librai).
L’editoria, nata da tipografie o librerie, o famiglie di tipografi e librai insieme, fino ad un’epoca recente è stata, con le parole di Andrè Schiffrin, “fondamentalmente un’attività artigianale, spesso familiare, su piccola scala, che si accontentava di modesti profitti, frutto di un lavoro che era ancora collegato alla vita intellettuale del paese”. «Negli ultimi anni – prosegue Schiffrin- le case editrici sono state comprate le une dopo le altre da grandi gruppi internazionali. In Inghilterra e in America la maggior parte di questi gruppi sono immense holdings che regnano nel campo dei mass media, dell’industria del divertimento oppure di quelle che vengono chiamate ora le industrie della informazione».
Sembra essersi così imposta nelle case editrici una “ideologia” che, invocando il mercato, afferma che “non spetta alle élites imporre i loro valori all’insieme dei lettori, spetta al pubblico scegliere quel che vuole, e se quel che vuole è sempre più modesto e volgare, tanto peggio”. Le scelte editoriali sul pubblicare o meno un libro vengono prese dal comitato editoriale (publishing board) egemonizzato dai direttori finanziari e commerciali: così che viene operata una “censura del mercato” in base alla supposizione e valutazione di un pubblico già esistente o non per ciascun libro: i libri innovativi e originali, disomogenei rispetto all’omogeneizzazione rischiano così di venir bloccati, laddove non si fiuti la possibilità di un riscontro redditizio – che pure potrebbe arrivare, inaspettatamente… Si abdica alla funzione di formare il lettore, o anche solo a creare una nuova “tendenza”, inseguendo piuttosto una comoda audience rilevata e collaudata, che non è detto sia poi quel che il lettore vuole – così come non è scontato che lo spettatore voglia proprio quei programmi televisivi che guarda in mancanza d’altro…
L’editoria libraria tende poi, come si è detto, ad essere assorbita in grandi gruppi, anche multinazionali -si pensi a Murdoch…- che trattano principalmente informazione ed entertainement: tanto più in questi contesti, sottolinea Salsano, esiste il rischio che l’editoria sia un “luogo di scambio di potere” e che la “censura del mercato” sia usata per interdire “la manifestazione e la diffusione di opinioni non conformi.”
In più, la concentrazione crescente ha portato i grandi gruppi a esigere tassi di rendimento molto alti : “i nuovi proprietari delle case assorbite dai grandi gruppi esigono che il rendimento dell’editoria libraria sia identico a quello degli altri settori della loro attività: giornali, televisione, cinema ecc., tutti settori notoriamente molto remunerativi. I nuovi tassi di profitto scontati si collocano dunque in una zona compresa tra il 12 e il 15 per cento, cioè tre o quattro volte di più dell’editoria tradizionale”, abituata storicamente ad utili massimali del 3 o 4 per cento. La francese Gallimard, per esempio, una delle più prestigiose case editrici tradizionali, si attesta, secondo dati comparsi su “Le Monde” nel 1996, su un 3 per cento di utili.
Allo scopo dell’alto rendimento il best seller assume naturalmente centralità – con le conseguenti pile di Fallaci e Vespa, in Italia, all’ingresso delle librerie di catena; e si tende per gli altri titoli alla veloce rotazione, per limitare le giacenze ai distributori e l’occupazione di spazio non redditizio nelle catene librarie.
La conseguenza più grave di questo tipo di politiche editorial-industriali è una sorta di mutazione antropologica nelle case editrici: l’editoria degli editori protagonisti (gli Einaudi, i Bompiani, i Mondadori…), fondatori per lo più delle stesse case editrici che dirigevano affidandosi per l’elaborazione del progetto editoriale ai letterati editori (i Pavese, i Calvino, i Vittorini, i Sereni…) è trapassata, per concentrazione omogeneizzante, all’editoria senza editori. Cioè l’editoria dei manager, che con lo scopo della razionalizzazione indirizzata allo sviluppo (dei profitti, evidentemente), rischia la desertificazione delle passioni e delle creatività.
Una razionalizzazione di gestione, con le sue competenze specifiche, nella produzione e distribuzione del libro sono certo necessarie – e come non ricordare una volta ancora che già Gobetti insisteva nel ritratto del suo Editore ideale sulla necessità di saper gestire la propria attività, affinché “egli non debba avere la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della politica attraverso il commercio” ?
E’ quanto sottolinea anche Alfredo Salsano nella sua prefazione a Schiffrin: “un intervento manageriale è indispensabile quando si passa dalla dimensione artigianale, familiare a quella di una industria razionalizzata”. Ma il punto è che “in questo come negli altri settori – ma soprattutto in questo, aggiungiamo noi, dove la confezione può difficilmente sostituirsi ai contenuti- il manager non può sostituire l’imprenditore. E nel campo del libro l’imprenditore è l’editore”. E’ lui che innova.
L’editore di cultura, posto di fronte ad una drammatica riorganizzazione del processo produttivo e distributivo, e conseguentemente ad un cambiamento del prodotto libro -così delicato per i suoi contenuti, e in rapporto agli sviluppi della società- cosa può fare? Puntare sull’innovazione intesa come originalità creativa, di contro alla logica omogeneizzante dell’editoria manageriale che si mantiene e si struttura in base all’insistente ripetitività dei best-seller, che non è detto poi siano sempre azzeccati. Anzi, non sono pochi i casi d’insuccesso di libri mediocri gonfiati a capolavoro dagli uffici stampa: il manager può fallire, più facilmente che un editore, sui contenuti.
Il libro, anche quello di cultura, è certo anche una merce –anzi, da un punto di vista “oggettivo”, dato il nostro sistema economico, oggi, è soprattutto una merce. Si tratta allora di testare la validità del libro di cultura anche come merce, in quanto prodotto specifico, con un suo pubblico, essenzialmente diverso rispetto al best seller, “prima che –ci avverte Salsano– l’intervento finanziario e manageriale ne distrugga le condizioni stesse di esistenza. Come è accaduto negli Stati Uniti e indubbiamente minaccia di accadere anche in Italia”.
E tuttavia il libro non è solo una merce: è un veicolo di informazioni, di idee, al limite di “visioni del mondo”. Quello dell’editoria sembra essere un campo dove lo scopo conta molto anche in rapporto ai contenuti. E’ importante capire dunque qual è l’intenzione, la “ragione sociale” – o per lo meno quella dominante in un aggregato di interessi e obiettivi- dell’editore o del gruppo editoriale: è prevalentemente il profitto –e quindi si seguiranno le mode, le supposte tendenze per massimizzarlo con best seller o non-libri di facile consumo- o la formazione di un pubblico consapevole, aspirando magari anche ad un ruolo di educazione intellettuale e morale del cittadino? Si dice infatti: il lettore può e sa scegliere, non lo si deve indottrinare. Ma ha davvero tutti i mezzi per scegliere? Ha la consapevolezza che esistono vari livelli della lettura, il più delle volte raggiungibili solo con un’addestrata frequentazione della “cultura”, e che esiste una dimensione di gratificazione ulteriore oltre al “passarsi via” il tempo?
Certo la “cultura” non può accontentarsi di trovare nella sua stessa difficoltà la giustificazione del suo eventuale insuccesso. Il progetto culturale deve confrontarsi col mercato, in quanto struttura di fatto della nostra società. Con le parole di Carmine Donzelli: “Un progetto editoriale in una società come la nostra è qualcosa, vale qualcosa solo se definisce un equilibrio con un proprio pubblico, e dunque con un mercato: e quando i conti non tornano, si fa forte il sospetto che il progetto editoriale sia caduco o incoerente o in declino” (prefazione a Franco Tatò, A scopo di lucro. Conversazione con Giancarlo Bosetti sull’industria editoriale, Donzelli 1995).
La situazione italiana
Nel 2004 in Italia la rete dell’editoria ha una struttura ancora abbastanza complessa, con maglie grandi e piccole, ma per la piccola editoria la sopravvivenza è molto difficile – tra mercato statico e difficoltà di visibilità in libreria. Nel nostro paese –come si ricava da Giuliano Vigini, L’editoria in tasca, Editrice Bibliografica 2004 – ci sono essenzialmente quattro grandi gruppi (Mondadori, RCS, De Agostini, Messaggerie Italiane) che insieme a una cinquantina di gruppi minori o singole importanti case editrici indipendenti (Feltrinelli, Giunti, Laterza, Zanichelli, Il Mulino, Hoepli…) e i loro 100-150 editori satelliti fanno il 90 per cento del fatturato; il resto è per un centinaio di piccoli editori (5-6 per cento) e gli ulteriori rimasugli per la miriade di piccoli e micro-editori (4-5 per cento).
Negli anni Novanta il mondo editoriale nazionale è stato travolto da un’ondata di concentrazioni, fusioni e acquisizioni, la più eclatante delle quali è il passaggio della gloriosa Einaudi alla proprietà Mondadori.
Si è assistito in molti casi anche in Italia –ce lo ricorda Salsano– alla caccia al catalogo altrui, allo svilimento del prodotto (tanto a contenuti quanto a “confezione”, con carta spesso scadente), alla rinuncia al progetto per il rendimento immediato. I manager tendono a valutare il progetto editoriale decidendo su ogni singolo libro anziché tener conto dell’impresa complessiva: un libro “di proposta”, innovativo, inizialmente non può aspirare né al mercato di massa né spesso al pareggio rispetto ai costi, ma il tentativo può essere sostenuto finanziandolo coi ricavi di altri libri più “vendibili” o già diventati classici di successo da catalogo. L’editoria che rinuncia al progetto usa il catalogo consolidato e già collaudato -magari acquisito da case editrici in dismissione, senza la fatica del progetto editoriale vissuto giorno per giorno- per poter vivere in attesa del best seller “indovinato”: si opera basandosi su una domanda valutata in base alle vendite precedenti; si abdica la funzione imprenditoriale della sperimentazione di un progetto. In realtà esiste un pubblico ampio per un’editoria di cultura: “basta –sostiene Salsano- non confondere il pubblico di cultura del libro con l’altro, giudicato ancora insufficiente dai managers dei grandi gruppi, in quanto in Italia segue solo con moderato entusiasmo l’editoria dei best sellers”.
Assieme alla riduzione dell’iniziativa cultural-imprenditoriale l’altra causa della “desertificazione” culturale, dell’impoverimento “omogeneizzante”, è la strutturazione attuale del sistema distributivo in quanto esso è finalizzato principalmente allo smercio di best-sellers e di cataloghi in tascabili venduti con quanto più sconto possibile – attualmente limitato al 15% del prezzo di copertina (con possibilità però di promozioni periodiche) da una legge sperimentale prorogata più volte fino al dicembre 2004. I distributori favoriscono le grandi catene di librerie, per ovvie ragioni di maggiore centralizzazione e veloce rotazione dei titoli. I centri commerciali, i supermercati, le grandi catene di librerie e le edicole -tanto più oggi con la nuova formula “quotidiano più libro”- realizzano dunque la maggior parte del venduto a discapito dei librai e di converso dei piccoli e medi editori di cultura che vedono i propri libri –quando vengono distribuiti- accantonati in angolo rispetto alle pile dei best seller che rubano spazio agli scaffali.
Si capisce così come la riduzione dei librai “di proposta” vada di pari passo alla riduzione del peso degli editori culturali piccoli e medi. Salvaguardare una rete di librerie d’offerta di qualità, significherebbe dunque creare la condizione per un’editoria di progetto innovativa.
Concludendo le sue riflessioni a partire dalle analisi di Schiffrin -rispetto al quale appare meno fiducioso sulla possibile efficacia di forme di intervento pubblico nell’editoria- Alfredo Salsano propone dunque una chiara distinzione del libro come prodotto di massa dal libro di cultura, anche eventualmente con una separazione fisica dei luoghi, in parte già “spontaneamente realizzata” dagli interessi di mercato – tale che il saggio di storia economica, per dire, non lo si trova certo al supermercato tra i romanzi-novità “da classifica”. Immaginando così “due economie ben distinte, l’una lasciata ai manager, l’altra affidata alla libera imprenditorialità, confortata dal mercato, di editori e librai di cultura”, Salsano lavorò prima di morire al progetto “Slow Book” con l’obiettivo di difendere e sviluppare l’editoria di qualità e il tessuto delle librerie indipendenti, non connesse a catene librarie, ma liberamente associate o consociate, con la creazione di un coordinamento e collegamento tra piccoli e medi editori e librai autonomi.
Accanto ed in intersezione a progetti come questo, finalizzati a sostenere una diversificazione nell’offerta e diffusione del libro sul territorio, o come i “presidi del libro”, volti alla formazione di un circuito di librai e lettori consapevoli, l’intervento pubblico potrebbe essere tuttavia essenziale per svolgere una funzione di regolamentazione che eviti di favorire la grande distribuzione e i grandi gruppi editoriali: attraverso le leggi che blocchino e stabilizzino gli sconti; attraverso una politica di sgravi fiscali per l’editoria; attraverso un serio e organico impegno di educazione alla lettura, a partire dalle scuole elementari.
Evitando con cura, beninteso, che l’editoria di cultura e progetto –come ci ha ben avvertito Schiffrin – diventi come in America possibile solo “non a scopo di lucro”, cioè fuori dal mercato, sostenuta da fondazioni private e da aiuti pubblici. Con tutti i rischi di una cultura ingessata, e l’abdicazione dell’editoria al proprio ruolo autonomo per la circolazione delle idee.
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Indice sintetico del numero tre de “il contesto“
Le lenti
L’industria culturale italiana. L’editoria degli editori
Un’editoria senza editori?
Portare le buone idee a più persone possibile. Una conversazione con Giuseppe Laterza
“Assecondare le tendenze” e insieme “fare resistenza”. Una discussione con Ernesto Franco,
Quando l’Einaudi era come le dita di una mano. Un intervento di Roberto Cerati
Una casa editrice è un corpo collettivo. Intervista a Carmine Donzelli
L’editoria italiana fra nuovi fenomeni e vecchi problemi: i libri in edicola e la distribuzione dei lettori
“Autoritratto della Feltrinelli da giovane” da un articolo di Giangiacomo Feltrinelli
Dialoghi
“Sono un gatto lupesco, e laido, e lieto”. Una chiacchierata con Edoardo Sanguineti
Il cinema maieutico. Una conversazione con il regista Paolo Benvenuti
David Forgacs, “L’industrializzazione della cultura italiana. 1880-2000”
L’Asino d’oro
Il Théâtre du Soleil : un percorso di ricerca totale alle fonti del teatro
Il candelaio
Oltre il “meridione”: la letteratura fra “pensiero meridiano” e postmoderno
www.ilcontesto.it – redazione@ilcontesto.it
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Ecco, detta così ha finalmente l’aria di una cosa seria, e dunque irrimediabilmente noiosa, perché umile, non più risolvibile con un elegante svolazzo “concettuale”.
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Guardi e l’oggetto si volatilizza, le ragioni evaporano, il colpevole non si trova, l’offesa diventa non offesa ma fato, qualcosa come il mal di denti, di cui nessuno è colpevole, e di conseguenza ancora una volta non resta che la solita via d’uscita, cioè picchiare dolorosissimamente contro il muro. E allora lasci perdere, giacché non hai trovato la causa prima. [Dostoevskij – memorie del sottosuolo]
Inizio col dire che questo intervento mi è sembrato molto equilibrato e al mio animo di uomo immerso nel “mercato” molto più comprensibile del dibattito (scontro?) che ho seguito con interesse sulla restaurazione. Più comprensibile perchè probabilmente mi mancano le coordinate intrepretative per capire l’altro, anche se le due cose non mi sembrano tanto distanti da sembrarmi collegate. Condivido qualche domanda, suggestione che mi è sorta meditando il pezzo.
Ci sono alcune definizioni che restano sottointese, ad esempio, che l’editoria manageriale cerca rendimenti del 12/15% mentre quella tradizionale si accontentava del 3%. La prima domanda è X% di che cosa? Che cosa c’è al numeratore e che cosa al denominatore? Utile netto/Capitale impiegato (quello che nei testi di economia si chiama ROE),
(Ricavi-Costi Operativi)/Ricavi (quello che si potrebbe definire Margine Operativo Lordo o MOL), altro? Sarò un “rompino” ma l’uno ha un significato, l’altro un altro. Ipotizzo di qui in avanti che si parli del ROE, cioè del rendimento del capitale investito nell’impresa: la domanda che mi sorge spontanea è: avete idea di quanto sia il ROE obiettivo della piu’ redditizia tra le grandi banche italiane (Unicredito)? Il 20%, attualmente naviga a dei livelli più bassi, ma nell’ordine di grandezza di quello che sembra essere il livello di profitti obiettivo dell’editoria; al momento il mercato ricerca in tutte le industrie livelli di rendimento obiettivo abbastanza alti e in teoria più elevati quanto più sono volatili utili o rischiosi da ottenere. Quindi giustamente perchè chi fa i libri dovrebbe pretendere un rendimento più basso rispetto a quello di altre industrie che sopportano lo stesso livello di rischio? Il problema è un po’ piu’ sistemico e riguarda quanto cosideriamo essere il livello della giusta remunerazione (scontata per il rischio) del capitale; (tuttavia la risposta non e’ particolarmente semplice, considerando che l’utilità marginale del denaro è tendenzialmente sempre positiva e che non è immediato contraddire l’affermazione che averne di più e meglio che averne di meno).
Proseguendo, ad un certo punto si dice “un libro “di proposta”, innovativo, inizialmente non può aspirare né al mercato di massa né spesso al pareggio rispetto ai costi, ma il tentativo può essere sostenuto finanziandolo coi ricavi di altri libri più “vendibili” o già diventati classici di successo da catalogo” e verso la fine: “Evitando con cura, beninteso, che l’editoria di cultura e progetto –come ci ha ben avvertito Schiffrin – diventi come in America possibile solo “non a scopo di lucro”, cioè fuori dal mercato, sostenuta da fondazioni private e da aiuti pubblici“. Ad una lettura superficiale le due affermazioni sono in contraddizione: il sussidio incrociato è fare editoria fuori mercato, se finanzio il libro B con i proventi del libro A, sto sovvenzionando il libro B rinunciando a parte dei profitti che pubblicare A mi avrebbe dato e perciò se le variabili sono solo queste sto facendo un azione che non è razionale e non ha uno scopo di lucro e pertanto ricadrebbe nelle cose da non fare. Dal contesto mi pare di capire che la pratica sia auspicata in quanto non può che essere l’unica pratica possibile se si vuole aprire un nuovo mercato e/o lanciare un nuovo prodotto e mi pare che la subordinata sottointesa a questo atteggiamento è che un editore è tanto più bravo quanto più attinge le risorse dai prodotti di massa (lasciatemi il termine) per scoprire nuove nicchie di mercato, dal quale suppongo si aspetta nel lungo periodo di trarne rendimenti sufficienti a ripagarlo dell’investimento e del rischio. Sono ovviamente d’accordo e penso che sia il suo mestiere anche in termini meramente economici.
Suggerisco di fare attenzione a compiacersi troppo di una cultura che si basa sul sussidio incrociato, in primo luogo perchè il modo tipico per eliminare la concorrenza e che i più grandi lo possono fare meglio e poi perchè significa spostare risorse da un settore ad un altro dove la “gente” non le vorrebbe mettere. Fintanto che un singolo spende dei soldi per pubblicare dei libri che la gente non legge non vedo grossi problemi (a parte che lo faranno sempre meglio i più ricchi dei più poveri), mentre se iniziamo ad usare i soldi pubblici mi sorge spontaneamente la domanda di quale sia il bene pubblico che stiamo comprando?
Cerco di chiudere con l’ultima suggestione riguardo all’“educare” le persone alla lettura e l’uso dei soldi pubblici per farlo. Sono convinto che sia un bene di per sè, anche che vadano dedicate molte risorse a rendere i libri più accessibili, ma siamo sicuri che la strada siano gli sgravi fiscali all’editoria? (interpreto semplicisticamente come gli editori pagano meno tasse sui loro profitti, quindi indirettamente a parità di utile lordo abbiano un utile netto più alto e perciò consentendo a libri che hanno rendimenti lordi più bassi di essere pubblicati, ovvero abbasso le tasse indirette (IVA) sui libri in modo che i libri costino meno e se ne comprino di più). Capisco che è un buon metodo, perche’ vado a favorire l’imprenditore e quindi lo stimolo a rischiare di più, ma come distinguo l’editore “bravo” da sovvenzionare da quello che starebbe in piedi anche senza sovvenzioni. [non abbiamo questo problema anche nel cinema?]
Non sarebbe più incisivo dotare i luoghi educativi di libri, cioè usare gli stessi soldi per comprarli i libri e farli fruire? Tutte le scuole elementari hanno delle biblioteche con dei libri da far leggere ai bambini? E’ chiaro che ci sarebbe il problema di quali libri debbano o non debbano essere acquistati dallo stato e se leggere sia un bene di per sè a prescindere da quello che si legge…
Saluti,
Giovanni Cesarini
penso si parli di ROE. il principio dei vasi comunicanti (utili del libro A a vantaggio del libro di proposta B) e’ molto usato in ambito editoriale proprio per giustificare di fronte al manager di turno la funzione culturale della proposta editoriale “in perdita”. Dovendola paragonare ad altri settori, e’ forse piu’ utile far ricadere questo tipo di iniziative “di proposta” sotto la voce R&D. Sono d’accordo con cesarini quando afferma che la soluzione non e’ negli sgravi fiscali all’editoria. E’ tutto il sistema lettura che andrebbe rivisto, e sarebbe bello che anche la componente pubblica del sistema (universita, scuole, biblioteche ma ovviamente stato) facesse la sua parte in maniera piu’ efficace. Un esempio vicino e lampante e’ la recente polemica sul necessario adeguamento alla normativa europea che prevede il prestito “a pagamento” per le biblioteche. A prescidere dalla validita’ o meno di tale provvedimento, perche’ non ho ancora sentito nessuno dire che debba essere lo stato, a monte, a farsi carico della gabella? tot libri prestati, tot provvidenze per la biblioteca che li presta. Certo che pensare che sia la SIAE ad occuparsene mi fa venire i brividi lungo la schiena…
marco
La mia grande perplessità su questo articolo bene informato e pieno di cifre, è che in realtà gli Stati Uniti producono e continuano a produrre libri di qualità, cioè un’editoria culturale, non soltanto nel settore universitario-saggistico-specialistico, ma anche nella narrativa, e non solo nella narrativa di best seller – nonostante l’articolo suggerisca che il loro sistema editoriale è malvagio.
Se la capacità e la bontà di un sistema editoriale si misurano nell’ampiezza di forme d’espressione dei libri che il sistema riesce a produrre, e nella diversità di autori e di approcci alla scrittura che è capace di sollecitare e presentare al pubblico, come l’articolo sembra volere affermare, allora non capisco il riferimento all’editoria americana come paragone negativo.
Su questo vizio di fondo, secondo me non irrilevante, l’intera analisi proposta dall’articolo un po’ si arena, nonostante la ricchezza di cifre proposte.
Saluti, palmasco
Finalmente un quadro e un abbozzo di analisi! Non ne potevo più di leggere gli interventi di Giulio Mozzi che non dicono niente. Riporto il commento che ho messo in fondo al suo pezzo, subito dopo il commento di Paola che esortava chi vuol parlare di editoria a avere un po’ del coraggio che fu di Shiffrin e di Salsano.
A me le parole di Mozzi suonano ambigue, e anche un po’ superficiali. Si capisce solo che a lui il discorso sulla restaurazione non piace, anzi gli dà fastidio. Come se mettesse in pericolo la sua posizione!
Sembra che la cosa che gli sta più a cuore sia di dimostrare che non c’è niente di cui preoccuparsi. Non c’è nessun fenomeno preoccupante nella gestione odierna del mercato librario, né nelle concentrazioni editoriali, né nella distribuzione sempre più finalizzata ai bestseller, né in quei fenomeni che sia Shiffrin, sia Salsano denunciavano. Ripresi, e allargati anche alle pagine culturali e alla critica, da Carla Benedetti in un intervento che è stato pubblicato qui su Nazione Indiana. No, non esistono. Tutto va per il meglio. Ma io sento in questa tranquillità solo una gran voglia di mettersi i paraocchi. Non c’è un’analisi nel discorso di Mozzi. Cosa ha da ribattere sui meccanismi della distribuzione per esempio? I “fenomeni giganteschi”, scrive in chiusura del suo pezzo, sono altri. Che ce li dica. Quali sarebbero secondo lui.
Posted by libraioincazzato at 21.04.05 23:00
Il libraio pare troppo incazzato (absit iniuria) per commentare. Giulio Mozzi, per quanto è dato vedere, fa l’editore al modo che lo intendevano, ai tempi loro (molto diversi da questi, tanto per chiarire), Vittorio Sereni, Elio Vittorini o Italo Calvino. Si è inventato una collana, anzi una casa editrice vera e propria, specializzata in testi di formazione e orientamnto professionale. Di più: ha cercato e trovato autori che guardano l’Italia con un occhio diverso, ha insomma proposto e tuttora propone una linea editoriale. Dica il libraio, non importa come qualificato, quali altri casi del genere conosce, in Italia o altrove; gliene saremo grati di cuore.