L’ASSALTO ALL’ALTO CASTELLO (1 di 2)
generiche noterelle sparse, scritte di getto, in una fredda notte d’autunno
di Gianni Biondillo
1.
C’è un luogo comune che impera nel triste dibattito letterario italiano, da un po’ di tempo a questa parte e cioè che oggi ci sia un dominio della letteratura gialla sul resto della letteratura nazionale. Una sorta di colonizzazione, come se i giallisti abbiano assaltato l’alto castello, preso il potere e non abbiano fatto prigionieri. Detta in un altro modo, sono gli unici scrittori che vendono, che fanno i soldi, con i loro libri in Italia. Questo dogma inconfutabile porta con sé alcuni corollari: il primo è che questa pianta malevole ha soffocato i germogli di una letteratura che non sia di genere, strozzando di conseguenza la vera letteratura. Il secondo, conseguente al primo, è che se vuoi essere pubblicato, se sei un giovane esordiente devi, assolutissimamente, scrivere un giallo. Altrimenti l’onta del silenzio, della non pubblicazione.
Non è vero, ovviamente. È una vulgata falsa e tendenziosa. Conosco non uno, ma decine e decine di scrittori di libri di genere che non vendono più di tanti altri non di genere (poi su questa distinzione dovremmo tornarci, comunque), anzi, molto spesso vendono di meno, o assolutamente nulla. Se si escludono quella manciata di nomi, se si escludono i Camilleri o i Lucarelli, non è che l’elenco dei bestseller italiani di genere sia così sterminato. Non più lungo di molti romanzi rosa, storici, o intimisti, psicologisti, borghesi o chicchessia. D’altronde quali sono gli autori italiani che hanno venduto attorno al milione di copie negli ultimi anni? Giorgio Faletti, certo. Ma anche Melissa P., Federico Moccia, Margaret Mazzantini… Romanzi completamente differenti fra di loro. Non certo “di genere”, non certo dei gialli. È vero che, nella classifica dei più venduti al gradino appena inferiore (quelli che viaggiano sui 100-150.000), brillano di luce propria i suddetti Camilleri e Lucarelli, ma ci sono anche Paola Mastrocola, Dacia Maraini, Stefano Benni, Melania G. Mazzucco, Alessandro Baricco, e tanti altri ancora…
Quindi, se ci si dovesse attenere ai numeri, è falso dire che solo gli autori di gialli sono quelli che vendono, che hanno sbaragliato il mercato. Come se, poi, non ci sia sempre stato un mercato di romanzi di genere, come se fosse una scoperta degli ultimi anni. Non è vero neppure questo. L’italiano ha sempre letto romanzi di genere. Non li cercava in libreria, li cercava in edicola, ma non ha mai perso l’abitudine alla lettura di libri di questa tipologia. La vera differenza sta, rispetto al passato, nel fatto che è aumentata la schiera nazionale di scrittori di genere, o che molti di essi hanno smesso di scrivere sotto pseudonimo. In pratica è nata una sorta di “coscienza di classe”, un desiderio di togliersi di dosso un demenziale complesso di inferiorità nei confronti della “letteratura alta”, ma, soprattutto, in molti di essi, si è palesata una consapevolezza dei propri mezzi a disposizione per un nuovo utilizzo, più attinente ai propri obiettivi espressivi, del genere. Non che, della smisurata produzione di romanzi di genere, siano tutti da salvare: c’è una pletora infinita di robaccia, fuffa, thrilleracci sgonfi, killer seriali noiosissimi, roba scritta malissimo… ma, vi voglio chiedere, perché per caso nella letteratura “non di genere”, o meglio nel “genere letteratura” tutto quello che viene pubblicato è sempre di altissima qualità? Quanti libri orrendi, noiosi, pretenziosi, supponenti, spesso scritti male, arroganti, ci è toccato leggere?
Romanzi minimi, più che minimalisti, indifferenti alla storia, agli eventi del mondo, tutti chiusi nel loro racconto intimista, nei loro turbamenti postadolescenziali, nei loro tradimenti piccolo borghesi. L’elenco dei temi-tipo è meravigliosamente precisato da Evangelisti: “i Turbamenti dell’Adolescente, l’Iniziazione alla Vita, l’Incomprensione tra Padri e Figli, l’Antagonismo tra Uomo e Donna, la Frattura tra Amore e Sesso, la Malinconia della Vecchiaia, la Gioventù Ribelle e Incerta, la Crisi Generazionale, il Tradimento Coniugale e i suoi Esiti Infelici, l’Anticonformismo Punito, la Città Alienante e la Nostalgia di una Vita Genuina, ecc.”
Eppure non mi permetterei mai di “generalizzare” di fare di tutt’erba un fascio. Non confonderei mai Proust (che adoro) con la Mazzantini (che detesto). Non capisco però perché, nei confronti del romanzo di genere, invece, mettere autori estremamente diversi fra loro nello stesso calderone sia normale. Dovuto anzi. È una logica tassonomica come un’altra. Potremmo organizzare gli autori per casa editrice (“leggo solo libri Sellerio”), o per dimensioni del volume (“Gli hard cover sono capolavori, i tascabili delle schifezze”), o per numero di pagine (“leggo solo libri al di sotto delle 200 pagine, al di sopra sono tutti noiosi”).
Il vero problema è che, per quanto si neghi, il pregiudizio nei confronti dei romanzi di genere non è mai morto nel cuore della critica letteraria. Qualche tempo fa leggevo su Tuttolibri della Stampa che il romanzo di genere non sarà mai letteratura, perché usa degli stereotipi. Ecco un classico esempio di pregiudizio. Come se, ad esempio, la trama dei Promessi Sposi non sia stereotipata (i due contadinelli si amano ma il potente cattivo non vuole… Gesù, ma è roba da sceneggiata napoletana!). Come se la maggior parte della (buona) letteratura di tutti i tempi non abbia utilizzato gli stereotipi, i topoi, a suo vantaggio. Come se molta della pessima “letteratura alta” non racconti, tutt’oggi, personaggi inautentici altrettanto assolutamente stereotipati.
2.
C’è un’idea abbastanza chiusa, classista, di letteratura in Italia. La letteratura è quella borghese, in definitiva, tutto il resto è fuori dall’empireo, è genere.
È l’antica, gramsciana, questione dell’intellettuale italiano, che esprime e autentica solo la sua classe di provenienza, che non ascolta e non è interessato al “popolo” (per quello che oggi voglia dire) e laddove ne parla, ne parla sempre idealizzandolo, stereotipandolo. L’intellettuale borghese non accetta un universo estetico differente dal suo, ha la certezza che il suo sia l’unico coerente. Non considera possibile fare letteratura utilizzando un racconto pieno di draghi e principesse (il “genere fantasy”! Quale orrore!), magari scritto in più parti, con sequel elaborati da autori differenti. Peccato che L’Orlando Furioso sia esattamente un sequel scritto da un autore (Ariosto) differente dal precedente (Boiardo) e pieno di draghi e principesse! L’intellettuale borghese non concepisce come letteratura la parodia. Peccato che il Don Chisciotte sia una parodia dei romanzi cavallereschi in auge al tempo (quindi è la parodia di un genere. Un genere al quadrato!); che persino i Promessi Sposi abbia un famosissimo incipit (il ramo del lago di Como, ricordate?) che è la parodia di una descrizione geografica delle Indie fatta da un gesuita secentesco. L’intellettuale borghese aborra tutto quel sangue e quegli squartamenti dei romanzetti pulp, peccato che nella antica Grecia si legga di gente a cui cavano gli occhi, squartano il petto, tagliano la testa, e altre amenità del genere, per non parlare di Shakespeare, sanguinolento fino all’esasperazione.
E allora? Perché Shakespeare sì e un serial killer qualunque di oggi no? Perché l’intellettuale borghese ha un rapporto con la letteratura del passato depotenziato e consolatorio. Quello che è permesso alla tradizione non è permettibile al contemporaneo, pena la perdita dell’ordine costituito. Cioè il suo. L’intellettuale borghese odia l’uomo-massa, è individualista. Perché, innanzitutto ha paura, una paura panica, di essere egli stesso un uomo massa. Dai libri vuole delle certezze, vuole riconoscersi nella tradizione (edulcorata e ammansita) e riconoscerla. Nella sua tradizione c’è anche lo scandalo, la giovanile ribellione all’autorità. Ma è uno scandalo tutto dentro le mura di casa. È un épater le bourgeois, appunto. È tradizione anche questa.
E, nella tradizione delle patrie lettere, il genere non c’è. Quindi non è letteratura.
E di pregiudizio in pregiudizio, cosa possiamo dire a chi afferma che gli italiani sono sempre più noti all’estero come scrittori di noir e thriller? Ovviamente che non è vero, che questa è una affermazione maliziosa. Perché la vera novità, la vera notizia, non è che vengano tradotti autori di thriller italiani ma che, finalmente, vengano tradotti autori italiani!
La novità è che in Francia, o in Germania, non sono più convinti che Moravia o Calvino siano gli ultimi autori che hanno scritto qualcosa in italiano, ma che c’è, finalmente, qualcun altro che ha qualcosa da dire. All’estero non stanno traducendo solo thrilleristi. Stanno traducendo italiani. Mi viene in mente (ma gli esempi sono molti) il caso di Fùtbol Bailado, lo splendido libro di Alberto Garlini, in traduzione per il mercato francese. Un libro di non facile lettura, forse, con una scrittura poetica di altissima qualità, e proprio per questo viene letto e tradotto. Perché è bello, a prescindere che sia un thriller o meno (e infatti non lo è affatto).
E vorrei sorvolare sull’altro pregiudizio continuamente spiattellato: il fatto, cioè, che il libro di genere sia scritto in modo sciatto, televisivo, strizzando l’occhio al cinema. Come se il cinema non facesse parte del nostro immaginario; come se l’alta letteratura, in quanto tale, non potesse essere ontologicamente tradotta in media differenti dalla parola. Al di la del fatto che io ho letto persino una versione francese a fumetti della Recherche (come dire: tutto si può fare, basta saperlo fare), vorrei ricordare a chi dice queste cose che l’autore italiano più saccheggiato dal cinema nostrano non è chissà quale autore di polizieschi ma è il borghesissimo succitato Alberto Moravia.
All’interno di questi miei ragionamenti disorganici c’è da aggiungere che il 2005 sarà un anno da ricordare a lungo. È l’anno che ha dissolto la falsa opinione che occorra avere scritto un giallo per poter esordire nel mercato nazionale. È l’anno di Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno. Giovane, esordiente, con una scrittura di non facile presa… eppure non solo è stato pubblicato dalla più importante casa editrice italiana ma ha pure venduto un numero enorme di copie. Come la mettiamo? Veramente vogliamo credere a quella bugia palese? Sapete quanti esordienti giallisti ci sono ogni anno? Sapete a quanto ammontino le loro effettive tirature? Insomma, chi glielo fa fare di continuare a scriverli questi gialli, se in effetti basterebbe parlare di alta borghesia romana per vendere uno sproposito? (ma poi: basta parlare di alta borghesia romana per vendere uno sproposito?)
Un altro luogo comune assolutamente depistante, che spesso è diffuso proprio da molti autori di genere, è che il giallo, oggi, sia l’unica forma di scrittura che interpreta il reale.
Questa cosa, detta così, non significa nulla. Tutto ciò che è scritto interpreta, ognuno a suo modo, il reale. Anche un romanzo di fantascienza o uno storico lo fa. C’è chi lo fa bene e chi lo fa male. Ma quando si parla di gialli si mette tutti dentro, tutti nello stesso minestrone: “al posto del realismo socialista oggi c’ è il realismo thrillerista” ha scritto Carla Benedetti sul Corriere della Sera del 28 luglio di quest’anno.
Ma, io mi chiedo, cosa c’è di realista in un tribunale di Milano che salta per aria e imbianca di calce l’intera città in Grande Madre Rossa di Giuseppe Genna? Cosa c’è di realista in una sveglia che si suicida o in una macchina del caffè che se la fa sotto dalla paura nel mio Con la morte nel cuore? Cosa c’è di realista in un televisore che pensa in 54 dei Wu Ming? Mi chiedo: ma i libri di cui si parla, vengono letti?
(continua)
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@ Gianni: “Qualche tempo fa leggevo su Tuttolibri della Stampa che il romanzo di genere non sarà mai letteratura, perché usa degli stereotipi.”
Secondo la stessa teoria, Shakespeare non avrebbe scritto letteratura.
Un’altra nota e un giudizio: “Non capisco però perché, nei confronti del romanzo di genere, invece, mettere autori estremamente diversi fra loro nello stesso calderone sia normale”
Più del “genere”, che è un utile strumento per il linguaggio, mi pare che l’abuso della categoria “genere” serva a istituire, da un lato, un “macrogenere” fittizio, e dall’altro un tribunale pronto a processarlo (in toto). L’impostura del calderone mi sembra svelata, e da tempo. Non fatico neppure a individuare qualche inquisitore, Gianni. La tua allusione alla Letteratura alta, Alta e Maiuscola, Alta Maiuscola ed Autoproclamata, contiente un invito ad una riflessione quasi automatica: in un mondo letterario troppo affollato, secondo una logica da “darwinismo editoriale”, qual è la migliore strategia di autolegittimazione per un’elite trascurata, vituperata e ambiziosa? Ci si dichiarara membri di una casta a parte, sicuramente più degna, sicuramente più inetta. Il passaggio da genere a casta è parallello alla distribuzione di verità sotto forma di Maiuscole: membro di un “genere separato”, assegni al tuo genere dei meriti superiori, per semplice dichiarazione di valore, di solito pubblica e certificata: serve un critico e lo si trova, se non è già reclutato: un uomo per una missione (a volte una donna).
“Questa cosa, detta così, non significa nulla. Tutto ciò che è scritto interpreta, ognuno a suo modo, il reale. Anche un romanzo di fantascienza o uno storico lo fa”
Un punto su cui pare che intendersi sia complicatissimo, e non riesco a capire perché. Scrivere “è” interpretare, e insieme offrire un punto di vista: “fare una proposta sulla realtà”, probabilmente (spesso, in alcuni degli autori che nomini, la proposta è così esplicita da diventar politica nella forma di invito all’azione: rifiuta “una parte di mondo”, anziché indulgere all’infinito).
Ancora!!!
ancora cosa?
Ancora questa storia del giallo. Non se ne può più.
Mi hai tolto i pensieri di mente…sei un mito.
Biondillo sei un cazzo tonto.
Ciao Gianni, il tuo articolo ha un vago sapore dell’introduzione di Gautier a Mademoiselle Maupin: perche’ non pensi a pubblicarlo in Pamphlet?
As usual, hai espresso quello a cui cercavo di dare un ordine nella mia mente.
Cheers,
Luca
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