Poesie
di Guido Mazzoni
(Per una critica di Elio Paoloni su questo testo vedi qui)
Generazioni
Il neonato tende le braccia verso una parete che non può vedere. Dall’altra parte degli occhi noi lo guardiamo transitare dal panico alla quiete, fissandolo in volto senza paura o pudore, come si fa con gli animali: il suo sguardo non oppone alcuna resistenza al nostro; la sua debolezza ci aiuta a dissipare i conflitti inesplosi fra di noi, in questo gruppo di persone che parlano di altro, ma che in realtà si stanno confrontando. Di impulso, a metà della cena, i genitori lo hanno estratto dalla camera dove giaceva sedato per ostentarlo, mettendo la culla al centro della tavola, rompendo il campo psicologico che ci conteneva ed aprendone uno nuovo, pieno di sottintesi e di tensione.
Se la madre parla così tanto, se chiede alle altre coppie senza figli di condividere le passioni che la agitano, è perché capisce di avere imposto agli altri un mondo solo suo, come se fosse doveroso cambiare la logica dei nostri rapporti per concentrarsi sul bambino, come se non vi fosse altro. Ormai è troppo tardi per tornare indietro. La madre coglie la lacerazione che ci attraversa e cerca di nasconderla provando a concludere il discorso, ma in questo modo finisce per parlare di argomenti che solo lei può possedere: i primi gesti del neonato, le cose che indossa o che consuma. So che dovrei adattarmi e invece faccio come se lei non avesse parlato, spezzando di nuovo una conversazione già spezzata e ignorando il bambino che, al centro della tavola, agita le braccia per esistere.
Abbiamo fra i trenta e i quarant’anni, percorriamo la zona della vita dove ogni evento è irreversibile, siamo tutti molto fragili. Questa coppia è più fragile di noi. Due persone vivono stati di fusione profonda e di profonda ambivalenza, trovano un equilibrio, compiono un gesto definitivo che li rende responsabili di un altro essere. Dovranno rinunciare a una parte consistente di se stessi per renderlo felice; dovranno cercare di rendersi felici attraverso di lui, amandolo e usandolo. Gli atomi di aggressività che li percorrono vogliono dire queste cose e tante altre ancora: che hanno sacrificato molto, che esigono una sorta di compenso, che hanno paura. Se una parte di loro cerca approvazione in noi, un’altra cerca di distruggerci e un’altra ancora ci vuole risarcire. Dal lato opposto del loro sguardo noi in fondo facciamo la stessa cosa. Affrontiamo uno di quei conflitti anteriori a ogni definizione che formano il tessuto sotterraneo delle nostre vite, le sole cose che ci interessano, le sole che possiamo comprendere davvero; misuriamo, nei volti che ci osservano, il peso enorme che gli altri esercitano su di noi in quanto giudici, avversari, specchi di noi, vite possibili, lastre indifferenti dove incidere la nostra paura e i nostri desideri. Qualcuno parla di una persona che tutti conosciamo; la superficie che ci lega è leggerissima. Guardo il neonato, fra le bottiglie e i bicchieri, incominciare a esistere.
*
Dearborn Bridge
Il fumo grigio dell’acqua sul bordo
del fiume che congela, un pomeriggio vuoto,
le barche prigioniere nella luce
perfetta di un giorno senza scopo,
quando ogni istante basta a se stesso
e alle cose che ripete – il celeste
tra i grattacieli, i viali in ombra,
i nostri volti nelle nuvole riflesse
sui muri a specchio, i passanti che riformano
dietro di noi la parete degli altri –
e le facce dentro le stazioni mentre dicono
che ogni persona è complessa e inconoscibile,
cerca un equilibrio in mezzo ai propri simili,
vuole placare desideri, vuole vivere
qualche attimo compiuto oltre il presente
quando lo svincolo si chiude per mostrare
il lago, le file delle case, queste piante
che incidono il gelo e si conservano, gli altri esseri
nei vagoni, mentre siedono ed esistono –
e non c’è un senso ma un infinito adattamento,
l’equilibrio impercettibile che una forma
di vita impone a se stessa. Fra poco ti riassorbirà,
una persona che cammina avrà il tuo volto, questo corpo
fatto d’acqua sembrerà normale. Copriremo
con le parole il vuoto che abbiamo potuto vedere –
solo disordine oltre le nuvole e i nomi,
i segni splendidi a nascondere le cose.
*
Superficie
Ora che la conversazione ti lascia da parte in una specie di cono, e le cose che pochi minuti fa provocavano un’increspatura nei rapporti fra te e le persone sedute al tuo tavolo sembrano prive di peso, percepisci ancora il campo di tensioni che un discorso sulle automobili, sulle forme di un vestito, su un modo di vivere, su una notizia che fra dieci giorni dimenticherai può aprire all’improvviso, ma fatichi a recuperare il valore delle cose che per un attimo sono state così importanti da rappresentare la tua identità e da meritare una difesa. La risacca che ti trascina via e lacera la patina delle tue azioni ti fa capire quanto sia piccola la distanza che ti separa dagli altri, quanto siano fragili i contenuti con cui riempiamo il gioco di equilibri e di squilibri che lega insieme le persone, generando la superficie dove ci muoviamo. Tu però vivi sulla superficie, tu sei la superficie che ti ha fatto parlare con una foga assurda di un’elezione amministrativa o di un individuo che non conosci; ed è per questo che, quando uscirai poco prima dell’alba e la rete dei fanali, gli alberi allineati fra le case del sobborgo, le sagome dei pendolari che vanno a lavorare ti sorprenderanno, verrai colto da una forma di vergogna che supererai facilmente, perché questa è ormai la tua vita, l’unica cosa che conta per te, l’orizzonte che non puoi oltrepassare.
*
AZ 626
E mentre le nubi ci lasciano vedere
per intero la curva della terra, nella forma
dei sobborghi senza forma dove dovremo vivere,
ascolto il flusso del sangue nella cuffia alla fine della musica
guardando i mondi degli altri che si incrociano col mio, le loro reti
di paura e desiderio dentro il tubo fragilissimo –
nell’istante in cui si attaccano al presente
fissando le lastre di ghiaccio sul lago inverosimile,
la nostra vita irreale otto chilometri più in basso.
Ora so che non ha senso rompere
la miopia che ci fa esistere, vedo diversamente
le monadi che ci proteggono, le loro trame nel disordine;
seguo le macchie di luce che il sole
getta sul paesaggio, il cielo puro e indifferente.
*
Gli esseri
Ascolto il tuo respiro cambiare insieme ai sogni,
ai conflitti che si combattono dentro di te,
dentro la vita che mi dorme accanto, mentre riapro
gli occhi sulle solite cose,
la stanza grigia prima dell’alba e vedo i cumuli,
oltre la finestra, viaggiare verso il mare.
Le luci delle auto, le loro lame
tra le stecche, la rete dei rapporti che il risveglio
notturno ingigantisce
e ai piedi del letto i fiori che si sforzano
di rimanere in vita nel vaso che li ostenta.
Gli esseri non chiedono altro; esistono per sé
con cinismo e innocenza nel tempo che posseggono,
come il fiore che vedo o le persone che sogni,
o come gli uccelli che sopra di noi
tagliano il cielo per vivere.
Perché è ingenuo cercare di trascendere
le forze cui diamo il nostro nome,
quando il mattino ci ingloba e ogni cosa ci riprende
e i soliti gesti sono ciò che sei
con cinismo e innocenza a metà della vita,
i primi autobus nell’aria trasparente,
gli stormi geometrici che cambiano emisfero.
«Nuovi Argomenti», 32, ottobre-dicembre 2005, pp. 190-95.
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Vite estemporanee che si attaccano come ventose a specchi scivolanti.
Frutti acerbi marciti senza maturità.
Ma anche queste riflessioni necessitano distanza dall’ostentazione arida della vita come espiazione, come traguardo, come obbligo, intrusione ed estraneità per i suoi stessi riproduttori.
Ammassando immagini di zapping esistenziale, anche questo attimo volgerà in un altro asintoticamente tendente alla naturalezza.
Speriamo.