Appunti su roghi e coprifuochi (2)

Di Andrea Inglese

(Questo testo prosegue una riflessione iniziata qui.)

7. Chiamo la polizia!
2 novembre. Suonano alla porta del mio appartamento, situato in un edificio popolare. Non attendo visite. Guardo dallo spioncino, ma non vedo nessuno. Apro comunque la porta e m’inoltro nel corridoio che conduce agli altri appartamenti. A questo punto sento delle voci, e dei tonfi. M’incuriosisco, e accelero il passo.

Ecco che da uno degli appartamenti sbuca un signore, in accappatoio blu, il viso paonazzo e furibondo, la sigaretta tra le dita. Urla, rivolto a una minaccia che si trova al di fuori del mio campo visivo. “Se non ve ne andate subito, chiamo la polizia!” Lo guardo stupito. Lui rientra. Compaiono un po’ stralunati due ragazzini, sui tredici anni. Sono vestiti in modo bizzarro, e tengono in mano delle maschere di gomma. Con l’aria distratta mi chiedono delle caramelle. Rispondo: “Provo a guardare, seguitemi”. Si fermano davanti alla porta. Io entro e faccio una breve ispezione, ma non abbiamo caramelle in casa. Torno alla porta per salutarli. Non mi guardano negli occhi. Uno dei due, quello che non ha mai parlato, si è nel frattempo infilato la maschera di gomma, che rappresenta un personaggio da film dell’orrore. Io e Magali, la mia compagna, siamo molto dispiaciuti. Siamo dispiaciuti per l’accoglienza che hanno ricevuto, siamo dispiaciuti perché non avevamo caramelle da dargli. Magali scende a comprare dei dolci e della caramelle. Ma nessun altro gruppo di ragazzini passerà a chiederci nulla. Avremmo voluto stare al gioco di Halloween, per una volta. Anche se eravamo in territorio francese. Anche se i ragazzini erano francesi-africani.

8. Francese-x
Perché insisto a distinguere, in questo discorso, il francese-francese dal francese-africano? Perché, fuor di retorica, il secondo termine è più “ricco”, più incerto anche, incerto di sé, ma anche incerto per gli altri, sfuggente alla definizioni (e dunque promettente). Qual è la riposta della destra di fronte alle sommosse giovanili di periferia? È un tipo di risposta ricorrente, che si ripete, innanzitutto, durante le crisi economiche. La destra non sopporta di dover negoziare con un francese-africano. Questo è il punto. E allora fa di tutto per separare queste due entità, in modo da avere da una parte dei francesi e dall’altra degli “stranieri”, degli étrangers. Questo è lo scopo della destra. E ciò avviene per tanti motivi. Il primo è da ricondurre all’attività di tutte le destre: offrire soluzioni politiche che ignorino la complessità del reale. E poi perché la destra francese è inseparabile dal nazionalismo, e vive di “identità” mitiche, immobili, come quella di “popolo francese”. Il popolo francese assimila a sé l’africano, ma non se ne fa contaminare. Il processo di assimilazione deve seguire un unico verso, il verso civilizzatore. La persona di origine africana, anche se nata in Francia, diventerà francese, nel momento in cui saprà non cancellare – il che sarebbe fisicamente impossibile – ma svuotare la sua dimensione africana, neutralizzandola con grosse dosi di manierismo francese. L’idea, invece, che un influsso africano possa circolare nell’identità francese, arricchirla e articolarla, questo credo che non sia contemplato. Ed equivarrebbe ad una contaminazione, ad una corruzione.

Il termine francese-africano, quindi, non ha poi nulla di così strano. Il 10 novembre compariva sul settimanale Libération un articolo di Esther Benbassa. L’autrice scrive, paragonando Stati-Uniti e Francia:
“In quel paese [gli Stati Uniti] si dirà “americano e musulmano”, “americano e nero”. Questo e essenziale alla cittadinanza è ufficialmente bandito da noi, quando ormai è inevitabile e i poteri pubblici dovrebbero tenerne conto.”
Cito un altro passaggio: “La Francia, durante i periodi di crisi, costruisce la sua identità in opposizione all’Altro che le fa paura. Nel XIX secolo, è stato il caso degli ebrei. Oggi, di fronte alla globalizzazione, a far paura è l’Altro come arabo o nero. (…) In questo contesto, il nostro nazionalismo esacerbato ci impedisce di vedere la multiculturalità francese. Né la storia della colonizzazione, né quelle della decolonizzazione o della schiavitù, che sono oggi quelle delle differenti componenti della nazione, occupano lo spazio che meritano nella memoria collettiva” [corsivi miei].

9. Lo “spazio” dell’immigrazione nei documenti ufficiali
Ho consultato un documento ufficiale del 17 dicembre 1983 intitolato La qualità di vita nelle periferie della grandi città. Si tratta di un volumetto, redatto dal “Consiglio economico e sociale” per il Journal officiel de la république française. Si tratta quindi di un documento ad uso del dibattito parlamentare e finalizzato all’intervento politico del governo. La forma è quella del rapporto e si articola in tre parti: Vivere in periferia, I problemi delle periferie in crisi, Per una politica delle periferie “Orizzonte 89”. Un piano di evoluzione di cinque anni 1984-1989. A mano a mano che ci si sposta dalla pura constatazione alla proiezione nel futuro, si passa da una titolazione anodina ad una più mossa e solenne. “Vivere in periferia” dice poco. Ma “politica delle periferie”, “Orizzonte ‘89” e “piano di evoluzione” promettono già, almeno verbalmente, qualcosa di più.

Il volume completo consta di 41 pagine, stampate con caratteri molto piccoli. Nella seconda parte, quella dei “problemi” e della “crisi”, sono presenti una serie di capitoli con relativi paragrafi. Si va dal primo capitolo, La popolazione, al sesto, La nocività. Abbiamo paragrafi con titoli prevedibili: “I giovani”, “L’analfabetismo”; altri, maggiormente accattivanti: “Un urbanismo senza urbanisti”, “La politica del cucù”. Ma quello che più ha attirato la mia attenzione in questo testo, è lo spazio concesso all’immigrazione. Lo immaginate? Il titolo del paragrafo non può essere che “Il problema degli immigrati”. (Questo valga anche per noi, per tutti: spaiare il concetto di PROBLEMA e quello di IMMIGRATO, è come spaiare “di cotte” e “di crude”, nella locuzione idiomatica “farne di cotte e di crude”.)

Traduco (tutti i corsivi sono miei):
“C’erano in Francia, in data 1° gennaio 1983, 4.318.068 stranieri. La cifra è importante. Ma non costituisce, in percentuale, una novità nella storia di Francia. La demografia francese, che non si è mai ripresa dalle perdite in vite umane del periodo della Rivoluzione e dell’Impero, va, nel XIX secolo, controcorrente rispetto al resto dell’Europa. Mentre i suoi vicini soffrono di un eccesso di popolazione, la Francia appare come deficitaria e importa già dei lavoratori. Erano 1.400.000 nel 1914. Le perdite della guerra e lo sviluppo dell’economia rendono il bisogno ancora più pressante. Il loro numero raggiunge i tre milioni nel 1931 su una popolazione di 40 milioni di abitanti. Si tratta, all’incirca, della stessa percentuale di oggi.

Non appare necessario, nell’ambito di questo rapporto, analizzare lungamente le ragioni della loro presenza in Francia. [Permettetemi di tradurre le “intenzioni”: “Bene, delle ragioni che giustificano la presenza dell’immigrazione in Francia, ne abbiamo dovuto parlare. Ora, dimentichiamocele: e consideriamo questi immigrati come se ce li fossimo trovati in casa una mattina, all’improvviso. Un bel problema…] Ricordiamo solamente che esse [le ragioni dell’immigrazione] sono legate a tre fattori determinanti. Innanzitutto la precarietà della loro vita nei loro rispettivi paesi d’origine, sia per ragioni politiche, sia, più spesso, per ragioni economiche. Poi, delle ragioni storiche e geografiche che riguardano un aspetto importante della storia coloniale della Francia, il che spiega la predominanza dei popoli del mediterraneo [testo originale: “des Méditerranéens”, termine praticamente inesistente nella lingua d’uso, per denominare i magrebini], in secondo luogo i cittadini dell’Africa nera e, in misura minore, gli asiatici. Infine, la strozzatura in materia di manodopera esistente in certi settori dell’economia dove predominano i bassi salari e delle condizioni di vita difficili, hanno favorito questa situazione da cinquant’anni.”

Senza scendere nelle sottigliezze della psico-critica del linguaggio politico, si possono dire alcune cose. La gerarchia dei fattori, così come è presentata, appare faziosa. Va semplicemente rovesciata: al primo posto, l’esigenza francese di manodopera a basso costo per lavori “difficili”, ossia “pericolosi per la salute e la vita del lavoratore”. In secondo luogo, il sistema coloniale, che avendo come priorità lo sfruttamento delle risorse naturali, implica già da sempre anche uno sfruttamento della manodopera. Infine, il terzo fattore che permette di evitare una “immigrazione forzata”, ossia una improponibile, nell’Europa del Novecento, tratta degli schiavi. Gli immigrati verranno volontariamente a casa nostra.

Basterebbero questi semplici dati, per promuovere la costruzione di statue dedicate all’immigrato anonimo ovunque in Francia ci siano state grosse comunità africane o asiatiche. Anche in Italia dovremo presto erigerne. Con una scritta di questo tenore: “All’immigrato e all’immigrata anonima, vera manna dell’economia italiana”. O ancora, meno generica: “Alla badante, che ci liberò, per un salario davvero basso, dalla cura dei nostri vecchi”.

Ma finiamo con il nostro documento. Il meglio deve ancora venire. Passiamo al paragrafo successivo: “Un oggi difficile”.
“Per dei decenni, questi immigrati sono stati accolti in Francia senza che fossero considerati efficacemente i problemi che poteva porre tale popolazione. Il nostro paese li ha alloggiati nei baraccamenti o nei pensionati costruiti in fretta, tutti luoghi d’abitazione precari e che gli uni e gli altri speravano vagamente essere revocabili. [Traduciamo: il “problema” posto da questi lavoratori a basso costo, è che alla sera, finito il lavoro, “vogliono dormire”. Potessero stendersi per terra, a lato delle impalcature o in officina, questi “problemi” non ci sarebbero. Quanto a noi, ossia i politici, abbiamo come loro “sperato vagamente” che succedesse qualcosa in grado di toglierli dalle loro baracche. Ma nessun miracolo è avvenuto. Gli ostinati sono rimasti nelle loro baracche.]

Quasi sempre abbiamo praticato il laissez-faire e abbiamo avuto fiducia nella capacità degli immigrati di sbrigarsela da soli, chiudendo gli occhi sulle loro condizioni d’alloggio spesso disastrose. Per essere chiari, la Francia non ha mai avuto, fino ad allora, una politica in questo ambito.”

Va notato che, non solo l’immigrato è pagato poco per fare lavori che mettono a rischio la sua salute, ma vive pure in situazioni abitative “disastrose”, e malgrado tutto ciò riesce ancora a “sbrigarsela”. La formula francese usata è: “esprit de débrouillardise”, ossia quella capacità, quel talento, di cavarsela in situazioni difficili, in ambienti ostili. Non solo l’immigrato lavora come un mulo, vive in baracche, ma ha dimostrato agli stessi politici francesi di avere anche grandi risorse creative nell’affrontare le gravi difficoltà della sua esistenza. Senza tali risorse creative, probabilmente, l’immigrato avrebbe costretto lo stato francese ad avere una politica anche per lui. Insomma, avrebbe costretto lo stato francese a considerarlo come un cittadino normale. (Ma attenzione, nell’immaginario comune l’immigrato è colui che gode, in maniera smodata, dell’assistenza pubblica!)

10. Eroismo
Andiamo ad una conclusione: la vita dell’immigrato, in Francia, ha avuto per almeno una paio di generazioni le caratteristiche dell’eroismo: grande spirito di sacrificio, umiltà, perseveranza, ecc. Nonostante ciò, il discorso istituzionale non ha smesso di catalogarla sotto il capitolo “grossi problemi” piuttosto che in quello “fortune insperate”. Ma il cosiddetto trend si è malauguratamente invertito. Le ultime generazioni hanno, apparentemente, dismesso i panni dell’eroismo. Hanno, nel frattempo, visto molto MTV, letto riviste giovanili, guardato cartelloni pubblicitari, girovagato per centri commerciali, memorizzato epigrammi di spot pubblicitari. Le attese di un cittadino francese non le conoscono, non le hanno assimilate, negli ambienti dove vivono. (Ciò significa che non si aspettano successi scolastici, lavorativi, progetti di vita secondo obiettivi più o meno ambiziosi, ecc.) In compenso, hanno assimilato senza fatica le attese di un consumatore globalizzato. (I templi della merce sono accessibili veramente a tutti, senza discriminazione di sesso, razza, età e religione.) Sarà quindi difficile chiedere loro, oltre a tutto tacitamente, di perpetrare le virtù di umiltà e sacrificio dei loro padri e delle loro madri.

11. Scontro etnico o di classe? Etnico, perché di classe…
(Due citazioni dalla traduzione francese di Historical capitalism di Immanuel WallersteinIl capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistema mondo, Torino, Einaudi, 1983)

“Abbiamo anche rilevato che la formazione di gruppi etnici era interamente legata a quella della forza-lavoro in alcuni Stati, dove essa serviva da griglia di classificazione approssimativa per la distribuzione dei ruoli in seno alle strutture economiche. Laddove, le differenziazioni etniche erano state più profonde, o quando le condizioni di sussistenza si aggravavano, il conflitto tra i detentori del capitale e i segmenti più oppressi della classe operaia tendevano ad assumere la forma di scontri linguistici, razziali o culturali, perché queste caratteristiche erano strettamente legate all’appartenenza di classe. Si parla generalmente di lotte razziali o nazionali per designare questo tipo di conflitti.”

“L’universalismo e il razzismo sembrano, a prima vista, una coppia ben strana, per non dire che si presentano come delle dottrine radicalmente antitetiche: l’una basata sull’apertura, l’altra sulla chiusura; l’una promuove l’uguaglianza, l’altra la discriminazione; l’una si vuole un invito al discorso razionale; l’altra incarna i pregiudizi. Ciò nonostante, il fatto che esse abbiano camminato di concerto nel corso dell’evoluzione del capitalismo storico, ci invita a considerare più da vicino le vie attraverso le quali si sono potute rivelare compatibili l’una con l’altra.

L’universalismo nascondeva una trappola; infatti, non si è imposto come un’ideologia libera e spontanea, ma è stata propagata dai detentori del potere economico e politico nel sistema mondo capitalistico. L’universalismo era offerto al mondo come un regalo dei potenti ai deboli. Timeo Danaos et dona ferentes ! Il dono stesso era impregnato di razzismo, in quanto il suo destinatario aveva due possibilità: accettarlo, riconoscendo così che era situato molto in basso nella gerarchia della saggezza acquisita; oppure rifiutarlo, e rifiutarsi, nello stesso momento le armi che potrebbero aiutarlo a rovesciare la situazione d’ineguaglianza del potere reale.”

(continua)

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andrea inglese
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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.