Il canto popolare dello sterminio

di Helena Janeczek

Kantor

Mentre mi accingo a scrivere qualche riga su Yitzchak Katzenelson e il suo Canto del popolo ebraico massacrato, poema epico in quindici canti sullo sterminio degli ebrei dell’est, mi viene in mente il primo luogo comune sull’argomento. Si tratta di una frase ripresa da Theodor W. Adorno secondo la quale dopo Auschwitz sarebbe impossibile scrivere poesie. Adorno, in realtà ha detto una cosa un po’ diversa. Diceva, più o meno, che è impossibile scrivere poesie dopo Auschwitz se queste poesie non includono l’orrore di Auschwitz.
Ma il dibattito, ai suoi tempi, non toccava la questione se in poesia si potesse fare a meno di quell’orrore, il dibattito riguardava il “si può?”. Taluni sostenevano: “Fare i poeti dopo Auschwitz non ha più senso!”, mentre altri ribattevano “Non vedete che invece è possibilissimo, e con quali risultati” e a confutazione snocciolavano i nomi dei più celebri poeti scampati al massacro: Nelly Sachs, Rose Ausländer, Paul Celan. Nel campo opposto c’era addirittura chi dubitava della legittimità di una poesia come Fuga di morte di Celan, perché le contestava l’estetizzazione e la sogettivazione dell’orrore.

In ogni caso, chi partecipava a quella discussione quasi certamente non conosceva Il Canto del popolo ebraico massacrato di Katzenelson. Ma la conoscenza, la considerazione di quel poema avrebbe potuto scompigliare le carte in tavola, costringere a ripensare da capo tutta la questione. Perché di fronte al Canto di Katzenelson pare insostenibile la tesi dell’orrore ridotto a esperienza soggettiva e trasfigurato in poesia. Mentre, d’altra parte, conoscendo quel poema anche il più acceso difensore della lirica post-olocausto dovrà ammettere che sì, è proprio vero che la poesia sulla sterminio è mostruosa, che è disumano, inoltre, pensare a chi l’ha scritta e in quali condizioni. A differenza dei suoi colleghi e compagni di sventura citati prima, Yitzchak Katzenelson non faceva parte di quegli ebrei assimilati la cui lingua e cultura era ormai tedesca, con tutte le lacerazioni che questo comportava ai poeti sopravvissuti.

Katzenelson era un ebreo polacco, scriveva in yiddish e in ebraico, apparteneva alla vastissima schiera di autori che coltivavano la letteratura nella lingua propria agli ebrei dell’est. Prima della guerra insegnava al celebre liceo ebraico di Łodz e componeva, con buon successo, pieces teatrali e poesie popolareggianti. Queste opere oggi pressoché dimenticate ribadiscono che pur raggiungendo dei risultati letterari anche altissimi- basta pensare a Isaac Bashevis Singer- la tradizione dalla quale proveniva Katzenelson era comunque per sua natura, diversa da qualsiasi altra tradizione letteraria europea: rimaneva legata alla cultura di un popolo, di una minoranza. Era, per quanto ricca e spesso raffinata, più popolare.

Il poeta Yizchak Katzenelson fu ammazzato ad Auschwitz nella seconda metà del 1944. Nei cinque anni dal 1939 al 1944 era però stato testimone di tutto ciò che significa lo sterminio in Polonia, dove nemmeno un decimo della popolazione ebraica riuscì a sopravvivere. Aveva dovuto assistere alla costruzione dei ghetti in ogni città e cittadina, alla messa in moto della macchina dell’annientamento con tappe nei Sammel- e Auffangslager, alla deportazione vera e propria. Sapeva, già allora, dove andava il treno che gli portava via la moglie Hanne e i figli Yomele e Benzion. Sapeva non non solo dove, ma come andava a finire quel viaggio. Sapeva, in breve, che quello non era un nuovo, gigantesco pogrom ma ben diversa cosa.

La sua storia, come la storia di tutti gli ebrei che scamparono alla prima deportazione, fu una storia di fughe incessanti che nel 1943 lo condussero nel ghetto di Varsavia. Il 19.4.1943. vi scoppiò la celebre rivolta che riuscì a durare un mese e mezzo. Katzenelson vi partecipa, ma il contributo a lui richiesto è di tipo speciale: il comitato della resistenza gli commissiona un poema che testimoni, per i tempi a venire, quanto stava accadendo agli ebrei polacchi. Di nascosto il poeta viene portato fuori dal ghetto perché la sua vita è ormai preziosa. E’ in quei mesi che- prima nel ghetto, poi rintanato in un rifugio, Katzenelson concepisce Il Canto del popolo ebraico massacrato. Lo concepisce intero, ma non lo annota. Riesce a metterlo per iscritto, ricostruendolo a memoria, qualche mese più tardi nel campo di concentramento di Vittel, in Francia, dal quale verrà poi rispedito in patria con destinazione Auschwitz. Insieme alla prigioniera Miriam Novitsch sotterra tre bottiglie nelle quali è nascosto il Canto. Miriam Novitsch è più fortunata del poeta e sopravvive: subito nel 1945 torna a Vittel per disseppellire il manoscritto.

Questa è dunque la storia movimentata e terribile che ci ha consegnato il Il Canto del popolo ebraico massacrato. Già la sua ricostruzione mette in luce alcuni elementi che fanno di questo poema un documento unico. A differenza della poesia di Celan, ad esempio, non è memoria elaborata dopo lo sterminio, scritta da un sopravvissuto (anche se la sopravvivenza di Celan come quella di Primo Levi sembra nullificata dal suicidio finale), bensì testimonianza nata durante. Ma la cosa più importante è che Katzenelson non scrisse il Canto di sua iniziativa, bensì che gli fu commissionato da un collegio in cui poté vedere una legittima rappresentanza del popolo ebraico.
Katzenelson dunque compose il Canto su incarico del suo popolo. Per questo il suo è un poema che non si limita a evocare e invocare, ma descrive e documenta, un poema in cui la voce del poeta coincide con quella del cronista e del cantore. Vuoi perché è stato concepito a memoria, vuoi perché doveva trattarsi del canto di un popolo intera, il poema di Katzenelson è epica vera: ricorre a esclamazioni, allitterazioni, ripetizioni; conserva il metro giambico e la rima incrociata; si struttura in quindici canti ripartiti in strofe di uguale lunghezza. La sua è dunque l’espressione estrema- concepibile solo nell’ambito di una letteratura popolare come quella yiddish- di una tradizione antica che trova la sua dimensione più autentica nella recitazione orale, nel canto.
Questo è chiaro sin dall’inizio del poema che infatti si apre con una sorta di dialogo: una voce chiede al poeta di cantare “degli ultimi ebrei rimasti in terra d’Europa”. Ma lui risponde di non esserne capace visto che è rimasto solo, che gli hanno deportato moglie e figli. Subito si annuncia una perdita, un crollo terribile: quello della fede in Dio. Non è più Dio, bensì i suoi morti che il poeta va cercando in ogni dove. Solo che i suoi morti – Hanne, Yomele, Benzion – presto si confondono con l’immenso numero delle vittime sconosciute, sino a far coincidere famiglia e popolo intero. Sono questi i morti che il poeta invoca: sia come committenti, sia – cosa forse ancor più notevole- come destinatari, come pubblico: “venite, venite tutti da Treblinka, da Sobibor, da Auschwitz…ecc”.
Il Canto del popolo ebraico massacrato testimonia dell’annientamento di una collettività in modo diretto, consapevole, inequivocabile. Da questo deriva in parte la forte impressione che lascia in chi lo legge. Ma testimonia inoltre di un altro annientamento: quello di una cultura fondata su una religione che è stata, in primo luogo, prassi di vita e come tale radice. Una radice in grado di sostituire nei secoli il radicamento a una terra, garantendo in tal modo la sopravvivenza di quel popolo come tale. Questa radice viene ora estirpata: qualche ebreo dell’est ha potuto scampare allo sterminio, ma il suo mondo è stato distrutto per sempre. Distrutta anche la sua lingua, lo yiddish.

Il Canto è dunque il poema scritto da un poeta morto ammazzato in una lingua anch’essa morta ammazzata. Ma Katzenelson ci rivela una verità ancor più terribile: che la morte definitiva di quella cultura non dipende dal numero elevatissimo degli ebrei uccisi. Dipende invece dal fatto che quell’annientamento totale mancato ha colpito la radice prima di quella cultura: la fede nel Dio che ha eletto il suo popolo e gli ha dettato la sua legge.
Il nono canto è un lungo, feroce “j’accuse” rivolto ai cieli, impassibili e indifferenti spettatori del massacro che culmina nel grido reiterato “Nessun Dio è in voi”. Ma quando riconosce Giobbe e i profeti come suoi antenati e invoca da loro la maledizione dei cieli, il poeta parla al tempo stesso dal seno della tradizione religiosa, parla anzi come fosse lui stesso l’ultimo profeta. Una sola cosa però gli consente di porsi così in alto: la costatazione che in ogni “piccolo, semplice, qualsiasi ebro in Polonia, Lituania, Volinia…si lamenta e grida un Geremia, un Giobbe disperato, un disilluso re canta il Qohelet”. Colui che canta, ora, è profeta non perché investito da Dio, ma perché il suo popolo, il suo popolo ucciso lo ha chiamato. Perché ogni singolo ebrei è un santo “purificato dalla sofferenza qui nell’esilio”, perché solo gli ebrei sofferenti o morti ormai sono santi. Santi, dice Katzenelson, come fu Gesù Cristo, ebreo, vittima, uomo, dio. Così il nono canto aperto con l’esclamazione “voi cieli, voi avete visto, stavate a guardare lassù dall’alto, eppure non vi siete capovolti” non si conclude solo con l’atroce maledizione in cui il poeta invoca “che un fuoco dalla terra vi raggiunga e da voi si espanda alla terra un fuoco”, ma capovolge davvero, una volta per tutte, la prospettiva: ciò che è santo, non sta in cielo né sulla terra, ma nel migliore dei casi, sotto terra. In una fossa comune, cosparsa di calce.

Questo testo si trova sul programma dello spettacolo Dybbuk di Moni Ovadia per il quale avevo tradotto i due canti proposti sotto in versione rivista più altri brani del poema di Katzenelson. Lo spettacolo debutto al Teatro Franco Parenti di Milano il 16 marzo 1995.

3 COMMENTS

  1. Helena, ti ringrazio per aver parlato di Yitzchak Katzenelson e perché ne hai postato i canti.
    Non conoscevo Katzenelson. Mi procurerò il suo libro.

    Ho cercato un po’ in rete.
    Questo il giudizio di Primo Levi: “davanti al ‘cantare’ di Isacco Katzenelson ogni lettore non può che arrestarsi turbato e reverente. Non è paragonabile ad alcun’altra opera nella storia di tutte le letterature: è la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta dal mezzo della strage, la morte tedesca si aggira intorno a lui, ha già compiuto il massacro più che a metà ma la misura non è ancora colma, non c’è tregua, non c’è respiro; sta per colpire ancora e ancora, fino all’ultimo vecchio e all’ultimo bambino, fino alla fine di tutto. Che in queste condizioni e in questo stato d’animo il morituro canti, e si riveli poeta, ci lascia frementi di esecrazione e di esaltazione insieme. Queste sono poesie necessarie, se mai altre ce ne sono state: intendo dire, se così spesso ci coglie il dubbio, davanti ad una pagina, che le cose scritte dovessero essere scritte e potessero o non potessero essere scritte in altro modo, qui ogni dubbio tace.
    Al di sopra dell’orrore che ogni volta ci coglie davanti a queste testimonianze pur note, non possiamo reprimere un moto di stupore ammirato per la purezza e la forza di questa voce”.

    Qui una recensione di Massino da “L’Indice dei libri”.
    http://www.internetbookshop.it/ser/serdsp.asp?isbn=888057003X

  2. Grazie a te, Emma, di aver trovato questa pagina di Primo Levi che si commenta da sé e che non conoscevo. Ho i brividi, ti giuro.
    @ Andrea: lo conosco solo di nome, ovvero non l’ho letto.
    Giornata in cui dimostro tutta la mia gnuranza.

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