Nel camminare accanto. Piccola Fabrica per Biagio Cepollaro
Postfazione a Fabrica, Zona Editrice, 2002.
di Giuliano Mesa
1. Un libro di transizione e di crisi, scritto fra il 1993 e il 1997, che Cepollaro pubblica quando la crisi, la frattura, è diventata ormai accoglimento, non più rifiuto, del passato, e quando la transizione si è già spostata, di un lustro ancora, oltre i Versi nuovi. Escludendo la sezione prima, Come un prologo, datata 1989-1991, che ha funzione di cerniera rispetto alle prime due ante del trittico De Requie et Natura (Scribeide, 1985-1989; Luna persciente, 1989-1992), questa Fabrica comincia nell’anno in cui la vicenda del Gruppo 93 si conclude.
Ne dice, nel suo “ringraziamento”, Cepollaro stesso, accennando anche al “tracimare polemico” che proseguirà fino alla chiusura, nel 1997, della rivista “Baldus”. Se ne potrebbe dire, qui, con la memoria del “compagno di strada”, di chi osservava, e discuteva, camminando accanto. Meglio rimanere accanto alle poesie, alle domande che ponevano e che ancora pongono.
2. Il titolo della trilogia, nella sua non celata ambizione, ne espone sùbito un carattere fondamentale: la volontà, ostinatamente perseguita, di “non venire a patti”. Nel 1985, a un anno dall’esordio (Le parole di Eliodora), Cepollaro recide ogni legame con le convenzioni naturalistiche: lo spontaneismo che vanta l’immediatezza comunicativa del parlato, i culti della sorgività o della mitopoiesi che vorrebbero naturali i loro idioletti iperletterari, realismi e narratività intenti a “chiamare le cose col loro nome”, pulsioni desideranti e decentramenti dell’io dove il linguaggio poetico è sintomo o protesi d’inconscio – convenzioni generalmente veicolate da un verso libero destoricizzato, naturalizzato anch’esso. All’artificialità e storicità non riconosciuta, o inconsapevole, si opponeva, o giustapponeva, l’utilizzo di forme chiuse premoderne; ad arginare, anche, la dilagante indifferenza della forma rispetto al contenuto, che era, spesso, negazione irenica della criticità che ogni scelta di linguaggio comporta. Così, e non è un lieve paradosso, poeti ostili all’avanguardia privilegiavano uno strumento, il verso libero, nato avanguardista, e poeti di postavanguardia, o sperimentali, rilucidavano endecasillabi e sonetti. Questo – grosso modo e con tutte le importanti e fertili eccezioni che si possono lasciare all’intuito – il contesto nella poesia italiana (e di quello storico e culturale, della “condizione postmoderna”, dicono, esplicitamente, i testi di Fabrica).
3. De Natura: la prima domanda interroga la naturalità del linguaggio e la posizione dello scriba. All’artificiale che si proclama autentico, Scribeide risponde con un artificio pienamente consapevole ed esibito. Se la lingua è agonizzante, e stordita di anestetici, Cepollaro attinge direttamente a lingue morte, soprattutto il volgare di Jacopone, per spargere sale sulle ferite – “per vedermi como attrezzo sta lingua como la confronto con la cosa / con la cosa laffuori como l’attrezzo sta lingua per soli per pochi” (Toulouse-Lautrec). Il “confronto con la cosa” riguarda la relazione, la funzione sociale che da questa relazione può ancora scaturire. Pur nel disincanto e nell’autoironia, non compiacendosene, Cepollaro si chiede che cosa può e deve fare un poeta nella società (dunque in un solco di pensiero diverso, o ulteriore, rispetto a quello che, da Lautréamont all’Intemazionale Situazionista a Giorgio Cesarano, considerava l’assunzione positiva del ruolo già in se stessa complice dei poteri). La domanda era quella di sempre, ineludibile, e che Guido Guglielmi poneva senza infingimenti nella sua prefazione a Luna persciente: “Perché si scrivono poesie? Si può pensare che ci siano cose da dire che non possono essere dette se non in forma poetica […] Ma può accadere – ed è accaduto storicamente – che le cose da dire – i cosiddetti contenuti – diventino estranei e remoti, che non resistano all’azione storica.” Negli anni di Scribeide, l’azione storica sembrava coincidere, nell’occidente della terza rivoluzione industriale, con un acceleratissimo e inesorabile convergere dei fatti nella loro rappresentazione agente. Sembrava. Questa apparenza, certo potentissima, non era irresistibile. La storia non stava finendo, non finì nel 1989. Altrove da un occidente inebetito dai traumi, e dagli entusiastici fervori, derivanti da un ipotetico trapasso all’esistenza virtuale, l’azione storica agiva, devastante. Non rappresentata sugli schermi televisivi, non per questo inesistente. Accogliendo come irreversibile una condizione di completa sudditanza rispetto al rappresentato, e potendone, per privilegio economico, godere come di una vacanza definitiva dalle responsabilità verso la storia (la vita), propria e altrui, si poteva accogliere la leggerezza come stile generale della letteratura (di “esaltazione della leggerezza” parlava Romano Luperini introducendo Scribeide). Lo “scriba de pesanza” subisce la condizione ma non l’accoglie. All’agonia delle funzioni conoscitive e critiche della poesia, e dei linguaggi in generale, risponde con un gesto, che in Fabrica diventerà pienamente consapevole, di autosoppressione. Attrezzare una lingua per pochi è negazione immanente di funzione sociale. La contraddizione è palese e non rimossa. La lingua specialistica, esoterica, in Scribeide, non è nemmeno attivata in parodia. Non cerca scampo. Irride se stessa, con sprezzature e sarcasmi (“dritto inta fiumana e: aripànta e: arirèi / ca te spinge e te spenge st’entermittenza”, da L’ovvietà dell’insonnia). Non si immette in nessuna forma preesistente né ancora si consegna, come sarà in Luna persciente, all’esclusiva scansione rigida, volutamente meccanica, del distico, che tuttavia in Scribeide compare spesso, e già come “attrezzo” per sostenere, con una forma chiusa elementare, l’enunciazione vocale: “mò ca a scire per vie t’ammicca lo muro storto / mentre t’espia de spalle te spia le stringhe trivellato // e ncocci l’omini disiato de saver d’altrui penseri / dentro la coccia dentro er sacco de ciascuno resucchiato” {Lago d’assedio). In Fabrica, nell’epistola della corda del basso, è dichiarato l’intento fàtico di questa oralità: “per scrivere sta attento a che il ritmo se ne stia / sotto e buono che la rabbia stia tutta nella corda / del basso mentre la voce articola il suono e sia // il suono a chiamare a raccolta il senso: il logos / tuo e di altri si scoprirà alla fine nel martello / del dire: questa è la poesia che puoi fare e basta”.
4. Le epistole di Fabrica si leggono, in effetti, come notazioni di poetica riguardanti l’intera trilogia: la crisi radicale dell’avanguardismo, poiché le “matrici nuove” “fioriscono oggi l’estetica del capitale” (epistola di rimbaud e marinetti), in un contesto che impedisce di credere nella bontà finalistica dello sviluppo, anche del capitale stesso, e dove il presente concreto vorrebbe emanciparsi dal divenire astratto: “non c’è un’idea precisa né un’utopia edificante: troppi / morti a ricominciare daccapo, è nel mezzo delle cose che si spera. / le cose sin dall’inizio e da sempre sono già tutte cominciate” (epistola dell’utopia). Ma “nel mezzo delle cose” c’è adesso il dominio incontrastato del ciclo produzione-consumo, e la sua rappresentazione attualizzante, che tende a fagocitare il tempo dell’esistere, il presente, in consumo della sua estetizzazione mediatica. Nel “grande imbroglio della forma / che impera” (Ballata postmediale, 5), “ora che l’attuale ha distrutto il presente”, “il poeta si sgancia” (epistola dell’attuale e del presente). Per via di negazione, nel “confronto con la cosa”, se l’estetizzazione si afferma affermando il primato della forma, perfetta nel sottrarsi ad ogni attrito con il suo contenuto di verità, lo scriba deve sganciarsi dai formalismi complici, dai “raffinati effettacci” (epistola del poetico consolidato) e dal “ludico / gioco di parole” (epistola dell’immanenza), e disporsi, costantemente, a deformare: “cos’è che si macina coi versi non so” “il tuo verso ora è già perfetto // e chiude // ma appunto è questo che non va: aprilo e sopporta il caso dentro / al tuo casino e le cose che vengono e quelle che da prima ci sono / e ti fanno, allora la forma non è fatto di testa e il verso conta” (epistola del giovane poeta).
5. Questa disposizione attraversa una fase prevalentemente fàtica, orale, in Luna persciente. Lo scriba non nutre più illusioni sulla possibile funzione conoscitiva e comunicativa – “no la poesia non dice il dolore del mondo quello se lo cucca / intero e muto chi ce l’ha” (epistola del dolore del mondo). Il “confronto con la cosa” sembra spostarsi verso il confronto con chi può condividere la percezione della lingua agonizzante, cercando una consapevolezza che accomuni. Dopo Jacopone, con palese sarcasmo, evocato a nume tutelare è Brunetto Latini. Viene tentata una didattica del negativo, la quasi sistematica esposizione di un “tesoretto” rabbiosamente inane: “il meditare e l’andare e i molti vuoti / ma i’ nun saccio che dire i’ nun saccio che fare” (Delle parole al paragone). L’invito è a porsi insieme, socialmente, la seconda domanda fondamentale della trilogia, ancora separando il soggetto enunciante dalla funzione oggettiva che la poesia dovrebbe avere: “o detto altrimenti di noi sentì una piccola parte / una morte piuttosto un dilagante specchio di morte” (Dell ‘ansia e dello Scriba). La didassi, ancor più se oralizzata, ha bisogno di un veicolo formale dove incanalarsi: una forma neutra, meccanica – i distici -, e non raffinata, affinché nessuna autotelìa o esibizione virtuosa possa impigliarvisi, nessun residuo estetizzante. Ma c’è ancora, in questo, la presunzione di un insegnamento positivo, di un sapere da trasmettere (un sapere che prescinde ed è scindibile dalla forma che lo veicola). Così, nel lungo componimento eponimo che chiude il secondo libro della trilogia, il docente si riconosce uguale al discente e incita se stesso ad un gesto di ulteriore radicalità: “li omini non supportano troppa realtà / e manco io ca mento per star dentro / luna persciente / luna ditante // luna persciente / luna avvolgente // luna ca t’interiora / sanza dire una parola // ma tu dagli sotto sfronda / ma tu sfonda!”.
6. Sfrondare, sfondare. È l’impeto che muove Fabrica: “non stranezze di lingua ora né acrobatiche combinazioni ma / un dire di cose facendo a meno del cuore e perciò volutamente / mostruose” (per mondi medialmente capovolti). Nel “confronto con la cosa”, la cosa ha vinto. L’attrezzo linguistico approntato in Scribeide e in Luna persciente viene dunque sfrondato, e scompaiono quasi completamente le connotazioni metacritiche innestate ibridando lingua morente e lingue morte. Si esaurisce, insieme, un residuo di fiducia nella espressività che poteva derivarne. Fuori dai giochi: “nella franchezza dello sterminio” “sotto l’unico comando di una seconda natura / ch’è mannaia”, “il poetico duplica il suo naufragio / per nulla poetico” (Ballata dei mondi). Rimane la denuncia, l’invettiva. Ma la denuncia rischia di regredire al compiacimento dell’invettiva come genere, che si alimenta di attualità pur non avendo nessuna incidenza sull’attuale, “in absentia dei lectori illiberi in illiberi mercati”. E si rasenta l’implosione, se la critica verte direttamente sui contenuti abolendo ogni critica delle forme, nell’artificio implicita e comunque implicata. In Fabrica è portato potenzialmente a compimento un percorso verso il silenzio, privilegiando l’agire con un estremo anelito d’utopia: “realistico è così quel moto a dire che s’apparta / dall’unico racconto e dal telecomando che il mondo // sotto modi di dire i suoi moti di fatto ha seppellito”, “facciamoli i moti / finché […] mondi nuovi verranno a dire i nuovi / fatti” (Per moti di dire). Ma a sospingere non è la fiducia (la fede) in un imminente mutamento radicale, come accadeva vent’anni prima, quando si credeva che lo sviluppo dei mezzi di produzione fosse giunto a consentire di socializzare l’abbondanza – “l’abbondanza oggi affama” (Per moti di dire). Se nel “confronto con la cosa”, la cosa è l’economia mondiale con le sue conseguenze, basterà enunciare la mera datità (per mondi percentuali), e sarà vano, e ancor più vano metterla in versi, “nel mezzo di un telematico orrore di un’apparente variatio / del mondo che fa il vero variopinta glossa del comando”. La funzione sociale della poesia, se posta in relazione di antagonismo diretto con la comunicazione mediatica, si mostra sùbito velleitaria, o forse desiderosa di essere fagocitata, accolta come “variopinta glossa”, a margine del margine, pur di “star dentro”. Meglio il silenzio, allora, “ma consegnando comunque lo scontrino” (“sine equivoco noi diremo / sì, l’abbiam fatta l’intima nostra e pubblica consumazione”).
7. Il silenzio è l’esito possibile di ciò che Guglielmi definiva “gesto ostile”, “provocazione”, “idioletto non dialettizzabile”. Ma in De Requie et Natura Guglielmi scorgeva anche “modi di fare precipitare le possibilità del linguaggio dall’orizzonte delle sue impossibilità. Come dei prolegomeni, in sostanza, per una poesia futura”. C’è un percorso parallelo e intrecciato, in tutta la trilogia; un controcanto alla voce autoriale che lamenta la “seconda perdita dell’aura”, oltre la funzione sociale programmatica, l’autoinvestitura in un ruolo docente, e oltre la sfida all’attuale mediatico dentro l’attuale stesso. È forse un residuo di ambizione al potere (o al contropotere) che genera una ammutolente sindrome da impotenza. Quando lo scriba distoglie lo sguardo dall’entità astratta del lettore o dell’uditore e rivolge le parole alla sua propria, concreta esistenza e a quella di chi gli è accanto, “contando sulla cena condivisa” (Ballata del contarci, Giga), in una relazione di eguaglianza che non può accogliere la distinzione, implicante auctoritas e potere, tra il dire e il dirsi, le poesie si liberano dalla soffocante attualità e ritrovano il presente, che è un tempo lunghissimo, e memore. In questo tempo le parole ridiventano necessarie, per tentare di conoscere e nominare ciò che soltanto in questo tempo può essere detto perché soltanto questo, il presente, è il tempo dell’esistere. Senza timore di ripetere ciò che “si dice da sempre”: nella ripetizione, non identica, si riaddensa la memoria e si reinterroga il passato; la non identità è quella, unica e irripetibile, di ogni presente. Alla presunzione di un completo e definitivo esaurimento della conoscenza risponde già, nel Contrasto di Scribeide, la voce di Donna: “ma tu non sabe tota la ferita / della vita presa alla sustanza”. E ancora, in Sintagma sperso: “(oh como dicevi isiosa lunga notte / como t’appaurava il voto do matino / como sapevi vicina la zampa do mundo)”. O in Luna persciente, senza idioletto, (Clelia sulla soglia di casa): “però se ci penso alla pianta // dei piedi non poterli poggiare / né tirare veramente un respiro // e questo dopo tutto il tempo / che stempera in panna / / cremoso che nulla veramente / scompiglia che non dà né gelo // né altro che non condensa / né svapora che trattiene”. Pur nella radicalità del suo itinerario, e a testimoniarne la non programmatica adesione a precetti di poetica, Cepollaro ha disseminato nella trilogia il “presente a venire”. In Scribeide, nella sezione Prossimità, si leggono “prolegomeni a una poesia futura”: ” – col tempo uno impara a vederci / chiaro: negli occhi / la chiarezza // la terra che trema e trascina / con sé un esercito di formiche -“, mentre “si sta su quel filo / nel possibile, vicino.” Un filo, di esistenza, mai davvero smarrito. Sono già versi nuovi.
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1. Raccolgo qui tutti i riferimenti bibliografici agli scritti di Cepollaro. Per le poesie Le parole di Eliodora, Forum/Quinta Generazione, Forlì, 1984; Scribeide, Manni, Lecce, 1993; Luna persciente, Mancosu, Roma, 1993; Versi nuovi, Oèdipus, Salerno, 2002. Per i concetti di estetizzazione, seconda perdita dell’aura, presente e attuale: Istanza realistica, sperimentazione ed estetizzazione della politica, in “Baldus”, V, 1, 1995, e lì presente a venire, in “Baldus”, VI, 4.1996.
(immagine di Henry Moore)
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La bravura di Giuliano Mesa come critico/saggista è direttamente proporzionale alla sua grandezza di poeta. Questo testo ne è un’ulteriore conferma. Grazie ad Andrea per averlo postato, visto che mi costringe, piacevolmente, a rileggere anche i libri di Cepollaro.
gibril, mi associo a te… grazie andrea
Sono d’accordo.
Il post serve a leggere e a rileggere.
A partire da qui e da qui.
Mannaggia, disinvolto tipo Lipperini non funziona :-(
Partendo da http://cepollaro.splinder.com/ e da http://www.cepollaro.it/
Grazie, Emma, conosco il sito (bello, curatissimo), ma possedendo l’intera trilogia preferisco leggere le opere in edizione cartacea (dei tre, comunque, ho sempre preferito Luna Persciente, che ritengo un “piccolo capolavoro”: ma si può usare, poi, un’espressione del genere?).
Di Biagio mi piace ricordare, inoltre, al di là del valore della sua poesia, l’iniziativa meritoria di ristampare in formato pdf (scaricabili gratuitamente!) alcuni titoli significativi della più o meno recente produzione poetica italiana, cosa che dà modo a tanti di leggere, o di rileggere, opere di cui a volte hanno sentito solo parlare. A proposito di autori (giustamente) ripescati dall’oblio, che ne dite di Di Ruscio? non sarebbe il caso che qualcuno postasse, anche una tantum, un suo testo?
Saluti
Gibril, l’iniziativa degli e-book gratuiti è davvero meritoria.
Comunque tra gli e-book c’è anche qualcosa di Di Ruscio.
http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/DiRuIscr.pdf
caro gibril, Di Ruscio è un grande poeta – e hai ragione a lamentarne qui la latitanza; mi impegno a pubblicare dei suoi testi… (intanto c’è il pdf cepollaresco, grazie all’attenzione sempre vigile della “cugina ad honorem” Emma)
Caro Andrea, “Cugina ad honorem” non è male :-)
Stavolta però te la vedi da solo con l’affannato Sinicco (ma noto che hai ottimi guardaspalle, povero il Sinicco :-)
[Non c’entra, ma segnalo anche qui un’intervista a Magrelli (e a Sanguineti).
Magrelli parla anche di “Che cos’è la poesia?”, presentato in
https://www.nazioneindiana.com/2005/11/25/abbici-poetico-in-prosa/
e non più visibile in prima pagina:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=155350%5D
Riprovo:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=155350
di Biagio ho letto tutto o quasi, e quando ne rileggo cose è come se lo leggessi per la prima volta. E allora mi chiedo. Sono io che non sono più lo stesso. o sono le parole che vivono da sole ?
da Scribeide
http://www.cepollaro.it/antscri.htm#La%20mela (mp3)
La mela
dici ch’è sto velo di tristezza che t’insiste como n’insetto
sugli occhi che te vela anco se te parlo docia docia se te tocco
piano la faccia e te dico mangia sta mela vedi come è rotonda e
rossa come se chiazza de giallo quasi c’abbia anco lei gli occhi
ch’è sta nebbia dici e te dico ch’uno non pò passare il ferro
e il cromo e la pesanza e la dulenza uno non pò passare sta su
stanza de vita ‘ncartocciata fatta d’empassità de strapazzo e pò
girare tutto lieto como uscito nuovo de fabrica e de madre uno
se porta sulla faccia el grido anco dietro la cravatta anco
dentra na borsa che te fa da casa che te fa d’amica pa strada
e tu ca guardi sta mela co sti punti de stelle e te fai tutta
pupilla e me guardi m’arravogli nel tuo fascio me scompigli
sta corazza c’ho messo anni a farla tosta ca me squagli como
Lazzaro ca me giri a pieno tota la vacuità de sto destino
‘nfame de dover resistere de dover fa tosta la mascella
ca posson ridere sulo gli occhi se no è finita se no se sgama
tutta la partita e uno gira per strada como fece la vecchia
ma ecco qua che viene ci passa non ci passa aspetta si colma
la fetta giusta la pazza ca entra nella piazza co lo stendardo
co i cavalli colle stoppie co le frascaglie e gira gira
in tondo gira gira in tondo mentre gli altri fanno ressa
dietro la chiesa fanno corteo fanno cose e cose che poi
si dimenticano fanno e sfanno
non se pò fare come fece la pazza co lo stendardo co le tette
per la piazza le tette nella piazza la gente tutta fuori la vecia
fuori di testa la pazza che venne co lo stendardo proprio in mezzo
al corteo co tutti i vecchi la vecchia nella piazza colle tette la
toccavano mentre le sirene sulla piazza e il lettino e fuori di testa
mentre la signora chiudeteli di nuovo chiudete la pazza la piazza
ma ch’è sto clinamine diffuso st’empossibilità de far fede al minuto
dopo che c’embroglia già tutta na sarabanda de chiamata e noi giù
a spostare la spina in altra presa giù a fare
noi co sta tortura d’esser-io ch’è non tener-la pianta e andar-per-calli
per strade afflitte e circoscritte e non te portano a niente a semulacro
de città de insegne luscenti ca s’accendono e se spegnono e te dicon l’ora
anco se non t’emporta de l’ora ma de guardare intorno de spiare il tetto
delle case le verande co la sagoma appiccicata de qualcuno sanza qualità
ca pensa al tempo e ai fatti suoi e non a noi ca non ci siamo già
e tu ca guardi sta mela co sti punti de stelle e te fai tutta pupilla
e me guardi m’arravogli nel tuo fascio me scompigli sta corazza dici
ch’è sto velo de tristezza che t’insiste como n’insetto sugli occhi
che te vela anco se te parlo docia docia anco se te tocco piano la faccia
un abbraccio a tutti
effeffe
Caro F.F., credo che questo succeda solo quando s’incontra la scrittura (poetica in questo caso) di autori che hanno veramente lasciato il segno: e più il segno è profondo, più la ri-lettura diventa un ulteriore disvelamento, la scoperta di nuovi margini, di nuove prospettive, di architetture verbali insospettate: proprio perché è nella natura del solco/segno questa consistenza metamorfica, questo pretendere e cercare, come una necessità, un’urgenza quasi fisica, lo sguardo del lettore attento, l’ascolto che permette alle parole stesse di conoscere qualcosa in più di sè, di quell’alfabeto che a volte sfugge, nella totalità delle possibilità che contiene, al poeta stesso. Biagio Cepollaro è un grande poeta, anche perché molta della “buona” poesia di ricerca (non è un’etichetta: la poesia è sempre di ricerca, sperimentale, come direbbe Dante) gli deve qualcosa: non fosse altro che l’attraversamento consapevole e critico dei solchi che egli ha saputo tracciare.