Ancora su Edward Lewis Wallant – 1
di Tommaso Pincio
Tre anni appena. Soltanto per tre anni Edward Lewis Wallant si considerò seriamente uno scrittore. Un’avventura letteraria, la sua, iniziata relativamente tardi, dopo una gioventù trascorsa lavorando come art director pubblicitario, e troncata molto presto nel 1962, a soli trentasei anni, da un aneurisma. Ciò nonostante Wallant riuscì a sfornare quattro romanzi e vederne pubblicati due.
Bastò uno – L’uomo del banco dei pegni – a garantirgli una discreta notorietà, grazie anche alla memorabile trasposizione cinematografica in cui Rod Steiger veste i panni di Sol Nazerman, un ebreo che il trauma dell’Olocausto ha trasformato in un gelido individuo incapace di provare emozioni, una persona ormai indifferente alla disperazione altrui. Pochi anni per quattro romanzi, dunque. Ovvero quattro «piccoli capolavori» come li definisce Dave Eggers nella sua introduzione a Gli inquilini di Moonbloom, riesumato recentemente dai cassetti e ora proposto per la prima volta in Italia (Baldini Castoldi Dalai, traduzione di Massimo Bocchiola, pp. 278, E. 13,80). Non c’è che dire, «piccolo» è un aggettivo che si attaglia perfettamente a Wallant la cui opera descrive con notevole grazia ed efficacia lo stesso mondo di Bernard Malamud e Philip Roth – quello degli ebrei newyorchesi, per intenderci – senza però raggiungere la straordinaria levità del primo né la brillante perfidia del secondo.
Una delle ragioni per cui Wallant non affonda più di tanto il colpo va ricercata nella sua visione spirituale e positiva della vita, una forma di religiosità che ha indotto alcuni critici ad accostarlo a Flannery O’Connor. Per lui la natura dell’uomo è essenzialmente divina. La redenzione è sempre possibile e va cercata nelle persone più meschine e mortificate, perché è proprio nei «piccoli» uomini che il contatto con Dio trova un canale privilegiato.
Un piccolo uomo ci appare fin dall’incipit anche Norman Moonbloom, il protagonista del romanzo. «Intrappolato nel filo del telefono ritorto, vittima della sua tendenza alla goffaggine», egli corrisponde inequivocabilmente a un tipico cliché della letteratura ebraica: il perdente perenne. Del resto, Norman è il primo a riconoscerlo. «Sono un piccolo uomo dai limiti precisi» dice, e malgrado trascini stancamente se stesso in un’esistenza triste e solitaria, l’ammissione di avere la vocazione dell’outsider stranamente lo rilassa.
Norman ha sempre sfiorato la vita senza mai entrarci dentro veramente. A trentatré anni si ritrova a fare l’agente immobiliare per conto di Irwin, il fratello maggiore che lo vessa in continuazione. Il suo ufficio si trova in uno squallido seminterrato e il suo compito consiste nel riscuotere gli affitti di quattro stabili lerci e cadenti. Ogni settimana fa il giro degli appartamenti ascoltando gli inquilini che, tra una confidenza e l’altra, si lagnano per il lavandino che perde, l’ascensore rotto, la presenza di scarafaggi. «Vedrò cosa posso fare. Manderò qualcuno a controllare» replica regolarmente Norman con rassegnazione. Il momento di estrarre il blocchetto delle ricevute e intascare il denaro è per lui una liberazione. Tornato a casa, medita sulla propria condizione e al primo accenno di sonno si rifugia nel letto. Al mattino si risveglia stanchissimo e nient’affatto ansioso di iniziare una nuova giornata, di scarpinare per le strade di New York avvolto nella sua placenta invisibile, prudente come un topo in un labirinto elettrificato. Finché non accade qualcosa, Norman si ammala. Magari si tratta di una semplice influenza, tuttavia l’indisposizione ha l’effetto di un morbo allucinatorio. Cinque giorni di febbre e deliri fanno di lui una persona nuova. Si sente cambiato. Esce e la città gli sembra straniera. Va a riscuotere gli affitti e si scopre incapace di svolgere il proprio lavoro con la passività di sempre. Si mostra più deciso, prende iniziative e, cosa ancor più sorprendente, si ribella agli sfoghi degli inquilini. Adesso, quando dice che provvederà, c’è un tono minaccioso nella sua voce. Adesso, quando i suoi affittuari gli riversano addosso le loro confidenze, Norman monta di rabbia e sbotta: «Io non richiedo tanta intimità. Io sono l’agente, riscuoto gli affitti. Tutta questa messinscena è da manicomio».
In pratica Norman è diventato un altro uomo, una persona che sente di poter fare grandi cose. «Quali cose» non sa. Quel che sa è che adesso gli viene sempre da ridere. Ride di tutto, in particolare di ciò che dovrebbe intristire anziché suscitare ilarità. Ride delle disgrazie altrui, di quell’umanità dolente che sono i suoi inquilini. Ride perché nella nuova consapevolezza donatagli dalla febbre, i dolori e i tormenti di quelle esistenze patetiche gli sembrano buffi. E mentre viene assalito dalla ridarella, Norman si concentra sul lavoro. Decide di rimettere le cose a posto, di tirare a lucido gli stabili. Così inizia a pulire dove è sporco e ad aggiustare ciò che non funziona. Il tutto sotto gli occhi esterrefatti degli inquilini che lo guardano come se gli avesse dato di volta cervello. Ma proprio per questo il loro rapporto con Norman diventa più intimo di prima. Sempre in giro per appartamenti a riparare, quell’uomo un tempo dimesso e malinconico appare ora agli inquilini come un essere degno della massima fiducia, un confidente ideale come solo un’immagine sacra può esserlo.
«Per alcuni parlare senza veli davanti a lui era come parlare con se stessi. Gli affastellavano le cose addosso ed eccedevano il disgusto per i propri atti. Una persona sfila nuda per provocare ma intanto compie un atto di completa fiducia. Forse Norman era un orecchio di Dio». La natura mistica della metamorfosi è evidente, e siccome il caso vuole che l’agente immobiliare abbia trentatré anni e sia vergine, è inevitabile vedere in lui qualcosa di Cristo. Egli è però un Cristo speciale, un figlio di Dio che non fa miracoli.
Un inquilino tenta il suicidio? Norman gli tinteggia la parete. Un altro ha appena saputo di avere un cancro all’intestino? Norman gli sistema la parete tumescente del bagno. «Ma morirò?» gli domanda il poveraccio. «Sì, sì, lei morirà» gli grida Norman ridendo. «Fra i più atroci dolori?» continua a chiedere l’inquilino. «Fra i più atroci dolori e solo come un cane. Ma il muro sarà nuovo, e pulito e degno di lei» dice Norman tremando dal ridere. Trema perché ama i suoi miserevoli inquilini proprio come potrebbe amarli un messia. Egli ride di loro perché certa piccola umanità è così a corto di speranze che «dobbiamo amare, e dilettarci l’uno dell’altro e di noi stessi». Perché non c’è rimedio per le grandi angosce dell’esistenza. Il solo che possiamo fare è tinteggiare, riparare e pulire; eliminare piccoli inconvenienti mentre le persone si mostrano per quelle che sono, anime in pena.
E se Dio è un orecchio che ascolta le storie di persone qualunque che abitano un edificio qualunque – uno dei tanti edifici lerci e cadenti di una delle tante città incasinate di questo nostro mondo imperfetto – allora anche Gli inquilini di Moonbloom possono essere Dio. E se non proprio Dio in persona, quantomeno un capolavoro di romanzo. Nel suo piccolo, ovviamente.
(Pubblicato su Il Manifesto – 15.10.2005 )
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Probabilmente non leggerò mai Edward Lewis Wallant, ma questa recensione mi piace.