Scrab
di Gianni Biondillo
C’è un tale, a Roma, che sul balcone di casa compone icone. A metà fra l’arte bizantina e il kitsch postmoderno.
Sembrano ex voto, cargo cult, icone sacre di un culto alieno. Restituisce dignità al residuo, allo scarto. Ready made estremamente complessi, organizzati per simmetrie ieratiche.
Un impazzimento pop, mai urlato: c’è il senso della composizione, dell’equilibrio, della misura. Il fascino del “fare”, non solo del “dire”. L’opera d’arte irriproducibile fatta con oggetti quotidiani modesti, prodotti industrialmente (chiavi, bottoni, minutaglie, soldatini, pupazzi, cornici, cianfrusaglie, biglie, passamanerie, etc. etc.).
C’è Giger, l’immaginifico cinematografico, la tradizione culta, il primitivismo novecentesco, la pop art e tanto altro ancora.
Il tale in questione si chiama Roberto Molinelli, e questo è il suo sito. Visitatelo.
le opere riprodotte – cliccateci sopra – sono una miseranda selezione di quelle che potete trovare, con tutte le indicazioni del caso (titolo, tecniche, formato, data di ideazione), sul sito di Molinelli.
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Gianni, che bella cosa hai postato. E’ un viaggio affascinante quello nel sito di Molinelli, il materiale usato, i simboli che vengono evocati. Molto interessante.
Concordo.
Lo so non sono un critico d’arte, piuttosto sono un criticone d’arte, anzi un criticone e basta.
Allora, secondo me è illuminante e acuta la frase di Gianni:
*Il fascino del “fare”, non solo del “dire”*
Cioè sento in queste immagini la deriva della decorazione, del tonale inteso come eleganza, gusto, mentre mi piacerebbe sentire più il “dire”.
In Joseph Cornell – lo so che è stato uno dei grandi, ma se non prendiamo i grandi come unità di misura… – il fare non si sente, si sente il dire, anzi, il tentativo di dire qualcosa, un linguaggio al limite del balbettio, a sua volta molto diverso secondo me dall’ombrello e macchina per cucire sopra il tavolo operatorio, che era più che altro un’immagine col fascino del rebus.
Ma il rebus non è il tentativo di dire, il dire è secondario, è il percorso che porta a risolverlo che affascina. Per questo oggi il surrealismo ci parla poco: i rebus li abbiamo già tutti risolti.
Cornell
Object (Abeilles), 1940
http://www.ibiblio.org/wm/paint/auth/cornell/cornell.abeilles.jpg
Defense d’Afficher Object, 1939
http://www.ibiblio.org/wm/paint/auth/cornell/cornell.defense-afficher.jpg
Verso Cassiopeia 1, 1960
http://www.ibiblio.org/wm/paint/auth/cornell/cornell.cassiopeia-1r.jpg
Ah, mi è anche venuto in mente che quelli che si fabbricano un linguaggio attraverso piccole cose rotte e buttate, quelli che riescono ad attribuire strani gentili profondi significati a queste cose destinate a esssere perse nella spazzatura, le ritrovano, quindi sono opere d’invenzione. E questa attività mi viene da chiamarla “linguaggio da uccellini”, per come sfilano discretamente le cose dal dimeticatoio, dopo averle viste dall’alto (per me è un complimento).
dai andrea, ‘il fascino del fare’ io lo declino come arte della messa in pratica, quella pragmatica che dai compagni muratori medievali risale su fino alla cima delle piramidi e infine pure a Dio, che nel Genesi praticò i propri desideri.
in fondo anche Chomsky ha avuto per maestro putativo un ‘pedagogo’ come Dewey.
Ah, no no, un’immagine tenta di dire, non fa. Sei tu che fai. Il fascino non so cos’è, non mi interessa. Il fascino è un percorso sbagliato. Fascino: pussa via! :-)
andrea zuccone, il ‘fascino’ è una citazione alla seconda: io citavo che tu citavi Biondillo. io ho a che fare colle vostre parole quando vi commento, eccheccavolo.
il gusto decorativo ha nobili ascendenze (tu stesso ami hokusai che anche nelle opere più grandi, per misura, riesce a mantenere intatta la precisione del gesto, da miniaturista mi verrebbe da dire).
se un’opera dice – vuol dire che il fatto sa esprimersi, che il prodotto produce enunciato.
davvero, tra il dire e il fare c’è di mezzo ‘e il’.
No no, io non ne voglio sapere delle citazioni al cubo, non le compro, roba per teste quadre, io ho la testa ovale. E la decorazione va anche bene perché è fatta di elementi simmetrici, di rime, di ritornelli, di musica, ma devono “dire”, il resto c’è la finestra della mia attenzione chiusa, la porta della mia meraviglia sprangata. Hokusai mi ha mandato una lettera, dice che miniaturista sarà Kristian, che lui per non fare il miniaturista si è preso una pedata dal suo maestro Katsugawa Shunsho che suo padre artigiano aveva fatto dei sacrifici per mandarcelo a bottega, che lui, Hokusai non Shunsho, un segno ci ricapitola l’universo, che lui, Hokusai, gli dessero da scrivere l’elenco del telefono lo scriverebbe modulando una breve pennellata. Anche perché al suo tempo il telefono non c’è.
andrea andrea, dire che di manga ne avrai mandati giù pure tu a tonnellate…
ti giuro che quando me lo gustai a Milano, rimasi estasiato persino dalla disposizione dei frammenti di conchiglia che era calibrata che manco il maestro massone degli scalpellini di Chartres avrebbe saputo far meglio.
cavolini di brussells:
Vecchia tigre nella neve
Scimmia addestrata che mangia pesche rubate
la Fenice
Diavolo in abito ecclesiastico
i Racconti illustrati della balia
il Libro illustrato delle staffe di Musashi
le Vedute insolite di noti paesaggi
lo Tsunami
il Fuji
gli Oni…
ah, se si potessero postare le immagini nei commenti… ho un catalogo pronto da scandire (Il vecchio pazzo per la pittura – Electa, acquistata alla mostra a Palazzo Reale).
Andrea: il fascino del “fare” non solo del “dire”. C’è quel “non solo”, ci hai fatto caso?
Cioè: non solo “dice”, ma anche “fa”. Tutte le arti applicate dicevano facendo (Kristian l’ha capito benissimo). Anzi: dicono facendo, perché, per me, oggi il fumetto è un’arte applicata. (la mia è una voluta esasperazione. Se è arte è arte, non ci devi attaccare niente dietro alla parola. Ma sai, la questione del “genere” è antica e non interessa solo la letteratura).
Ma quello che affascina è proprio come, in tutto questo esasperato decorativismo d’antan, a sprazzi quasi ingenuo, si senta come una purezza sacra incomprensibile che travalica la materia stessa. Qualcosa quasi d’antico.
Hokusai, comunque, è Dio e io sono il suo profeta. ;-)
Eccerto che ci ho fatto caso Gianni, ma mi pareva che tu anche se hai distruibuito il dire e il fare diversamente da me, hai colto proprio i due termini del discorso. Dire e fare. Solo che io se sento dire “fa” di un percetto mi indigno, e passo alle aggressioni fisiche e verbali! :-)
Comunque per tornare alle immagini che hai mostrato, mi era venuta quella critica lì, per spiegarmi quel qualcosa che mi fa dire “sì, ma…”, rispondevo a una mia esigenza.
@ kristian, no, pochissimi manga. Conosco poco il fumetto, va un po’ meglio con l’arte. Sappi che per un duello visuale siamo armati con la stessa katana, cioè insomma lo stesso catalogo.
Queste sono più vigorose, le preferisco
http://www.scrab.it/icone/mouth.htm
http://www.scrab.it/icone/pride.htm
che poi sì, sono cose che hanno una tradizione scenografica, tipo i lavori di Mutoid Waste company e Gaiger.
Ciao Gianni.
Se ben ricordo chi ama inserirsi nella filosofia dello spazio, rimane tutta la vita permeato dal gusto del bello, sia su dimensione macro che micro.
Curioso trovare in dettagli cosi maneggiabili, tutta la bellezza di una tradizione religiosa per noi esotica, proprio a Roma.
Vuoi regalarcene una?
Buon Anno
Magda
Andrea, io che sono autodidatta scrausa per l’arte e leggo sempre con piacere testi e commenti sull’arte visiva, ho trovato molto belle proprio le due immagini che tu definisci più vigorose. Perché il fascino deve essere bandito? cioé la domanda è: un’opera non deve anche attrarre? So, che sono domande ingenue, ma a volte mi chiedo qual è il potere di un’opera che ti fa rimanere inchiodata per ore a osservare. Perché se guardo i quadri di Bacon(per esempio), non riesco a staccare gli occhi?
Mi sfugge del tutto la questione del “dire” e del “fare” nelle opere d’arte. Potete spiegarvi un po’?
Ecco wowoka, anche a me.
Le immagini* non fanno niente, si guardano e basta. Si fa luce e si guarda. La musica si fa silenzio e si ascolta. Possibilmente prima di queste operazioni è meglio fare il vuoto in testa. Queste sono le condizioni di ascolto. Tutta qui la storia del fare :-)
*Immagini artistiche eh, un cartello stradale fa esattamente come il fischietto di un vigile.
Il fascino è una cosa che non sta nell’immagine, glielo mettiamo noi e la cambiamo senza chiedere il permesso all’artista :-)
D’accodo, ciò che mi attrae in un’opera non necessariamente attrae altri. Però tu dici che il fascino è un percorso sbagliato, cosa vuoi dire? Non riesco a capire.
Forse ho capito: sembra trattarsi della vecchia distinzione tra “qualità”, ritenute “immanenti” all’opera e quindi in un certo modo “oggettive” (o almeno inter-soggettive) ed “attributi”, ritenuti una proiezione più o meno idiosincrasica e motivata “psicologicamente” di connotazioni esterne. In questo caso nel primo, e più pregiato, campo ricadrebbero le sottigliezze semiotiche di un Cornell (che di certo “dicono” di tutta una certa teoria storicamente situabile ed a suo modo “vincente”) mentre nel secondo, e meno pregiato, campo ricadrebbe invece il “fascino”, legato al più tradizionale “modo simbolico” (quello junghiano, abbastanza screditato dagli sviluppi culturali del dopoguerra) delle composizioni di Scrap. Insomma una sorta di sottile gerarchizzazione dei valori che mira a dare “assolutezza”, valore “oggettivo”, a certe competenze, a certi percorsi, elevandosi al di sopra dell’indifferenziazione qualunquistica del “mi piace / non mi piace”, tipica del profano. Il sapere cioè, che tende inevitabilmente a costituirsi in potere – per quanto gentile ed eufemizzato, cioé simbolico. E’ chiaro infatti che tra le infinite proiezioni a cui qualsiasi opera si presta (e, come insegnato i “ready-made”, davvero tutto può fare allo scopo) è un potere – oggetto di perenne contesa e negoziazione, che deciderà quali di esse sono “pertinenti”, cioé socialmente significative.
Rispetto a tutto un modo di pensare l’arte contemporanea fatta di idee, installazioni, performance, labilità (modo, ben inteso, legittimissimo, non lo contesto) c’è, qui, proprio il gusto “antico” dell’artigianato. Della mano fattiva. Della mano che modella la creta, che nobilità la materia bruta. Anzi, no: della mano che libera la vocazione della materia.
Mi affascina questo “fare”, Mr. Blond, quindi grazie per la segnalazione. Ho messo il sito di Molinelli nella lista dei miei favoriti, per tenerlo d’occhio. Alla prossima Mostra che organizzerà non mancherò.
Mia (un abbraccio).
E’ un po’ come Evangelisti che dice di essere un artigiano. Leggendo un suo libro vediamo facilmente che mette in scena un’immaginazione potente. Questo è il valore del suo lavoro. Che eserciti la sua forza creatrice con pazienza, componendo dentro una bottega con qualche “attrezzo” e tanta capacità “manuale” è interessante quanto vedere le foto dell’allestimento del palco per la Rolling Thunder Revue di Bob Dylan.
Un’immagine non dice nemmeno, mette a disposizione, e il nostro più grande problema è vederla. Non è così facile vedere. Basta pensare alla natura: quanti di noi sanno vedere un tasso barbasso?
Per me è inconcepibile un dato di fatto che nessuno può mettere in dubbio: un adulto disegna come un bambino, se non peggio. Spesso, quando pensa di saper disegnare riproduce la realtà come una fotografia, quindi non disegna, non produce immagini. Ecco, allora significa che le persone nascono portate per le immagini ma questa attitudine rimane ferma mentre tutto il resto si sviluppa.
Leggo ora e vedo sopratutto.
Le opere di Molinelli sono interessanti per me ed hanno un potere evocativo, se considerate esaminate con cura e curiosate in ogni singolo pezzettino che sicuramente per lui è un piccolo microcosmo.
Io medesimo alla fine degli anni ’80 lasciai un poco di dipingere per costruire una quantità di oggetti incorniciati (io sento il fascino della cornice perché sono anche restauratore di cornici antiche).
Insomma montavo degli oggettini, scatolette vecchie, orologi di plastica rotti, chiavi, coltellini, cucchiai, quadernetti, tutti imbalsamati in colla e colore acrilico e ficcati in una cornice spesso tonda o ellittica.
Gli oggetti che usavo non erano cose casuali ma “oggetti carichi” ad esempio:
un cucchiaio per polenta di mia madre defunta,
le chiavi di mio padre( morto pure lui, putroppo)
l’orologino scassato di mia figlia
le chiavi perdute ma ritrovate dell’auto di mia moglie
il quadernino di Gigi
la poesia di Massimo
alcune mie scatole di sigari avanzate
mezzi mozziconi di sigaro
portacenere sbeccato o portabombons.
In poche parole cercavo di iconizzare, di santificare quasi, rendere meno effimeri oggetti carichi di mie memorie anche e sopratutto sentimentali.
Purtroppo non posso mettere qui foto degli stessi.
Francamente debbo dire che le icone di Molinelli ricordano altre più assurde ed ossessive costruite da malati mentali o border line che anche Dubuffet collezionò con estrema cura.
Voglio ricordare che oltre alle opere/scatole del bravissimo Cornell che Andrea giustamente citò anche opere vicine e originarie, derivate forse dall'”objet trouvè”, come quelle di Kurt Shwitters, alcune di Oskar Schlemmer, per arrivare poi a Spoerri ed Arman dei primi tempi, la corrente del “nouveau realisme”.
Anche Bruno Ceccobelli costruì almeno venti anni fa alcune oper che sapevano di altare o icona di ignota sua religione, molto materiali o rozze, poi quest’uomo si involvè un po’.
Scusate se mi cito, qui c’è qualcosa di mio, del genere, ma non le opere più complesse:
Grazie a Gianni che segnalò questo artista.
Mario Bianco
erano qui le cose:
http://www.mariobianco.net/pi05op8688.htm
Grazie wow, riesci a spegarmi qualcosa. Legata come sono al simbolismo junghiano capisco il sottile fascino del fascino.
Andrea, ma noi oltre a vedere l’immagine non la interpretiamo anche?
Che piacere rileggerti Mario, perché dici che Ceccobelli si involvé? mi interssa, quando lavoravo a Riza psicosomatica in occasione dell’organizzazione del congresso annuale della società di medicina psicosomatica (1989) fu allestita una mostra accompagnata da un catalogo con introduzione di Raffaele Morelli (quando ancora non s’era bevuto il cervello al costanzo show ed era un grande). Quel libello si intitola I sogni dell’in-finito e si parla della lettura di un’opera da parte del simbolista. Insomma tutto questo per dire che uno degli artisti era Ceccobelli e vorrei tu mi raccontassi che pensi. Mi interessa molto questo discorso, lo stato di coscienza con cui ci si pone di fronte a un’opera perché, come diceva Bachelard:” bisogna guardarsi bene dal comandare all’immagine come un ipnotizzatore comanda alla sonnambula.”
Ciao
Cara Gabriella
mi è sembrato che Ceccobelli lasciasse il suo simbolismo arcaico/rozzo per un decorativismo che non mi piace molto, che ho interpretato fosse qualcosa per compiacere le madamine ovvero clientela.
(absit injuria verbis)
Per quanto riguarda la fruizione dell’opera è quasi ovvio che ogni artista serio carica di signi/ficati la sua opera, i concettuali (che molto non amo) in particolare, offrono lavori che non si apprezzano, non si com/prendono se non si conosce prima il concetto che li ha generati.
Un’ opera, ad esempio, di Giulio Paolini non è bella, questo aggettivo non ci sta più, ma piuttosto può stimolare un pensiero un ragionamento.
Questo modo di porre l’opera nasce con Duchamp che però era più allusivo ed ironico.
Un opera di arte antica o ancora cubista o surrealista suggestiona, colpisce per primi i sensi, la vista e per canali sottili genera umori, stati d’animo anche riflessioni a volte la si fruisce “di pancia” e va benissimo.
Il surrealismo, corrente campione del lavoro dell’artista in uno stato quasi semicosciente, che si suppone faccia fluire le immagini costruite dal subconscio, prende pure il fruitore in genere creandogli uno stato di stupore per lo sconosciuto manifestatosi, reso palese in immagine.
Così penso per certi lavori, come quelli di Molinelli qui esemplificatici da Gianni, molto colpiscano e suggestionino perché potentemente evocatrici:
1. Si rifanno ad una nostra memoria iconica di altarini, madonnine, campane di vetro casalinghe, cappellette votive che dall’infanzia abbiamo avuto sotto gli occhi
2.La struttura loro simmetrica tendente a costruzione piramidale certamente evoca il sacro
3.La loro coloritura tendente spesso al dorato, ed alcune forme, anche qui evoca misteri iconici bizantini, fumi d’incenso
4.Però se uno guarda nei minimi particolari allora sì che comincia lo spiazzamento, gli oggettini eterogenei anche, a volte, un poco disgustosi disorientano il tipo che guarda, gli mettono dei dubbi sulla sanità mentale dell’artista, lo sbilanciano, e va benissimo.
Mario Bianco
Tatamica Gabri, ma se hai a disposizione la frase perfetta di Bachelard ” bisogna guardarsi bene dal comandare all’immagine come un ipnotizzatore comanda alla sonnambula.” che altro si può aggiungere?
Lascia stare anche il “dire” che è una solenne menata che ho detto. Lascia stare tutto: guardare, riaprire il canale della visione, chiuso dalla tele-visione, dalla pubblicità, dalle paginette dei giornali. Tocca le immagini con gli occhi, delicatamente e attentamente, come quelle pennine degli oculisti toccano la superficie dell’occhio. Testa vuota e occhi aperti.
Il consiglio di Andrea, “testa vuota e occhi aperti”, mi sembra ottimo per quanto riguarda la ricerca del contatto “mistico” con l’opera d’arte, un momento sicuramente centrale ma eminentemente privato. Quando però ne vogliamo parlare, tanto dell’opera quanto della nostra esperienza al riguardo, la testa ovviamente bisognerà ritornare a riempirsela, e con un certo ordine, sempre che non vogliamo limitarci a “comunicare” il mugolio di un orgasmo. Naturalmente, gli amministratori del fenomeno artistico vogliono pilotare questo secondo “momento” in maniera che sia fertilizzante ma innocuo: che dissodi il terreno per nuovi raccolti ma senza andare ad erodere le basi del loro controllo. Così la “teoria” autentica che informa quegli stessi autori che pure vengono proposti all’attenzione, deve brillare in sottofondo come un tabernacolo inaccessibile ai non iniziati, mentre deve venire distribuita a piene mani quella forma assolutamente innocua di discorso che potremmo chiamare “mitologia dell’autore”: anzi, tanto più i devoti vengono a conoscenza di nomi e particolari biografici ed ambientali, tanto più si rinsalderà in loro, con l’effetto distintivo nei confronti dei profani, la fede nella narrazione complessiva. Il bello è che queste cose ormai si studiano alla Luìss, o alla IULM, ma non per smascherarle e neutralizzarle, bensì per venire immediatamente “utilizzate”.
Wovoka, ma perché cavolo ogni volta sei lì col contagocce…
ti decidi a regalarci (qui o lì, ma anche alla mia mail) un pezzo esaustivo sulla percezione dell’arte ai tempi delle intercettazioni telefoniche incrociate?
Sì sì, poi crescono dei discorsi su quello che si è visto, certo. Dopo ci sono le parole. Ma se si guarda bene, davvero l’arte è così inaccessibile, davvero possiamo pensare la figura del “profano”?
Secondo me esistono solo quelli che “comandano le immagini” con parole che non c’entrano, ma che c’entrano a volte col mercato o con la loro autostima: insomma dei “profanatori”, di qualcosa che è semplice, che è un bene di tutti.
“Il contagocce” è stato il primo lavoro spedito dal giovanissimo Antonio Moresco a un editore.
Oh wow, apri squarci interessanti. Infatti se voglio scrivere una poesia dopo aver guardato dei quadri, faccio proprio quell’operazione lì, cerco il contatto mistico con l’opera. Ma io ora voglio andare a capire il perché della mitologia d’autore, il senso del “tabernacolo”, perché non continui il discorso? Se hai tempo, ovviamente.
@ Mario:
grazie molte! Di Ceccobelli conosco le opere degli anni ’80, poi non l’ho più seguito, e quello che faceva allora era parecchio interessante. Su Molinelli sono d’accordissimo con te.
E si ritorna alla restaurazione, anche nell’arte! e non ditemi che non è vero, che ho amici che non riescono più a esporre perché le loro oere non fanno mercato in Italia, però sono meravigliose e se andassero all’estero avrebbero un sacco di successo! queste le parole dei galleristi.
Sì, ma se si abusa dell’idea di contatto mistico…
Non vi hanno mai fatto la topografia corneale? è una similitudine molto significativa sul modo di vedere un’immagine. Si tocca delicatamente, se fosse un contatto mistico la delicatezza sarebbe superflua: ma allora comprometteremmo l’occhio.
Andrea,
scusami, sono curioso,
mi spieghi come si ottiene la delicatezza di sguardo?
Se non me la definisci bene e non trovi sinonimi ti do uno scappellotto, ecco.
Ovvero tu accarezzi il dipinto, l’opera con lo sguardo vero?
O no.
Ma se tu sei (non tu, si fa per dire) un ignorante e sei abituato a opere tipo il calendario di Frate Indovino come accarezzi un Ceccobelli, un Bacon, un Molinelli, un Rembrandt?
Allora, Andrea, io ho estremizzato per significare che l’acutezza, l’acume nella vista, il saper cogliere, si hanno “in nuce” come sensibilità personale e poi si possono educare con lo studio.
Ti fo un esempio:
il signor Federico Zeri oltre che un amante, un cultore dell’Arte, un esimio studioso era un grandissimo “connaisseur”, dote che gli veniva da natural talento educato con altissima passione; questo che gli consentì attribuzioni di dipinti e sculture a vari autori: da piccoli particolari coglieva elementi dello stile dell’autore.
Lui diceva anche di essere anche un poco paragnosta, sensitivo ma questi sono altri affari, molto opinabili.
In fondo, come diceva un maestro zen:
se hai un bastone te lo do
se non lo hai te lo tolgo.
Se la sensibilità non ce l’hai in nuce hai un bell’educarla, si otterrà poco, forse qualcosina.
MarioB.
Il talento (o la sensibilità) esiste, sarebbe folle negarlo. L’evoluzione stessa si basa su di un pool di “differenze” casuali che si distribuiscono su una certa popolazione. Sono queste differenze che rendono possibile la sopravvivenza della popolazione stessa alle variazioni arbitrarie dell’ambiente, e che quasi ci garantiscono che un numero sufficiente sopravviverà sempre all’ultima mutazione letale dell’ultimo dannato virus, e che la specie continuerà . Ma se misuriamo qualsiasi abilità che sia onestamente specificabile, troveremo le sue differenze distribuite in maniera quasi continua sotto la classica “campana” di Gauss, con i più strettamente addossati alla media, e porzioni sempre più esili che se ne allontanano, da una parte e dall’altra: spesso una maggiore estensione in un senso paga qualche scotto su qualche altra dimensione (vedi p.es. quei vantaggi rispetto alla malaria che comportano il rischio di anemia falciforme). Se i più se ne stanno addossati alla media ci sarà ovviamente sotto qualche vantaggio adattativo. Dunque il razzismo biologico non trova grandi conforti dalla biologia: la genetica mostra mostra che variazioni talvolta appariscenti, come il colore della pelle, dei peli o del colore delle iridi sono tuttavia superficiali, strettamente legate agli ambienti naturali, o all’alimentazione delle ultime generazioni, agli stili di vita, e risultano immerse in un mare di similitudini profonde (vedi le mappe di Cavalli-Sforza etc.) Il razzismo culturale è ben più difficile da smantellare, perché a livello “simbolico” le differenze posso essere rese – quasi a piacere – enormi, incolmabili perché “essenziali”. Possiamo per esempio negare che Andrea Pazienza disponesse di un eccezionale talento per il disegno? Sarebbe folle: chiunque disegni artisticamente, e dunque conosca in prima persona certi “paesaggi di potenziale”, legati alle possibilità umane, intuisce istantaneamente certe facilità del gesto, certe esattezze prive di sforzo. Eppure, con tutto l’entusiasmo che unisce questo riconoscimento pressoché universale, pare quasi un’audacia metterlo a livello dei primitivismi (peraltro già “scoperti” da tempo) di un Basquiat, il cui unico merito sembra essere consistito nell’incrociare la mitopoiesi che (per complessissime ragioni) è stata regalata in dote ad Andy Warhol, e farsene da questa trascinare nello spazio (assai poco innocente) dell’immaginario collettivo. Pazienza disponeva di un enorme talento per il disegno, e lo ha persino saputo incanalare in percorsi realmente artistici, eppure non farà MAI parte della Vera Storia dell’Arte, nella quale troveranno invece un posto pressoché “imperituro” certe scaltre figure che di un simile talento non detenevano neppure un grammo. Non si tratta forse di una questione appassionante, che meriterebbe di essere inseguita fino in fondo?
Ma tornando alla domanda di Mario Bianco, il fiuto di riconoscere “stilemi”, che Zeri deteneva in così sommo grado, dovrebbe forse apparirci come una qualità “fondamentale” dell’uomo? Come potremmo paragonare questa particolare abilità investigativa alle capacità “creative” di un grande compositore, o di un grande matematico? Devo dire che se c’è qualcosa che mi irrita davvero è il razzismo a buon mercato nei confronti di coloro che di certi “problemi” non hanno avuto modo neppure di sospettare l’esistenza. Anche certi adattamenti perfettamente “idioti”, puramente legati all’arbitrarietà del proprio ambiente e della propria traiettoria personale, quali ad esempio quelli che si concretano nei “Bon Ton” di Lina Sotis, vengono spesso presi quasi come i segni, le stigmate, di un’ “elezione” semi-divina. Ho in questo momento sotto gli occhi il mensile “Style” del Corriere della Sera, il numero pervaso dalla scanzonata sagoma di Cattelan. Nelle parole, nelle immagini, nelle mitologie pubblicitarie di questo manufatto, mi pare che sia implicito tutto lo stato della nostra civiltà, anzi della nostra “civilizzazione”. Basta un campione casuale:
… debolezze, ESTETICA APPLICATA, via 10 anni, CREME Studiate per lui. Disponibili da pochi giorni. Servono a cancellare una giornata di pazzo lavoro, che invecchia brutalmente. SIERI Da mettere poco prima di uscire, per una lunga serata … Milioni di euro appesi alle pareti per milioni di occhi che verranno ad ammirarli … prima che lo scoprano i nouveaux riches … non si affitta solo la casa, ma anche il cuoco, la cameriera, il giardiniere e quant’altro serva a stare come sibariti, ordinando menu su misura freschi di mercato … Vanno in ufficio o in studio con la giacca da caccia. Ma la sera o almeno per il weekend, tornano nel verde. Sono i nuovi metro-campagnoli, che hanno comprato la cascina non troppo lontano dalla citta. Secondo l’ultimo sondaggio Istat è un vero fenomeno sociale e un ottimo investimento. Che ha rituali e luoghi d’elezione … in società GLI ELICOTTERI Eli élite e utilitarie. E’ il vero simbolo del potere. Più dello yacht e del jet. Ma oggi qualcosa sta cambiando … A MISURA DI UN UOMO Trecento metri quadrati: due piani con terrazza. E vista su Brera. E’ la casa milanese dell’architetto designer MATTEO THUN. Pensata per se stesso: “Un luogo dove liberare la mete”. Perché un egoista ha bisogno di stare a piedi nudi, scegliere colori forti, rimanere da solo sul grande divano …
Abbiamo forse ancora bisogno di dadaismo? Eppure è esattamente di QUESTO MONDO che l’arte è “ancella”. Sarà dunque così assurda l’ipotesi che si tratti di un mondo alla rovescia? Che quello che sta in alto sia in realtà PEGGIORE di quello che sta in basso? E che i “veri artisti” se ne debbano necessariamente rimanere fuori da questa MERDA, che di certo (e qui posso anche rinnegare solennemente un certo giuramento, estorto ad una età ingenua) non difenderò mai da minaccia alcuna: che se ne vada pure affanculo, come merita abbondantemente: s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo.
Splendido commento, Wovo.
Sai com’è wowoka,
a volte anch’io mi azzardo a tirare pareri o attribuzioni, una volta ho azzeccato un Francesco del Cairo, ho fatto una bella figura e fu pura vanità. Così per mio carattere maturai un bonaria invidia per il talento di Zeri che sempre mi colpì.
Debolezze.
Hai ragione tu, non è che questa qualità zeriana sia auspicabile per tutta l’umanità, credo, invece che sarebbero auspicabili desiderabili altre doti per l’umanità, che tralascio per non fare prediche,
invece anche in Italia, specie in questo periodo pare che siano molto diffuse ed in voga altre “doti” altri “stilemi”….
Concordo pure per Pazienza.
Ti dico davvero che a vedere un Cattelan un po’ su un po’ giù qua e là ho molto fastidio: è il più famoso “artista” italiano del mondo, lui sì che è del MONDO.
Lui l’hanno inventato, al giorno d’oggi si possono inventare gli artisti, gli si possono dare le idee, gli si può dire fai questo fai quello, tanto quello che conta è il mercante ed i suoi clienti, anche l’altra,(ho rimosso il nome americano), come Cattelan ha un mercante a New York e risulta famosa, e basta, sono stufo, vecchie solfe, mi annoio da solo.
MarioB.
E’ così bello che qualcuno senza avere studiato, senza avere gradi, per una sua sensibilità magari coltivata per fronteggiare le cose della vita, si fermi un attimo a guardare un Rembrandt perché trova l’immagine dei suoi affetti. Per me quell’incontro è l’unica cosa importante.
Condivido Andrea al 100%.
Dicesti benissimo.
Mario