“La segreteria telefonica è spenta”
di Franco Fortini
[…] Solo in questo sono d’accordo con Paris: la mitificazione di Pasolini – che di anno in anno cresce per bancari volumi patinati, convegni, esegesi di collitorti internazionali quali egli avrebbe (spero) vomitati – segue una via obbligata.
Ne viene oscurata non solo la grandezza del poeta e del critico: soprattutto il valore del suo appello suicida a una novità ininterrotta ma ciclica: che in lui coincise con la corsa, metricamente ostacolata, verso la autodistruzione e la morte. Come la nomenclatura sovietica fece con Majakovskij, così quella letteraria e giornalistica del nuovo ‘generone’ internazionale rimesta e rivolve l’enorme stampato e l’altrettanto enorme inedito pasoliniano allo scopo di ‘non’ compiere la sola cosa necessaria: una vera operazione critica ossia di analisi, di selezione e interpretazione di testi ben delimitati; e di un giudizio. […]
Ma è sciocco (o peggio) celebrare in Pasolini un pensiero di scelte etico-religiose che egli tanto meno ebbe quanto più lo esibiva (o lo ebbe senza mai uscire da sé, ossia senza amore) perché continuamente sostituito, nell’opera poetica, dalla in interrotta ripetizione di una recita. Vi si risolveva o dissolveva intero il nesso di verità e di autoinganno che lo manteneva in vita. È anche più stolto cercare, nell’opera o nella biografia, un orizzonte politico cui, almeno nel suo ultimo decennio, egli non guardo col minimo di umiltà necessario.
Neanche uno religioso, in lui continuamente deformato dalla affabulazione edipica, fino a togliere persino ogni fondamento all’aura di martirio di che si vorrebbe coronata la sua tragedia. È invece necessario interrogare ‘il meglio’ di Pasolini, la sua sicura grandezza, la sua veemente ‘canzone del nulla’, il suo dilacerato compianto di una società immaginaria e immaginata, Italia o Europa – come d’altronde, nella sua folgorante intelligenza, sapeva benissimo – o di un mondo tutto in via di distruzione. […]
Ero e rimango persuaso che il suo meglio (nella vita e nella pagina) era dove si accostava, con la nostra medesima santa incertezza, all’idea di una società che non vuole padri se non dopo aver incontrati dei fratelli, né maestri se non dopo avere riconosciuto dei compagni. Ecco perché bisogna allontanare con un gesto della mano le zanzare che riducono tutto a una bega da Capitale del Ronzio. Pasolini risponderebbe, come Ronsard: “tutti voi siete usciti dalla mia grandezza”. Anzi, non risponde neanche. Strappa senz’ira le chilometriche bibliografie, confonde i nastri dei lungometraggi, scende nella sua meritata e fatale stanchezza, non c’è per nessuno, la segreteria telefonica è spenta. […]
(Questi brani sono tratti da un articolo apparso su L’Espresso, il 5 maggio 1992, col titolo “Pasolini e Moravia”, poi inserito in Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Garzanti, 1993, pp. 235, 236, 237.)
Ognuna di queste parole, di Fortini, dovrebbe essere sciolta dalla sua forma compiuta di “giudizio” e utilizzata come materia abrasiva sull’opera stessa di Pasolini e i suoi dintorni mitico-biografici. Da questo reciproco attrito potrebbe giungere a noi maggiore chiarezza su quale possa essere, oggi, il nostro rapporto con entrambi. A. I.
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evidentemente su nazione indiana non si commenta quando la segreteria telefonica è spenta.
sono tutti a colazione al fiorucci store
tank you Andrew English