Quando la Resistenza non è solo il 25 aprile…
di Liza Candidi
Può essere rischioso proporre una mostra d’arte sulla Resistenza in un contesto geografico così profondamente segnato da cicatrici belliche come quello friulano e, per giunta, nel 60° anniversario dalla Liberazione. Rischioso sia per la retorica, sia per l’abuso tematico e politico che ne può derivare. Eppure, Danilo De Marco e Gianluigi Colin sono riusciti nell’impresa di trasformare un evento commemorativo facilmente banalizzabile in un formidabile spunto di riflessione e di confronto, non solo retrospettivo ma anche attuale, estendendo il concetto di Resistenza anche ad ambiti storico-geografici diversi rispetto a quelli comunemente noti.
Allestita nella Villa Manin di Passariano, in provincia di Udine, la mostra “R-esistenze”, dove il gioco di parole del titolo allude alla necessità di opporsi al fine stesso di esistere, espone su tre piani le opere degli artisti De Marco e Colin e sarà visitabile fino al 12 giugno.
La parte più originale della mostra è la rassegna dal titolo “Achtung, Banditen!”, ove vengono presentati, in gigantografie in bianco e nero, i volti di una trentina di partigiani. L’intenzione del fotografo De Marco è quella di presentare dopo sessant’anni, quasi fossero foto segnaletiche, i volti di quelli che venivano chiamati dai nazi-fascisti “banditi”, i volti, cioè, di quegli ex-ragazzi e ragazze, che rischiarono tutto con coraggio e abnegazione per combattere la dittatura ed inseguire l’ideale di libertà. La ricercata essenzialità dell’esposizione esalta senza retorica né conformismo celebrativo i caratteri intensi del viso e soprattutto la forza dello sguardo, rispetto al quale il resto si dimensiona in secondo piano. Se le rughe del volto sono espressione del passare del tempo, la vivacità degli occhi, e quella in essi riflessa degli ideali, afferma con forza che la testimonianza della Resistenza è ancora qui, viva fra noi, ed esige quello stesso fervore anche nel presente.
Il significato perenne del resistere, del combattere contro la povertà e l’oppressione, viene rappresentato, al primo piano della mostra, in un’altra sezione fotografica di De Marco, dall’emblematico nome “Resistenza Infinita”. Un significato universale, senza distinzioni di etnie, presente quotidianamente nelle diverse popolazioni del mondo: azioni di resistenze continue, stoiche, silenti, dalle campagne del Messico ai deserti del Kurdistan; una lotta quotidiana che non viene ricordata né celebrata da nessuno, che aspira sì alla liberazione ma, prima ancora, alla semplice sopravvivenza. Non ci saranno medaglie al valore per questi Resistenti, così come non ci saranno anniversari per i pendolari della notte dell’Uganda, bambini che ogni giorno, prima del tramonto, lasciano i propri villaggi per scampare alla ferocia dei guerriglieri, percorrendo anche quindici chilometri a piedi. Tuttavia, dalle immagini di queste Resistenze irrompe non tanto la sofferenza o lo sgomento, quanto il coraggio e la tenacia, perchè il “fotografo del mondo dei vinti” – come lo definisce A.C. Quintavalle – riesce a cogliere la speranza, un segnale, pur fievole, di cambiamento, lo stesso segnale che lo ha portato a vivere a lungo fra i “sem terra” brasiliani.
Al concetto di Resistenza viene attribuito un originale significato anche nell’esposizione al piano terra dell’esedra di Levante di Villa Manin, ove sono presenti le installazioni di Gianluigi Colin, dal titolo “Presente storico e “Vuoti di memoria”. L’artista, art director del “Corriere della Sera”, coniuga le immagini delle guerre e resistenze contemporanee con quelle rappresentate in alcune grandi opere d’arte del passato, facendo emergere la costanza della brutalità umana. Le recenti esecuzioni di morte in Iraq vengono accostate al ciclo de Los estragos de la Guerra di Goya o l’immagine del Che in ospedale a quella del Cristo morto del Mantegna, come visioni tronche eppure nitide emerse da un passato così drammaticamente simile al presente. In una dimensione offuscata, a tinte forti, simile a quella di un brutto ricordo che non si può cancellare, vengono presentate al pubblico anche le immagini delle torture dei prigionieri ad Abu Ghraib, il volto implorante di Giuliana Sgrena durante il rapimento e i vari orrori delle guerre testimoniati dalla stampa. La reiterazione degli eventi, sul piano reale e su quello della rappresentazione del dramma, in una sorta di tragico teatro della vita, e la similitudine fra passato e presente fanno sì che gli accostamenti di temi, figure e significati – rappresentati sulla tela da intersezioni e sovrapposizioni grafiche – abbiano una sconcertante coerenza semantica.
Poi, nella sezione “Vuoti di memoria”, in una stanza oscurata che riproduce l’angustia di una cella, Colin propone, attraverso la voce dell’attore Massimo Somaglino, le lettere ai propri cari di alcuni condannati a morte della Resistenza italiana, frasi fotocopiate su fogli sparsi, a simbolo della ripetitiva tragicità degli eventi. In un contesto lontano da un determinismo fatalista, la Resistenza assume qui valore imperativo, accentuando il dovere di opposizione contro forme di massacro e di sfruttamento mai estinte.
Il 60° anniversario della Liberazione così come proposto nella mostra R-esistenze si distingue, quindi, in modo del tutto originale da altre iniziative, soggette a facile strumentalizzazione politica e iperattenzione mediatica, riuscendo a rivitalizzare il significato della Resistenza non come puro evento evocativo, ma attualizzandolo, come consapevolezza delle condizioni di oppressione del presente e come lotta per la liberazione. Una mostra che incentiva l’azione più che il ricordo, in modo semplice e diretto, invocando la solidarietà e la partecipazione, senza troppe impalcature retoriche. Proprio come suggerisce il Cid – straordinario partigiano ottantenne – commentando gli interventi durante l’inaugurazione della mostra: “Perché tante parole? Non se ne ha bisogno! Basta dire ‘guardate queste opere e lasciate che il cuore raggiunga la mente!’”.
“R-esistenze”
Villa Manin, Passariano (Udine)
Esedra di Levante
16 aprile – 12 giugno 2005
Chiuso il lunedì
10.00 – 19.00 (Ingresso gratuito)
resistenze@libero.it
0432.904117
Catalogo Forum Editrice
Nel contesto di R-esistenze, oltre alla mostra, vi saranno anche numerosi incontri ed approfondimenti letterari, eventi teatrali e proiezioni cinematografiche a tema. Sono previsti, fra gli altri, anche gli interventi di Marco Aime, Pierluigi Cappello, Gianpaolo Carbonetto, Aldo Colonnello, Pierluigi Di Piazza, Gian Paolo Gri, Sergio Luzzatto, Ettore Mo, Arturo Carlo Quintavalle, Beppe Rosso, Pier Aldo Rovatti e Mario Turello.
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Aggiungo che la mostra fa seguito ad un’iniziativa sulla resistenza dello scorso ottobre, “O partigiano”, che ha coinvolto sempre De Marco, assieme a Pierluigi Cappello, Teatrino del Rifo, Massimo Somaglino, Pignoni, ed altri ( gruppo noto come “Caraula az mapu”). L’altra iniziativa era più teatral-musicale, con punte molto belle (per esempio, il testo di Pignoni su testimonianze di Marco Ciani, letto da Somaglino).
Il Messaggero Veneto ha reso noto, il 26 febbraio di quest’anno, il bilancio “ufficioso”, per il 2004, dell’Ente che gestisce le iniziative di Villa Manin di Passariano e che, da qualche anno a questa parte, ha entusiasticamente abbracciato l’arte contemporanea. Dunque approssimativamente:
Uscite: 2.450.000 euro. Entrate: 120.000 euro (100mila circa dalla vendita biglietti, intorno ai 10mila da quella dei cataloghi) ovvero complessivamente un ventesimo delle uscite.
La differenza la mette TUTTA QUANTA la regione Friuli, Venezia-Giulia, cioè tutti coloro che pagano le tasse.
Qualche dettaglio sulle uscite:
Costo della mostra “Capolavori del museo di Chicago”: 1.260.000 euro.
Al direttore artistico Bonami vanno, per 10 mesi di lavoro, 100.000 euro. Per curatori e assistenti: 60.000 euro.
Al responsabile ufficio relazioni esterne e promozione: 21.000 euro. Per la promozione sono andati 400.000 euro, per le relazioni esterne: 120.000 euro, per il cerimoniale (leggi “festini privati”) 6.200 eccetera.
Ora ditemi un po’ come dovrei “credere” all’impegno civile, all’enfatico sentimentalismo di questi personaggi. Per me si tratta di una proto-mafia, altro che di “Resistenze”!
Perché non hai messo il costo di questa mostra, invece di quella dei capolavori del museo di Chicago (peraltro bella)?
Comunque hai ragione: avessero esposto le mutande di Adriano Pappalardo, ci sarebbero stati più incassi.
Mandi.
Immagino che i costi di questa mostra trapeleranno il prossimo anno: quando li pubblicheranno provvederò ad inoltrarli in giro.
Quanto alla tua considerazione sulle mutande di Pappalarda, beh, mi sembra una perfetta esemplificazione della concezione in cui viene tenuto il “popolo” (bue, d’un ignoraaaante!) il quale peraltro sostiene tutta la baracca. Continua pure ad adorare quella cleptocrazia, prima o poi fara arrivare qualche briciola anche a te.
Sul Corriere della Sera di oggi, di nuovo mi colpisce l’aggressiva pubblicità della IULM, ovvero della “prima università della comunicazione”, che chiama i giovani a prenotarsi il proprio futuro. Fra i temi d’insegnamento (dei corsi di primo livello, laurea specialistica e master) troviamo infatti delle formulazioni alquanto suggestive:
Comunicazione e gestione nei mercati dell’arte e della cultura.
Comunicazione e strategia della marca e del consumatore.
Strategie, gestione e comunicazione dei beni e degli eventi culturali.
Management del Made in Italy, consumi e comunicazioni della moda, del design e del lusso.
Stupisce abbastanza che concetti che in altri momenti storici potevano sembrare insinuazioni paranoiche imbevute di risentimento (in breve la prostituzione dell’arte e del pensiero critico) diventino cosa non soltanto ovvia, ma persino oggetto di insegnamento legittimato!
Verrebbe da pensare che, a fronte di un simile affinarsi degli strumenti di inculcamento (di modelli di riferimento, di bisogni coatti e relative frustrazioni) attraverso tecniche sempre più consapevoli di manipolazione pseudo-mitologica, andrebbe mobilitata una qualche forma di contro-informazione che renda queste povere masse semmai più resistenti, aumentandone il grado di autonomia e di coscienza critica, attraverso una divulgazione di meccanismi che non sono poi così inarrivabili. Sgomenta davvero che l’università, che dovrebbe rappresentare la culla della coscienza critica, si proponga esplicitamente di studiare tali saperi in vista di un loro impiego positivo, invece che di una immunizzazione nei loro riguardi.
Ma una ragione evidentemente c’è, e mi pare diventi sempre più evidente. Artisti ed “intellettuali” sono materialmente schiavi e dunque assolutamente corruttibili. Basterà che il nostro laureato sottopagato o sotto-occupato (in termini economici e simbolici) venga chiamato a declamare qualche poesia del proprio libercolo in una qualche nicchia dell’evento ufficiale, o a riempire qualche colonna nella pubblicazione, o a ricevere qualche piccolo premio, che subito ce lo ritroveremo pieno di commossa gratitudine per non esser stato “tagliato fuori” e quindi dispostissimo a dire tanto bene di tutto e di tutti, a mostrarsi “amico” di qualunque personaggio gli mostri una parvenza di “addetto ai lavori”. Di simili zelanti ma assolutamente inconsci ed innocenti leccapiedi, pronti peraltro a scagliare un tagliente disprezzo sopra alle masse non iniziate, Internet ne potrebbe fornire una gustosa panoramica, in presa diretta.
Il punto è che artisti e poeti hanno un interesse davvero “strutturale” nel mantenimento di certe mitologie (grattando appena la patina postmoderna dettata dalla moda internazionale, subito appare la vecchia, cara e ed ingenua sostanza romantica) e dunque non potrà certo venire da essi un risveglio di una coscienza critica che, se pienamente sviluppata, potrebbe persino finire per danneggiare quel “Made in Italy” che evidentemente, come italiani, abbiamo la necessità vitale di continuare a vendere al mondo come mito autentico.
E’ dunque assolutamente necessario che artisti e poeti rimangano certi dell’autonomia trascendentale del proprio campo, rifiutino sdegnosamente ogni volgare oggettivazione e continuino quindi non farsi troppe domande sulla natura di quella “filiera produttiva” di cui essi rappresentano il prodotto finale. D’accordo, lo capisco, e non voglio certo sputare nel piatto in cui mangio.
Soltanto che poi, con un chiaro eccesso di confidenza, alcuni hanno persino la faccia tosta di chiamarsi “resistenti” e questo, insomma, mi sembra davvero un po’ troppo.
Ci sarebbero anche degli spunti interessanti in quel che scrivi, “Elio”. Per esempio, se ha senso la spesa pubblica per la cultura, oppure la questione della dipendenza economica dell’artista (del resto, tu dici di mangiare in questo piatto, e scrivi da anonimo: una ragione ci sarà). Peccato per il tono da troll ed e per la conoscenza un po’ scarsa della situazione (in questa mostra specifica, diverse persone hanno lavorato volontariamente).
Misterioso signor “Elio”,
le rispondo solo ora, non avendo avuto modo prima di accedere ai commenti.
Nella sua boutade d’esordio – giustamente contestata anche da Vincenzo – attribuisce alla sola mostra “R-esistenze” l’ammontare dei costi che l’azienda Villa Manin ha sostenuto durante tutto l’anno 2004. L’esposizione contro cui se la piglia – come può lei stesso verificare attraverso una corretta informazione – ha avuto molti meno finanziamenti regionali di quanto lei pretenda conoscere.
Le segnalo inoltre che, per la mostra di De Marco e Colin, i costi di allestimento e una buona parte di quelli pubblicitari sono stati nulli, perché basati sul lavoro di un cospicuo ed affiatato gruppo di volontari, e che non c’è stato nessun provento dalla vendita dei biglietti, dal momento che l’ingresso era gratuito. Credo sia necessario informarsi meglio prima di polemizzare!
Quello che poi chiama “festini privati”, per quanto riguarda R-esistenze – perché è di questo che sono a conoscenza – si è risolto in niente di più di un semplice brindisi d’inaugurazione (che privato proprio non era, essendo aperto a tutti) “a pan e formadi”, nel più classico e morigerato dei festeggiamenti friulani! Se questo le sembra un dispendio delle risorse regionali…
Un’ultima osservazione, né De Marco né Colin hanno mai avuto la pretesa di proporsi come resistenti, dal momento che proprio le loro opere testimoniano con coscienza quanto l’attribuzione di senso a questo termine sia di ben altro livello.
Posso pure rispettare alcune sue considerazioni, ma non credo che sia corretto sparare a zero su situazioni di cui non si è sufficientemente a conoscenza.
Saluti,
Liza Candidi