Appunti per una ricognizione.
Vorrei riprendere il filo di un ragionamento che avevo incominciato qui su NI qualche mese fa. Comincio con questo testo per provare a chiarirmi le idee. Jacopo Guerriero
Esiste indubbiamente una pop
Continuando in questo senso il discorso, seppur indirettamente la pop editoria è responsabile, ad esempio, di certo etnocentrismo. Nel senso che la mancanza di un tramite per una possibilità di confronto genera fatalmente immobilità e impotenza creativa e conoscitiva. Resterebbe monco il discorso, peraltro, se –anche solo per accenno- non venisse chiamata in causa a questo punto l’università con le sue strutture, del tutto parallela e connivente per via di una produzione scientifica sempre più parcellizzata, che difende l’incapacità di confronto proprio grazie alla divisione del sapere.
Al contrario, invece, è possibile istituire quasi una qualche parentela tra editoria e certa etnologia o archeologia, in fondo ricerche che tentano l’incontro con esperienze altre, diverse, in nome di una universale volontà di conoscenza. Dell’etnologia, peraltro, andrà tenuto in considerazione anche il rischio primo, quello delle contraddizioni provocate da chi, nel nostro caso in spirito occidentale, tenta di raggiungere e di interpretare diversi significati –l’empasse generale della produzione della scienza, così come si è storicamente andata formando-.
Esiste, tuttavia, uno scarto profondissimo tra pop editoria e editoria-etnologia o editoria di progetto. Sul campo, oltre a tutto quanto ho cercato di dire, la differenza la fa soprattutto una volontà sincera, come ha scritto di recente un editore, di dare la parola a scrittori “in campi che la casa editrice si è attrezzata ad affrontare (…), in ambiti che devono essere, pur con molti limiti, frequentati dall’editore e dal gruppo editoriale che conduce la casa editrice”. Sotto questo profilo, nonostante il mercato evidenzi anche da noi, ormai, i segni inequivocabili di una distorsione pop, la situazione resta abbastanza felice. Forse questo è il nodo non risolto del dibattito che in rete si è sviluppato su questo tema qualche mese fa.
Il desolante panorama descritto da
Mi piacerebbe dunque inaugurare –lo farò nei prossimi giorni, questi sono appunti e non una dichiarazione di intenti-, un breve percorso dedicato alla mappatura di case editrici e uomini che si ostinano a reagire al molto disincanto che troppo spesso si respira quando si guarda al mondo editoriale. Mi piacerebbe, utilizzando soprattutto lo strumento dell’intervista, dare la parola a chi, molte volte nel silenzio e nell’anonimato, impegna tutto se stesso in nome di una potenzialità aperta. Prendo a benedizione un breve passo di Gabriel Zaid, un grande intellettuale messicano che di recente è uscito per Jaca Book con un titolo provocatorio (I troppi libri).
“La cultura è conversazione. Scrivere, leggere, redigere un testo, stampare, distribuire, catalogare, recensire possono alimentare questa conversazione e tenerla viva. Si potrebbe affermare persino che pubblicare un libro equivale a inserirlo nel bel mezzo di una conversazione, che fondare una casa editrice, una libreria o una biblioteca equivale a avviare una conversazione –una conversazione che sorge, come dovrebbe essere, dal dibattito locale, ma che si apre, come dovrebbe essere, a ogni luogo e a ogni tempo”.
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Infatti. L’editoria italiana nel suo complesso propone un’offerta variegata e perciò vantaggiosa per il lettore; è un’editoria, a mio modo di vedere, ben più viva di quanto si possa credere, e di quanto molti operatori del settore – perlopiù scrittori- lamentino. Sono dunque curioso e molto interessato a seguire la “mappatura” di Jacopo. Credo che ci sia bisogno di idee chiare, di sintesi propositive. Dalla quali ripartire – in termini di dibattito e non solo – con slancio.
Il punto è: se queste persone esistono e sono tante, se hanno davvero il grado di incidenza di cui qui si dice, perchè viene costantemente lamentata una sorta di marginazione? Non è che davvero siamo al declino della piccola editoria?
Sono sicuro che Jacopo ci darà dei materiali più che validi per ragionare sulla domanda di Olivia. Li aspetto con curiosità e anche, devo dire, quasi con impazienza. Fin d’ora: grazie Jacopo !
Che splendida citazione.
Purché il dialogo così inteso non diventi cicaleccio da comari, parlottio da congrega o peggio: talk show.
Buon lavoro.
bellissimo progetto e osservazioni che assolutamente condivido. Cartografare il paesaggio mi sembra intelligente e lo si potrebbe anche immaginare come un opened source, cioè una fonte a cui portare ed attingere acque che ti calmano la sete. Non dimentichiamoci dei librai, che sono la prima linea dell’editoria (e dei guasti della distribuzione)
effeffe
Grazie dell’incoraggiamento. A giorni metto on line il primo pezzo. Speriamo di fare un buon lavoro..
Naturalmente ci sono anch’io a seguirti.
Mettere tutta la conoscenza in rélation critique, come già diceva tanti anni fa (non inascoltato, grazie al cielo) Jean Starobinski. E d’accordo anche con Francesco Forlani: la cartografia non può essere se non un open source, cui tutti attingano e cui ognuno porti il suo contributo. Se la nuova Nazione Indiana producesse anche soltanto questo, sarebbe un risultato degno di lode.
sì certo.
e però ci sarebbe da chiarire il senso di quella frase iniziale, per me oscuro:
“Esiste indubbiamente una pop editoria che è consumatrice-già-consumata. Crea cioè consumi estetici attraverso la rielaborazione in chiave teorica di merci e stereotipi comuni, a fondare una consumazione artistica che derealizza ogni presente.”
Jacopo chiarirà. lavoro e impegni permettendolo. Se qualcuno scrive in maniera meno comprensibile di Emanuele Kant, forse non vale poi tanto la pena di spremircisi le meningi, sostenne una volta (e a un dipresso) Vito Mancuso, che Jacopo ha spesso e molto opportunamente citato.
speriamo che gli impegni di jacopo gli permettano una risposta, certo: non vorrei rubargli troppo tempo, si capisce.
Non esageriamo, mes amis, che ci faccio la figura del fesso:-))
Un po’ brutalmente, all’inizio, volevo stabilire un rapporto tra arte pop e pop editoria. Nel senso: come la pop (arte) non inventa niente, ma al contrario ironizza di oggetti già presenti nell’immaginario grazie al mercato che li rivela e li celebra, così l’editoria ha scelto di non funzionare più da tramite, rielabora stereotipi rinunciando al proprio ruolo di tramite, di esplorazione..
grz
Messa già così, Jacopo, è più chiara ma non del tutto condivisibile. Se l’editoria italiana nel suo complesso fosse tutta così, un libro come Per amore non sarebbe uscito da Mondadori, per esempio. L’intelligenza critica non può disgiungersi, per nessuna ragion polemica al mondo, dalla precisione.
Andare off topic quando non si è capito bene l’argomento del post è facile.
Quindi mi scuso in anticipo, perché mi abbandono smodatamente agli appunti che seguono.
L’immagine della pop art applicata a scopo esemplificativo all’editoria di consumo (ma è all’editoria di consumo che ci si riferisce?) per contrapporla all’editoria propositiva e di “ricerca” (?) non mi convince tanto, perché fa torto alla pop art.
(Ma forse si pensa all’editoria di genere, tipo il giallo e il noir e l’archeo-templar-misterico e il para-americano, eccetera).
Fatto sta che secondo me non è vero che la pop art “non inventa niente, ma al contrario ironizza di oggetti già presenti nell’immaginario”.
Credo che l’ironia, a conti fatti, sia molto lontana dall’atteggiamento pop.
Il pop artista prende talmente sul serio l’immaginario de consumo cui si riferisce, da assumerlo come proprio universo globale, reinventandolo con grande applicazione tecnica e con estremo impegno intellettuale.
Non sto pensando a Warhol, cioè non solo a lui: penso poco a Warhol perché di fatto mi annoia.
Penso soprattutto al più grande, al più coerente, al più concettuale, intelligente e profondo artista che la pop art abbia prodotto: Roy Lichtenstein.
Roy dice: io scelgo, per arbitrio individuale e per coerenza col mondo in cui vivo, di situare il mio immaginario come fosse dentro un medium linguistico pre-fabbricato e pre-costituito e di fatto istituzionalizzato, quello del fumetto.
L’ottica del fumetto, come tecnica e come figurazione (in realtà la tecnica di Lichtenstein non è fumettistica, ma *pittoricamente* tesa a riprodurre la tecnica fumettistica: non dimentico mai che stiamo parlando ancora di *pittura* e che anzi la vera profondità dell’atteggiamento pop sta nel suo essere essenzialmente pittura & pittoricità), gli serve per ri-analizzare il cosiddetto reale, compresa l’arte, moderna e antica.
È così che l’intelligenza e la creatività di Roy si scatenano in un gioco vertiginoso di rimandi che fanno impallidire il Foucault che analizza Magritte e Las meninas e Magritte e Velasquez stessi: si pensi alla serie di Brush stroke, le sue pennellate di vernice, ai suoi Picasso rifatti come fossero appesi dentro la casa di Donald Duck, eccetera.
È vero che il linguaggio di cui Lichtenstein si appropria – sarebbe meglio dire, che strenuamente analizza” – è già presente nell’immaginario e ne costituisce una parte rilevante.
E però non è vero che la sua è pura tautologia et pleonasmo, che non inventa nulla, che nulla, con lui e con tutta la pop art, procede verso alcunché.
La pop art riesce invece a straniare ai nostri occhi, ripresentandoceli oggettivizzati, una serie di linguaggi ai quali prima non ci accorgevamo di aderire spensieratamente.
E acriticamente aggiungerei.
Ma il bello è che questa operazione, questo lavoro tosto, grossissimo e faticoso (non parlo di Warhol, che da un certo momento in poi smette di pensarsi anche come solo come testimone non-pensante e affoga in un mare di noia), non viene compiuto per additare quei linguaggi alla nostra esecrazione, anzi.
Nel momento stesso in cui ce ne rivela la sostanza, la pop art ci dice che il suo mondo non solo è una novità storica assoluta che tende a soverchiare qualsiasi altra presenza iconica, ma che in fondo è un linguaggio come un altro, né peggiore né migliore.
Stop.
per niente off topic, ai miei occhi, e sono molto d’accordo con il tashtego di qui sopra e per nulla con jacopo quando dice che la pop art non inventa niente. Ma forse jacopo è stato eccessivamente rapido nella formulazione.
Inoltre come si possono mettere a confronto? non capisco, la pop art è per l’appunto arte, cioè un lavoro faticosissimo di ripensamento e analisi critica del presente attraverso un manufatto pittorico, l’editoria è industria e deve fare i suoi conti, anche quando è propositiva e ha un qualche progetto.
O è il fatto che sia industria che viene sottoposto a critica?
Grazie dei commenti, molto stmolanti. Domani posto anche io qualcosa, oggi sono un po’ oberato. Scusate..
Crea cioè consumi estetici attraverso la rielaborazione in chiave teorica di merci e stereotipi comuni, a fondare una consumazione artistica che derealizza ogni presente.
Temo di cogliere, Jacopo, dal tuo post,osservazioni intellettualmente acutissime, ma sottese da un estetica fatalistica, da un sentimento quasi impotente di fronte alla parola-gabbia.Mi sovvengono immagini arcane in cui il filosofo celebra il logos come verità contemporaneamente scoperta e coperta, svelata e nascosta.(Heiddeger)e in questa inquietudine temo si possano inserire qualsiasi considerazione inerente al “discorso” alla parola raccontata.Essendo la scrittura multiforme in maniera direttamente proporzionale alle declinazioni del pensiero..e inoltre contaminabile dall’ermeneutica mediamente accettata,difficile mantenerla nell’originalità nascnete e conteporaneamente diffonderla.Succede che la sorgente delle nuove parole, sgorghi la dove talenti apparentemente diversi si aprono al circolo ermeneutico reciprocamente, e innestando una sorta di spirale ascendente conoscitiva, aggiungono gli uni altri altri nuove consapevolezze e nuove forme espressive.forse anche editoriali.ma è necessario sintonizzarsi la dove nasce il pesniero, per evitare il rischio dell’appiattimento sul già sentito, sull’estetica retorica.
non so se mi sono capita :-)
Magda
@magda
Io certamente non ho capito te:–))
>La pop art riesce invece a straniare ai nostri occhi, ripresentandoceli oggettivizzati, una serie di linguaggi ai quali prima non ci accorgevamo di aderire spensieratamente.
Mi piacerebbe che si chiarisse una buona volta l’estensione o l’intensione del “noi” implicito in frasi del genere.
E aggiungo: ma tutte queste illuminazioni semiotiche, tutte queste scoperte sui “linguaggi”, non dovrebbero piuttosto trovare alloggio in qualche brillante saggio? A che scopo allora l’iterazione di esempi ridondanti, a che scopo quelle quotazioni ridicole, quel feticismo fetido, quell’orripilante star-system? Mi sembra più plausibile il dogma dell’Immacolata Concezione piuttosto che quello della genialità di un Lichtenstein. Comunque la ritengo una questione di chiese.
volevo dire:se per esempio due geni tipo Derrich de Kerckhove parla con Umberto Eco o con Galimberti o con il Papa(forse) discutendo di antropologia e di pippespaziali, sicuramente aggiungeranno significato nuovo a considerazioni mai fatte, incrementando cosi la quantità totale di senso colettivo,(spirale ascendente) o di non senso della cultura occidentale.il discorso dell’etnocentrismo è vero fino ad un certo punto, ossia, se si mettono a confronto contemporanei con illustri del passato magari anche eteroetnici(:-) succede qualcosa senz’altro, proprio per la commistione di culture assolutamente diverse sia geograficamente che storicamente.come dire: un brainstorming oltre le categorie spaziotemporali fatto da eminenti spiriti del tempo capaci di dare vita a sinergie mai sperimentate. Se Silvio parla ad Einstein non succede nulla di tutto cio’.se Bruno Vespa parla al Papa nemmeno. ma se il papa parla con Hans kung magari nuovi sensi vengono coniati anche per la pop editoria. se editorialisti mercenari definiti indebitamente come intellettuali parlano tra di loro di lana caprina è chiaro che poi , per ricaduta, anche le espressioni che a questi si ricollegano è vuota e tautologica, come la stessa popo art che ne trae ispirazione.
pero’ mi sembra un discorso molto complesso.
Mi rendo conto di aver scatenato un po’ di equivoci a partire da questo testo che- negligentemente l’avevo premesso, ma comunque non è una buona scusa- è fatto soprattutto di appunti.
Provo a spiegarmi meglio:
chi rende il libro un feticcio (l’editoria delle holding), lo fa sostituendo il marketing (il mercato, il consumo) all’attività editoriale, sottraendo il valore d’uso del libro e sempre più spesso, cosa che mi sta ancora più a cuore, togliendo la possibilità di dialogare in reciprocità tra culture, di studiare campi che non garantiscono profitto o immagine. L’editoria delle holding insomma tende a regolare e a anticipare il consumo. A imporlo, a partire da quanto è già esistente.
E’ un’affermazione solo fanfarona e altisonante? E’ mera retorica? Può anche essere, odio usare un linguaggio così tronfio ma, in questo caso, non riesco a farne a meno.
Quello che voglio dire è che nell’opposizione tra piccola e grande editoria è in gioco la sopravvivenza di testi che siano ancora editorially oriented e non marketing oriented. Poi si usi il termine che si preferisce: editoria di ricerca, di progetto..
Fa bene chi ricorda che ancora, anche i grandi gruppi, producono libri che vanno in questa
direzione. Ma fino a quando?
Il parallelo con la pop art arriva a questo punto. Non discuto –non ne ho i mezzi- il valore di linguaggi e giochi di citazione di artisti grandi. Discuto un’apertura al mondo –lo so, qui rischio di semplificare, ma non trovo un termine migliore- che anche nella pop art, avviene a conti già fatti, a bocce ferme. La consumazione artistica evocata dalla pop –anche quando porta a una riappropriazione di oggetti ordinari- è comunque evocata dalla diffusione di prodotti di consumo, di marche.
La citazione infinita dell’originale –va bene, non Wharol, va bene non ironica ma “puramente citativa” come in Rauschenberg- non rinvia in qualche modo a un vuoto iniziale? Forse non a un contesto di implosione in cui la novità artistica è già nel prima, nel già consumato e dunque, in qualche modo, priva di capacità di esplosione proprio perché già dettata da un mercato, da un esistente?
Ora, poi, vado a leggere bene Magda e cerco di capire meglio per rispondere..
Ciao a tutti
lo è senz’altro, però se Silvio parla a Einstein io voglio esserci:–))
@jacopo guerriero
tu dici:
“L’editoria delle holding insomma tende a regolare e a anticipare il consumo. A imporlo, a partire da quanto è già esistente. E’ un’affermazione solo fanfarona e altisonante? E’ mera retorica?”
e poi dici:
“che nell’opposizione tra piccola e grande editoria è in gioco la sopravvivenza di testi che siano ancora editorially oriented e non marketing oriented.”
io dico, è inesatto: la grande è attraversata ancora da pulsioni editorially oriented, come le chiami, e la piccola rabbrividisce quotidianamente di febbri marketing oriented.
Non c’è editoria pura nel senso che tu dici, forse se ci fosse una university press degna di questo nome lo sarebbe verso queste due politiche, ma non lo sarebbe dal punto di vista accademico.
Temo che ci sia una certa voglia di idealizzare la piccola editoria (ma quale?) e demonizzare la grande (ma quale?)
si Jacopo, sei stato non piu’ esaustivo, ma piu’ circostanziato. Le cose che tu affermi sono ampiamente condivisibili e ci buttano sul piatto il problema dell’autore in ansia da prestazione originale e originaria, come dovrebbe essere sempre in realtà.Credo tu ti riferisca citando fenomeni di marketing, alla massificazione del Kitch letteraio sul tipo il Codice da Vinci, Oriana Fallaci e orripilazioni analoghe.La tua considerazione è molto filosofica e intimamente inquieta,perchè vive del dramma della mancanza di sorgenti vive in cui pregnare la propria vena creativa. Inoltre vorrei sottolineare che la rete per esempio, esulando da qualsiasi logica di mercato editoriale di profitto, è un emblematica esperienza del non visto e della contaminazione inedita, perchè è questa che crea nuovi significati…il confronto con lo sconosciuto e la sperimentazione umana. è questione eminentemente antropologica, piu’ di cultura che di natura,se ti puo’ fare piacere, una riflessione interessante è quella fatta dalle recenti filosofie della complessità, ti riporto una roba che ho scritto su bergamoscienza l’anno scorso:…….http://www.bergamoblog.it/modules.php?name=IndyNews&file=article&sid=4174
“Apparentemente diverso l’approccio del genetista Luigi Cavalli Sforza che dallo studio del genoma umano espone le infinite connessioni tra le razze umane date le matrici comuni- L’epistemolo Gianluca Bocchi, sostenitore della tesi della complessità annunciata da Edgar Morin,effettua una mirabile sintesi dei due approcci precedenti, sostenendo che sia la linguistica che la genetica, declinate in ambito evoluzionista, ci confermano per vie diverse la intima comunanza tra le etnie.
Esistono infatti istanze che spingono i gruppi umani contemporaneamente a differenziarsi e ad accomunarsi per l’antica legge naturale della molteplicità e unicità nelle stesse strutture umane- pertanto in tempi e spazi diversi si possono riscontrare fattori linguistici e genetici comuni a tutte le razze e fattori che hanno favorito la loro differenziazione-tutto questo ci permette di sostenere la tesi del cittadino globale planetario abitante del multiverso”
non centra niente apparentemente, ma puo’ essere una chiava di apertura alla possibilità di originalità di significati tutti da costruire.
A questo punto mi chiedo, qual’è esattemente il momento in cui tu definisci il prima dell’arte,che è già orientato verso un tipo di elaborazione letteraria da consumare e non piu’ allo stato virginale?
non ci sono piu’ le editorie caste di una volta…….
Dicevo che mi piaceva Lichtenstein e provavo a spiegare perché, usavo il “noi” forse intendendo un po’ di gente sparsa qui e là sulla crosta del pianeta negli anni sessanta, il “noi” si usa, sapete, in questi casi anche come un’espediente retorico, triste non dico di no, per dire “noi che non siamo Lichtestein e non dipingiamo i suoi quadri ma solamente li osserviamo” più o meno, insomma dicevo queste cose e non mi accorgevo di essere affetto da “feticismo fetido”, di implementare uno star system del cazzo.
Mi spiace.
tashtengo, non prendertela, anche il Papa usa il noi impropriamente.
anche io guardo i prodotti artistici con sguardo ammiccante sperando di eccitarli,e invece sono diventata strabica.
No no, Tashtego, anche se forse nella tua risposta c’è un po’ di ironia, scusami tu. A me sarebbe piaciuta una piccola “scaramuccia” polemica su Lichtenstein e la pop-art, però giocosa (dato che di interessi “concreti” sulla questione non ne abbiamo di certo) ed in pieno rispetto dell’interlocutore. Le connotazioni che ho usato non si riferivano in alcun modo alle tue posizioni, sono più che altro paturnie mie :-). ciao
non so.
io non “guardo i prodotti artistici con sguardo ammiccante sperando di eccitarli”.
voglio dire che non capisco nemmeno cosa vuol dire “guardare i prodotti con sguardo”, eccetera.
non vorrei però chiamarti ad un’altra “risposta letteraria”, magda.
nel senso che non me ne sentirei eventualmente responsabile.
guardare gli oggetti con sguardo.etc etc……vuol dire renderli feticci, in un linguaggio nazionalpopolare,con vocazione quasi animistica…insomma cio’ che sta prima o invece del gesto artisitco,ovvero l’osservazione e la conteplazione che puo’ diventare rito,mito,feticcio,….è una legittima devianza umana.
JACOPOOOOOOOOOOOOOOO, mi hai promesso una rispostina……!!!!!!!!!!!!
Cara Magda, non dimentico, mi dispiace dei miei ritardi. E’ che mi si è sputtanato di nuovo il pc a casa, anche per questo avevo chiesto a Franz di postarmi lui Moresco..
Ora sto commentando dal lavoro e non è proprio il massimo..
Non è che potresti mollarmi una tua mail così mi è più facile scriverti?
Ciao
se vuoi te la mollo pure, ma è un po’ monitorata, fa niente? cmq fai il mio nome punto cognome et libero
Eh, non so il tuo cognome, sono un imbranato con la rete!
ma se l’ho messo nella presentazione ufficiale! nel post dopo “il fallimento” mi pare…..
cmq mantecca