A ovest
di Marco Giovenale
[ note su M.Strand e D.Abeni (a cura di), West of your cities, Minimum Fax, Roma 2003 ]
Mark Strand e Damiano Abeni hanno curato per Minimum Fax un’antologia di dodici poeti statunitensi, nati tra il 1934 e il 1950. Il titolo del libro, immaginato da Strand, è involontariamente inquietante: West of your cities sembra quasi mettere a distanza gli interlocutori. Come dichiarando: “noi (statunitensi) siamo «a ovest delle vostre città» (europee)”. Al contrario, specie dopo gli ultimi anni e mesi, è imprescindibile riconoscere che niente è a ovest di niente, nel pianeta dello sfruttamento (e del fuoco) globalizzato.
D’altro canto è verissimo che uno sguardo su cosa succede a ovest delle nostre città letterarie è assolutamente necessario. (In Italia, credibile a dirsi, mancano traduzioni recenti perfino di un gigante come John Ashbery ).
Questa antologia ha così il merito di dare un primo colpo d’ascia alla nostra ignoranza; e alla pigrizia di tante (altre) case editrici. Degli autori presenti, solo quattro (Simic, Wright, Glück e lo stesso Strand) sono stati già pubblicati in volume .
Concediamoci allora un passaggio attraverso le scritture proposte, annotandone le diversità – giustamente rilevate dalla prefazione di Strand. Non appartengono a una corrente o scuola letteraria. Non formano in alcun modo un gruppo. La mappa del territorio poetico statunitense riproduce forse, giusto in questo modo, quella ‘nebulizzazione’ delle voci osservata in sostanza ovunque, Europa inclusa, al passaggio del millennio.
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1. Le due lunghe sequenze narrative di Frank Bidart, in apertura di libro, è come se in qualche modo stringessero il nodo scorsoio di Lynch intorno al collo di Altman. Sono apparse negli anni ’70, e raccolte nei Collected Poems nel 1990. (Anche la cronologia darebbe quindi un senso al paragone azzardato). Si tratta di testi assolutamente duri: di violenza, sofferenza, ingiustizia. Il primo è il resoconto del distruggersi della anoressica Ellen West, il secondo una sorta di confessione – pronunciata in prima persona – dell’assassino e violentatore Herbert White.
Soprattutto il secondo poemetto, freddo nei dettagli della memoria del male, strappa il foglio che annerisce. Bidart sembra insomma, degli autori presenti, il meno legato a quella immagine di sospensione tra materialismo cieco e mente inafferrabile, che leghiamo alla figura inaugurale della poesia americana, Walt Whitman. Bidart al contrario precipita tutto nella materia pura: nella storia e scoria di macerie tagliate in forma ‘umana’. Con cui è impossibile non fare i conti: è la realtà a sfondare la pagina e gelare la lettura.
2. Il percorso poetico di Louise Glück, diversissimo, può essere interpretato come raccolto e quasi chiuso – in senso positivo, di coesione – nella figura del giardino. Nel marzo 2003 ne ha parlato ampiamente, in un articolo su «Poesia» , Massimo Bacigalupo.
Non sempre una certa facilità allegorica ‘blocca’ i profili di piante e fiori e luoghi che in forme dialogiche compaiono nei versi. A una simile strategia testuale, che può suonare in certi casi come un limite, sanno opporsi elementi di s/definizione che fanno crescere lo spessore delle poesie. Per esempio nell’elegia dedicata a The Drowned Children, ai bimbi affogati, che si chiude sul versante di una nominazione ‘opaca’:
Eppure odono i nomi da loro usati
come richiami che lambiscono lo stagno:
cosa aspettate,
a casa, venite a casa, persi
nelle acque, tristi e persistenti.
Il verso finale (la duplicità intraducibile della parola «blue»: che ovviamente sta sia per blu che per malinconici), «in the waters, blue and permanent», è in fondo una definizione adatta a tutta la poesia della Glück: cioè allo stesso flusso di persistenza, opalescenza e spleen della sua collezione di emblemi.
3. La scrittura di Jorie Graham è la più distintamente sperimentale, nell’antologia. Autrice nata a Roma e vissuta in Italia e in Francia, la Graham imprime ai versi un’inclinazione di ‘immaginazione filosofica’ affine al tono di Ashbery, tuttavia partendo non da trivial facts (fatti insignificanti, incolonnati in flussi barocchi) ma dal ricorso a dichiarazioni ed eventi di portata ampia, impegnativa (Beauty, Never, Orpheus and Eurydice sono i segnali testuali che spiccano): in dichiarato materialismo. Precisamente Materialism si intitola una sua raccolta (del 1993). La poesia Note sulla realtà del sé, tratta da quell’opera, non solo accosta ma proprio sovrappone la materia sonora-sillabica a quella di un fiume fotografato in dettagli: «Rami di quercia, / corrosi dalla pellicola d’acqua, sollevati, risollevati, lambiti tutto il giorno», finché «l’espressione … avanza trabocchevole, tutto contenuto niente significato. / La forza del fiume e il suo essere cosa, identici». In questo, incide forse – senza epigonismo – la memoria di quel Bateau inaugurale di tutta la poesia moderna.
4. Con Charles Simic, si direbbe che Robert Hass (meno lunare) sia il poeta più facilmente accostabile a Strand. In realtà Hass vanta connotati del tutto propri; definiti. E una statura, a parere di chi scrive, eccezionale. Ogni singolo testo qui presentato è tanto semplice quanto ‘alto’, e meriterebbe analisi. Pensiamo a Meditazione a Lagunitas, dove alle idee di «loss» (perdita) e nominazione iterata, e alla sintesi che vuole che «una parola sia l’elegia dedicata a ciò che significa», Hass imprime un’ulteriore metamorfosi dove protagonista è il corpo di una donna amata in passato, che avanza nella memoria insistentemente divenendo vocabolo sovraccarico di senso, e provocando nel lettore un ennesimo effetto di eco: segnala cioè (senza imporre) l’utilità della molteplice deriva allegorica innescata col narrare.
In linea di massima, si può dire che lo stile di Hass è equamente diviso in pagine più limpidamente narrative (sempre però tentate da allegorie) e pagine più pronte a far discendere da storie e oggetti meditazioni puntuali. Un esempio (da Teologia naturale):
Margherite bianche stagliate sull’arancione bruciato del telaio della finestra,
sequoie opache nel grigio nichel dell’inverno,
in lontananza turbolenza d’acqua – le regioni verdi
del mattino riflettono qualsiasi cosa possa essere vinta, normalmente,
dalla luce, poi cedono alle regioni azzurre del pomeriggio
che non tanto riflettono quanto ricordano,
come se la luce, un unico volere per tutto il mattino, si arrendesse a una doppiezza
delle cose
5. John Koethe può dimostrare (come forse tutti gli autori inclusi in West of your cities, con l’eccezione parziale di Bidart) che gli scrittori degli USA, terra massimamente concreta, sono massimamente astratti. Uno dei meriti di Koethe è infatti quello di condensare a volte in una stessa riga l’affermazione e il peso del reale, e in parallelo il suo capovolgimento (in alterità: non prevedibile).
Il primo verso della sequenza In Italia ci avverte: «Ero altrove, poi qui». Sciolto da vincoli di titolo e contesto, un verso simile (e c’è legittimità nel leggerlo come fosse isolato) addensa in poche parole il paradosso dell’identità (e) del luogo. Dopo appena due strofe, ecco: «Dite che è un tempo qualsiasi tranne ora, / ma dite che è irreale». Si è immediatamente aggiunto un paradosso centrato sulla dimensione temporale. Leggiamo allora, più avanti, da Il paradosso di Moore:
escogitiamo teorie
incompatibili con le cose che conosciamo davvero, […]
I poeti sono meno bravi, o forse più bravi
ad abitare ciò che è palesemente non vero e
a issare lo stendardo dell’ipotesi a dispetto del reale –
In un certo senso è questo il nocciolo della questione, no?
6. Heather McHugh (come James Tate più avanti) non è presente con molti testi, almeno a paragone di altri autori; ma l’impressione che comunque si ricava dalla lettura è quella di un’autrice attratta dalla forma-racconto (vedi la prima poesia, Quello che lui pensò) e – sul versante dei temi – dalla giustizia/giustezza del linguaggio degli oggetti, e del corpo innanzitutto. La mente, parassita testimoniale ineliminabile della vicenda della materia, «è scintillante, vero, ma togli / lo stupido vento e dì cosa resta vivo. // Senza respiro è morta, per quanto brillante».
Come per ologrammi rappresentativi di sfere più ampie di mondo, raccontando episodi circoscritti McHugh lascia che la presunta onnipotenza della scrittura (anche poetica) abdichi a favore di una attenzione scrupolosa alle cose. Dato che «Qualsiasi specchietto contiene / l’intera intoccabilità / del sole».
(Dunque il microcosmo non solo allude al cosmo intero ma ne replica l’inconoscibilità).
7. Si trova nella scrittura di Robert Pinsky un tono politico meno inesplicito che in altri poeti. Strand nell’introduzione al volume dichiara che solo alcuni degli antologizzati «scrivono poesie che possono essere interpretate come politiche» (e continua: «eppure tutti sono contrari alla guerra in Iraq»). I versi di Pinsky, come quelli di C.K.Williams, sanno fare allusione continua a situazioni di dolore privandosi però di dichiarazioni frontali. A volte la stessa ‘classe’ a cui il dolore si applica è oscura, come nella poesia La generazione prima.
Altre volte il riferimento è più circoscritto, chiaro: come in Camicia, testo dedicato all’incendio di una fabbrica avvenuto nel 1911. Queste peculiarità della scrittura di Pinsky, come la tonalità delle poesie d’amore, lo avvicinano probabilmente – più di altri – a una eredità beat.
8. La misura ideale di Charles Simic è nella poesia breve. Lo dimostrano le pagine qui presentate. A una centralità di immagine e metafora come motori della scrittura, si unisce in lui la facoltà rara di disegnare ‘attori’ e comparse e silhouettes con pochi tratti, perfino grezzi (duri), riuscendo proprio per via di sottrazione e ombra a dotarli di vita. Il dolore è l’asse tematico di Simic. Viene incarnato in micro-leggende dissonanti, che si direbbero inseparabili dalle radici slave del suo repertorio. La guerra, la fuga, la precarietà esperita nella carne, la morte (ma anche un eros giocoso), la povertà, la dialettica tra visione e (crudele) negazione di visione, si alternano o si sovrappongono. Una delle sue più belle poesie è Sillabario:
Il piccolo s’era sporcato tanto
giocando nella cenere
che quando lo richiamarono in casa,
quando gridarono il suo nome sulla cenere,
fu una manciata di cenere
a rispondere.
Manciatina di cenere, dissero,
eccoti un’altra manciata di cenere per cena,
che ti faccia venir sonno,
e ti faccia crescere forte.
9. Mark Strand è uno degli autori che senza difficoltà affronta due ‘modi’ (e nodi) massimamenti difficili, delicati, della poesia occidentale: l’io lirico, e la poesia come argomento di poesia. Si tratta però di due soli aspetti – anche se macroscopici – di un’identità più vasta.
Sembra di trovare infatti in lui il paesaggio intero della poesia statunitense: dalla flessione filosofica («In un campo / io sono l’assenza / di campo / […] / Ovunque io sia / io sono ciò che manca / […] / Io mi muovo / per preservare la compiutezza delle cose») alla notazione metatestuale («Penso alle vite innocenti / delle persone nei romanzi»); dal cosciente inserimento nella tradizione romantica («Oh, guarda, la nave salpa senza di noi! E il vento / viene da est, e la prossima nave è tra un anno») a un certo dettato di realismo («Questo è il luogo. Le sedie sono bianche. Il tavolo splende. / La persona che vi siede fissa la cerea incandescenza»). Ma: ogni prelievo e citazione dal tessuto della poesia di Strand gli fa torto, pur descrivendolo.
Nemmeno i suoi – fin qui inediti – dialoghi o incontri neri/ironici con la morte («Non penso alla Morte, ma la morte mi pensa») sono circoscrivibili, dicibili. Nonostante compaia nell’antologia un gran numero di testi, si ha netta l’impressione che la sua scrittura rimanga non ancora (del tutto) decifrata ed esposta. Ma non è un limite di West; semmai è una sovrabbondanza di complessità (nell’apparente limpidezza di scrittura) di Strand.
10. James Tate lavora in direzione di uno stile freddo, come in un rilievo a sbalzo che intenda però deformare le realtà da cui emerge, e di cui sarebbe calco. In due poesie, in particolare, dove mette in scena un personaggio finlandese (con straniata finzione di esotismo), rende concreta una sua scelta di ‘poesia della distanza’. Del resto la raccolta del 1990 da cui i testi sono tratti si intitola Distance from the Loved Ones.
La lontananza non è però introdotta e vissuta solo malinconicamente. Anzi si direbbe che gran parte dello spazio semantico venga occupato da una inclinazione al divertissement, che avrebbe richiesto più testi per esser osservato e apprezzato in pieno. Tate è uno dei poeti penalizzati dallo scarso numero di pagine a disposizione.
11. Non è sbagliato dire che C.K.Williams è il poeta dell’inaggirabilità del reale. Non c’è modo di venire a patti con la realtà, dice. Parlando degli uomini: «Vengono ficcati nella terra / come chiodi; se si muovono di un centimetro, / li si martella giù di nuovo». Con le cose non c’è spazio di contrattazione. Nella rapida poesia-racconto L’amante (di lui), tutta una sequenza di eventi digeriti dal personaggio per arrivare a una comunicazione segreta, a una telefonata nascosta, è sepolta da una semplice cabina sfasciata, «devastata dai vandali, il ricevitore strappato». La parola è interdetta, sciolta.
Nella sequenza Interrogatorio II, centro della scena è una stanza di tortura.
Allo stesso tempo (come nella poesia Epoca: 1976) la fragilità di fronte alla durezza delle cose non si disgiunge in Williams da una parallela «impotenza di fronte ai meccanismi della mente»: che obbligano il soggetto alla tristezza, al ripiegamento, alla rabbia; così come alla luminescenza del ricordo.
12. Charles Wright, quasi coetaneo di Strand, è decisamente un autore di esterni. Nomina e afferra la realtà se e in quanto è paesaggio, orizzonte, schiettamente natura. Senza temere né l’oscillazione tra visibile e invisibile, né il colloquio e la familiarità con il lettore, né la dichiarazione diretta, in apparenza ‘ingenua’:
Mi lascia sempre incantato
il modo in cui il paesaggio ricalibra le stazioni dei morti,
il modo in cui quel che vediamo incrementa
lo strano quoziente di ciò che non vediamo,
il modo in cui il soffio di Dio ricostituisce il nostro camminare in su e in giù.
Da ogni margine di questa predilezione per lo spazio, tuttavia, l’ego riceve legittimità. È questo il modo di ridire «io», in Wright, senza retorica. Facendo sì che a pronunciarlo sia il mondo.
Qualcosa di simile, nel rapporto con il mondo-linguaggio, può esser detto per tutte le dodici voci di cui West of your cities è formata.
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[Recensione già comparsa – in versione lievemente differente – in «Nuovi Argomenti», serie V, n.26, apr.-giu. 2004]
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marc, avevi letto le poesie di michael palmer che avevo postato su ni un po’ di mesi fa? parlando senza aver letto l’antologia, mi sembra che ci siano punti di contatto proficui.
e poi dovrò (o si dovrà), un giorno o l’altro, fare qualcosa su/per charles reznikoff e le sue narrazioni in versi della soluzione finale.
confesso che mi erano sfuggite. le vado a leggere subito. mi sembra ottima questa raggiera di link che stiamo mettendo in campo, utilizzabile poi per il nostro dialogo a RomaPoesia, in ottobre, proprio per legare le varie strade/scritture italiane a quelle di area francofona e anglofona. fra l’altro è uscita da poco un’antologia interessante curata da Ballerini e Vangelisti, “Nuova poesia americana”: si può leggere la scheda andando sul sito IBS: http://www.internetbookshop.it/ser/serdsp.asp?shop=1&c=EEEPXUX5XPLEE
Si si, molto belle. Ragà per tutti i troller mettiamoci daccordo al mio indirizzo privato puttanedellest@libero.it così c’organizziamo. w il nuovo libro di Scarpa!
Ho l’antologia, è stata davvero un bel colpo per la mia ignoranza. Mi ha anche indotto a procurarmi un libro “tutto” di Strand (“L’inizio di una sedia”). L’enigma Strand (bell’enigma) per me tuttavia rimane.
[Perché lasciare “commenti” inutilmente volgari, per niente provocatori e sostanzialmente penosi?]
Se può interessare, realizzammo l’anno scorso un’intervista con Abeni, reperibile a http://www.nabanassar.com/intabeni.pdf , giusto a proposito di “west of your cities”.
Bella l’intervista a D.A.; ricca di annotazioni e indicazioni.
Per Strand: secondo me va letto – quasi come una serie di poèmes en prose – anche il suo libro dedicato a Hopper (pubblicato da Donzelli, come le poesie de “L’inizio di una sedia”).
[Singolari i testi dei poeti sui pittori. Lunga tradizione. Qui annoto solo che è parecchio interessante anche il lavoro di Simic su Cornell: “Il cacciatore di immagini” – Adelphi].
Incollo qui sotto una parte di recensione che avevo dedicato al libro di Strand su Hopper l’anno scorso:
>
C’è modo di apprezzare qui un’altra inflessione della scrittura di Strand. L’autore interpreta trenta dipinti di Hopper attraverso brevi/limpidi pezzi in prosa. A specchio dei testi, la riproduzione delle opere dell’artista.
I brani di Strand hanno il merito di essere totalmente estranei al già noto: nessuna pagina indugia nella visione di un Hopper pittore della solitudine e del vuoto della società statunitense degli anni ’40-’60. Sono elementi dati per acquisiti.
Gli interni muti, le case isolate, i tratti inconclusi di litorale, i margini di foresta minacciosa e gli scorci di frontiera tra città e wilderness, così come la luce su trapezi di finestre e porte cieche, o le fasce schiaccianti di metropoli, non danno spazio ad alcuna semplificazione sociologica, né a un canto generico sulla malinconia o l’isolamento o il crollo del sogno americano.
La luce anti-impressionista di Hopper (artista che lavora ‘a memoria’, in studio) trova in Strand un lettore ideale. Le analisi delle opere si dedicano – non freddamente ma quasi conversando con il lettore – ai nessi di forme e linee delle figure, alle ricorrenze di geometrie, ai “luoghi del viaggio” e della sosta, al rilievo semantico dei cromatismi, delle masse. Addirittura alle ironie che certi dipinti suggeriscono (esemplare il ritratto del “Circle Theatre”, la cui insegna, semicoperta dunque invisibile, lascia emergere lettere che in inglese suonano come il verbo “to see”: “vedere”).
Alcuni affondi nelle inquietudini delle opere di Hopper sono particolarmente acuti. Leggiamo: “Gran parte di ciò che avviene dentro un dipinto di Hopper pare essere in relazione con elementi dell’invisibile regno oltre i suoi limiti […] Eppure, spesso Hopper colloca nei suoi quadri l’inarrivabile”. È il caso di “Stairway”, dove una discesa di gradini indirizza sì lo sguardo verso una porta spalancata, ma questa inquadra alberi serrati in massa opaca, aggressiva: dunque “la porta aperta non è il passaggio innocente che collega l’interno all’esterno ma un gesto paradossalmente architettato per trattenerci dove ci troviamo”.
La pittura di Hopper, nei suoi enigmi e lacune e calchi di racconti solo suggeriti, sembra naturalmente dialogare con gli stessi “moments of deep introspection” propri della poesia dello stesso Strand
…
Preso nota.
Grazie.
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