Alexanderplatz

di Helena Janeczek
Alex2

“Sono a Berlino, sto entrando in Alexanderplatz”, mi sento dire all’amica che chiama da Roma dopo mesi, come se fosse abituale essere qui. Invece mentre attraverso la strada, “Alexanderplatz” è ancora un nome e basta, titolo di un libro che l’amica romana non conosce, refrain di una canzone ignota all’amico di Berlino che mi guida. “Te la puoi risparmiare”, aveva detto, “è bruttissima”. Non avevo obiettato.
Conoscevo poco Berlino ovest, est quasi zero, e poco mi piaceva. Forse perché sono bavarese. La scortesia dalle mie parti è di tipo completamente diverso da quella che regna qui. O devo ammetterlo, per l’assoluta assenza di eleganza, perché Berlino, anche oggi, in qualche punto è bella, ma elegante mai. Per il cielo. Soprattutto per il cielo: ferreo, e non migliora nulla che sia alto.
Tempo variabile nella giornata che ci porta a fare un salto in Alexanderplatz, giusto perché siamo a due passi. Ora c’è un po’ di sole, mentre prima pioveva minacciando grandine o neve. Vento.
Non ho mai visto una piazza così. Così immensa e informe da non sembrare nemmeno una piazza. Sì, in mezzo ci sono delle aiuole con panchine dato il tempo vuote, ma i palazzi alti, tutti postbellici e DDR, stanno lì perché finiscono le strade, le loro angolature non hanno relazione con il centro, con la piazza.
“Be’ piuttosto brutta, ammetto”
“Vedi. Questa è la parte migliore dell’”Alex”.
“In che senso?”
“Andiamo, adesso ti faccio vedere il resto”.
C’è una costruzione grigio azzurra di acciaio e vetro, stile palazzetto dello sport anni settanta che nel solito modo velleitario sembrava chiudere la piazza da un lato. Invece la strozza solamente, come un Ufo che una volta caduto giù si fosse fuso col suolo.
Girandoci intorno si arriva alla seconda parte di Alexanderplatz. Ma ci si ferma subito perché di fronte al palazzo d’acciaio e vetro, a una decina di metri, c’è un enorme caseggiato, un tipico “Plattenbau” dei tempi socialisti che attende la demolizione. Vale a dire: in mezzo alla piazza non ci stanno fontane, monumenti, semafori, spartitraffico e così via, ma palazzoni. Accanto al rudere di ruggine e di cemento scrostato e imbrattato c’è ne un altro, se mezzo su o mezzo giù non si può dire, soltanto che è un cantiere.
Odore di Bratwurst, Currywurst, patate fritte e birra che ristagna nauseabondo nel passaggio stretto. Continua ad aleggiare anche dilà del varco, nonostante la sproporzione di uno spazio che alle sue estremità non appare neppure più cinto in qualche maniera. Plattenbauten. Benzinaio. Vialoni che sembrano superstrade, inizio di periferia. In un angolo, dove finisce il verde che pure esiste, un gruppo di bancarelle espone tute in nylon, giacche a vento e maglioncioni fatti in Cina per il mercato dei massicci est-europei.
Ma il cuore di Alexanderplatz rimane segnato dalle offerte di grasso bruciato. Forse sarebbe sensato che andassero da Est a Ovest e viceversa, ma il vento le porta dove vuole lui.
Davanti all’unico parallelepipedo operante, il grande magazzino “Kaufhof” più o meno allineato con i “Platten” da eliminare, è stata tirata una riga dritta di chioschi alimentari. Come faranno? Vendono tutti gli stessi sei o sette tipi standard di Wurst: da mangiare in piedi, colle mani, sui tavolini tondi in formica posti davanti. Niente kebab, niente involtini primavera o hamburger come nei fast-food della parte occidentale, unica offerta alternativa: polli allo spiedo. Ne dividiamo brutalmente mezzo (1.50 euro) in un orario in cui a Berlino ovest non si mangerebbe ancora; ce ne andiamo con le dita, nonostante i fazzoletti e le labbra usate per pulirli, ancora appiccicose sotto un cielo da pioggia incombente. Lasciamo dietro Alexanderplatz ragionando che non sarà purtroppo, la piazza più brutta e neanche la più grande che si conosca, ma forse almeno la più centrifuga del nostro mondo centrifugo.

pubblicato in: Marina Gersony, Europa Low Cost, Sperling & Kupfer, 2005

12 COMMENTS

  1. Non ti preoccupare, Helena, i berlinesi la rifaranno tutta, c’è già un progetto. Almeno loro le cose le fanno!
    ;-)

  2. La prima volta anni fa ero rimasto deluso, conoscevo soltanto la canzone di Battiato. Poi ci ho fatto l’abitudine, anche al cibo low cost. E c’è qualcosa che non mi so spiegare che quando sono lì mi fa sentire piccolissimo.

  3. rifarla la rifaranno di sicuro.
    ma sarà un male.
    così com’è, ha qualcosa di assolutamente prezioso, una cosa che nel cuor dell’europa forse non la trovi più espressa con tanta chiarezza: alex è forma parlante, è il fallimento del socialismo reale nella capacità di produrre spazio significativo.
    eccetera.
    personalmente la trovo piena di desolante poesia.

  4. Ma dimenticate che forse invece la piazza ha un centro, posto non esattamente nel suo punto mediano, eppure l’unico punto significativo di Alexanderplatz, dove è possibile sostare, aspettare che qualcuno venga verso di te da una qualsiasi direzione. Un orologio che non è un orologio, ma un cilindro metallico ruotante su un perno. Un orologio che disegna un mondo: a sgraffio sull’alluminio i contorni stilizzati di coste, isole, continenti. Elencati tutt’intorno, nomi di città così lontane da essere soltanto suoni, desideri: Vancouver, Kapstadt.
    Nessun appiglio per pubblicità, nessuna esibizione di denaro, persino la tecnica passa in secondo piano se ci si perde in mezzo a quei nomi, restando fermi mentre il carrillon senza musica te li fa passare davanti. I nomi più in alto sono non casualmente di città sovietiche. Un sesto del mondo.
    L’orologio del tempo del mondo – la Weltzeituhr – marca ancora un tempo che non c’è più.

  5. Come succede ormai spesso, sono d’accordo col compagno tashtego (era appunto questa desolante poesia, il bello del brutto e della sua anima smarrita che cercavo di descrivere). Se poi venisse fuori una roba miezza e miezza tipo Potsdamerplatz (come temo sia probabile), sentiremo davvero la mancanza del vecchio Alex.
    Parentesi: la cosa per me più bella della nuova Berlino è il Parlamento, non so che ne pensate voi signori architetti.

  6. Berlino è piena di “cose più belle”. Te lo dico rosicando!
    La cosa interessante è che, in realtà, è una scenografia vuota. Un mio amico architetto a Berlino mi ha spiegato che non c’è stato il trasferimento delle sedi delle grandi società bavaresi, sveve etc. che immaginavano (e promuovevano). Quindi molti di quei splendidi palazzi sono vuoti.
    Affittare o comprare una casa a Berlino costa meno che a Milano, non so se mi spiego!

  7. Non vorrei sembrare dozzinalmente poetico, se dico che di Berlino mi ha preso il vento estivo, costante, vellutato.
    Poi Berlino, se ci fate caso, è piena di ragni grossi.
    E pullula di vespe, sempre d’estate.
    In second’ordine mi piace tutto il tracciato della S-Bahn, soprattutto là dove le sue arcate di mattoni diventano abitabili e si riempiono di botteghe, bar, ristoranti.
    Poi l’isolato-repertorio di Aldo Rossi sulla Schutzenstrasse e quella sua apparente rinuncia ad affermarsi come cosa autonoma e nuova per adeguarsi (inchinarsi?) a ciò che già esiste.
    Poi molte altre cose, tra le quali, per molti motivi insuperabile, la grande Karl Marx Allee, già Stalin Allee.
    Su tutto questo regna incontrastata la Neue National Galerie di Mies Van Der Rohe.
    Berlino è stata punto di applicazione di tutte le forze più terribili sprigionatesi nel Novecento: ora è finita e prende fiato.

  8. […] L’Espresso recensisce il nuovo libro di Marina Gersony Europa Low Cost, bandiera del nuovo trolley traveller: il viaggiatore low cost che sceglie la destinazione sulla base delle offerte e spende in hotel di lusso quello che risparmia con le low cost. I 25 itinerari sono scelti da altrettanti personaggi di ognuna delle città, per Berlino ho trovato un brano del libro su Nazione Indiana, dedicato al bello del brutto e ad Alexanderplatz. […]

  9. “fallimento del socialismo reale nella capacità di produrre spazio significativo”, dice tashtego.

    Mi sembra che il significato di un luogo lo crei chi lo occupa.
    Alexanderplatz ha visto manifestazioni contro la visita di Bush nel 2002 e contro la guerra nel 2003. In queste due occasioni è stata vissuta come spazio pubblico. Ci sono, è vero, le bancarelle e i grandi magazzini, ma anche le tracce del suo carattere non commerciale: la Casa degli insegnanti con un grande fregio a mosaico, l’Orologio, una citazione dal romanzo di Döblin a lettere giganti sulla facciata di un palazzo.

    Potsdamer Platz non è una piazza vera e propria, ma un reticolo di strade schiacciate tra i luoghi del commercio. Non c’è un singolo punto dove aggregarsi, se non il grottesco tendone del Sony Center, sorvegliato da vigilantes privati, dove a nessuno verrebbe in mente di organizzare una manifestazione.
    È un’occasione perduta, come tutta la ricostruzione di Berlino negli ultimi anni.

  10. Non credo che il significato (i significati?) di uno spazio si costruisca nell’uso che se ne fa, voglio dire: non solo.
    Esiste lo spirito dei luoghi ed esiste la forma dei luoghi.
    Quando non c’è forma esiste la conformazione dei luoghi.
    Esistono le qualità “di camera”, cioè legate ai dati spaziali e strutturali, invarianti.
    E quelle “di stanza”, cioè legate all’uso che facciamo di uno spazio, che cambia col tempo.
    Ora la questione di Alexanderplatz è complessa, perché si tratta di uno spazio attualmente informe e tuttavia carico di significati, pregno (pregno, sì) dei momenti importanti che vi sono stati vissuti, orma urbana storica assai sbiadita e tuttavia ancora importante riferimento per tutta la città, o forse solo della sua parte più “autentica” e vivace.
    Alex è ancora oggi Berlino Est, nel senso che il modernismo di seconda mano che la pervade (cioè tutto stilistico, voluto, messo in scena, non autentico e perciò brutto) tuttavia si oppone tuttora efficacemente (molto più efficacemente di un tempo) alla banalità di Berlino Ovest, la cui identità è ancora più incerta.
    In questo senso Alex è un luogo identitario forte, non ostante la sua desolante e poetica e irrisolta banalità, il suo essere di fatto un landmark in negativo, una concavità esageratamente vuota, una decompressione ingiustificata e inespressa, dove perdi i tuoi passi in cerca di un appiglio di qualsiasi genere, al punto che persino il chiosco delle salsicce coi suoi tavoli diventa significativo.
    Dentro a quel vuoto anche i tram si sentono illegittimi e li vedi che si avventurano timidamente, seguendo rotaie che su quella superficie grigia, del tutto vuota e inutile, sembrano tracciate con la matita.
    Quando ci vai e ci torni seguiti chiederti il perché di tanta fama.

  11. Berlino è stata punto di applicazione di tutte le forze più terribili sprigionatesi nel Novecento: ora è finita e prende fiato.

    mi piace molto questo che dici Tash, dovrò andarci a Berlino prima o poi, cosi riuscirò a confrontarla con le altre capitali, coglierne i sedimneti umani, e vedere cosa accomuna la città dell’avanguardia culturale europea con la città dell’avanguardia statunitense.

  12. Sono stata a Berlino per la prima volta (3/4 giorni – alloggio a est) nell’agosto 1989. Ricordo la fila al Checkpoint Charlie, la metropolitana che portava a Berlino ovest, la fermata allo Zoo, le Trabant dell’est, le auto americane dell’ovest.
    Ricordo l’Unter den Linden come una cartolina ingiallita, e poi i market e i locali spartani dell’est, i negozi e i grandi magazzini scintillanti dell’ovest, la monumentalità imperiale dell’est, i suoi musei grandiosi, la fiamma “perenne”, gli enormi manifesti in Alexanderplatz con la faccia di Honecker che inneggiava al 40° della DDR.
    Sui giornali e alle tv occidentali si vedevano lunghe colonne di Trabant intenzionate a raggiungere l’Ungheria e il lago Balaton, presumibilmente non per passarci le vacanze, ma lì – nella DDR – tutto andava per il meglio, si continuava ad essere il paese socialista con il record della produzione industriale, il record degli adulti alfabetizzati, il record delle medaglie d’oro alle Olimpiadi.
    Ricordo un tentativo di conversazione con due anziani operai in pensione – marito e moglie – seduti al mio stesso tavolo in un grande ristorante popolare (tavoli collettivi obbligatori per tutti). Le parole e il senso (lui aveva fatto la guerra in Italia e masticava un po’ di italiano) erano più o meno questi: “Sì, un giorno ci riuniremo con quelli dell’ovest, ma ci vorranno ancora molti anni, dieci o forse venti. Prima dobbiamo diventare come loro, produrre come loro, essere ricchi come loro”.

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