Lo scrittore intelligente
di Sergio Garufi
Per lungo tempo ho creduto ciecamente all’interpretazione ufficiale di David Foster Wallace. Wallace è il Musil del terzo millennio!, l’ultimo grande mostro sacro della letteratura mondiale!, la mente migliore della mia generazione!, un classico contemporaneo!, un temporale d’intelligenza! E’ curioso come si possa dar credito per anni a queste panzane, come ci si lasci così facilmente gabbare dalla più enfatica propaganda critico-letteraria; eppure il carattere scopertamente agiografico delle interviste in ginocchio e delle recensioni adoranti avrebbe dovuto svelarne subito l’esagerazione e l’inconsistenza. Forse, ciò che gli nuoce maggiormente è proprio questo culto della personalità, questa canonizzazione in vita (Wallace santo subito!), per colpa della quale di una promettente parabola artistica si è fatto carne da macello accademico, materia per tesi di laurea ed encomi solenni. Ed è naturale che, giunti a questo punto – cioè al punto in cui il suo nome non si può più discutere, perché appartiene al pantheon dei grandi pur avendo poco più di 40 anni, e quindi esige uno spirito acritico, un atteggiamento fideistico di prona devozione -, oggi esprimere delle riserve su Wallace risulti blasfemo, equivalga a sputare nell’acquasantiera, tanto più se si intende intaccare il mito fondante sul quale è basata l’unanime ammirazione dei lettori: la sua prodigiosa intelligenza.
Che parli di rap, di tennis, di rodeo, di tornado o di numeri primi – come fa nei saggi e nei racconti -, o che eriga immense cattedrali linguistiche, macronarrazioni polifoniche e rizomatiche come il romanzo fluviale Infinite Jest, lo scrittore americano riesce ogni volta a sorprenderci, ad aprire nuove prospettive di senso prima invisibili. E’ un querdenker, insomma, un pensatore laterale che osserva la realtà da punti di vista inusuali. Le sue sono anamorfosi sconcertanti che producono idee geniali a getto continuo. Per adoperare una definizione che a suo tempo fu rivolta, in modo non benevolo, a Sartre, potremmo dire che Wallace è un impresario di idee. Ma sono sufficienti, l’intelligenza e le idee, a fare di un libro un capolavoro? O l’intelligenza non dovrebbe manifestarsi piuttosto come reticenza e discrezione? E non è forse proprio l’incontinenza dello sguardo dell’autore, il peccato che inibisce intimamente il racconto? E infine, chi l’ha detto che un romanzo dev’essere pieno di idee? Cioran e Céline avrebbero risposto di certo negativamente. Il rumeno nei Quaderni scriveva infatti che “niente è più futile e sterile della ricerca esclusiva dell’idea“; mentre il francese esclamava, nei Colloqui col Prof. Y, “non ho idee, io; nessuna! non trovo nulla di più volgare, comune e disgustoso delle idee!”
E’ la qualità delle ossessioni che si riversano e si rimuginano nello scritto, ciò che fa grande uno scrittore; non le idee brillanti o la sua mirabile intelligenza. L’intelligenza dell’autore va posta al servizio della narrazione senza volontà di sopraffazione, a tal punto da dare l’impressione al lettore che la storia si dipani da sola, quasi che chi scrive non ne conosca previamente gli esiti e non sia in grado di muovere i personaggi come marionette. In una intervista apparsa qui tempo fa Marco Drago, rispondendo a Tiziano Scarpa, lamentava a ragione che in questo periodo “c’è un sovrappiù di intelligenza, nella scrittura in genere […] Parte dell’intelligenza va sacrificata per inselvatichire la scrittura, renderla sfocata, toglierle in po’ di lucidità.” In Infinite Jest non c’è pagina – ma che dico? -, non c’è frase, non c’è personaggio o situazione o immagine che non siano intrisi d’intelligenza; che non siano, anzi, l’intelligenza stessa fatta a suono e grammatica, l’ipostasi, la discesa in terra del più puro concetto d’intelligenza.
Wallace è il nume tutelare della consapevolezza esacerbata, il santo patrono degli eternamente lucidi, mentre la creazione artistica implica necessariamente una forma di abbandono, seppur parziale, delle proprie facoltà intellettive. Questa rovinosa vocazione al profondismo, unita ad un compiacimento eccessivo e ad una bulimia fabulatoria, costituisce a mio avviso il suo maggior limite, ciò che lo rende – pur con tutto il suo innegabile e sfolgorante talento – sostanzialmente freddo, distante e non di rado noioso. Assomiglia, in questo, ad uno dei suoi personaggi di Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, una ragazza con un’autentica vocazione letteraria che partecipa a un corso di scrittura creativa, e che viene però redarguita dal suo insegnante perché il suo stile è troppo “mamma, guarda, senza mani!”
Scrivere è un regolamento di conti con la vita e con i propri demoni, e quelli di Wallace sono libri esorcizzati. Non inquietano, non fanno male, non cozzano con la pietra, la blandiscono solamente. Ricorrendo ad un’icastica immagine di Claudio Magris, sono “una Medusa condotta dal parrucchiere per essere resa presentabile”. Inoltre, la sua lingua è algida ed esangue, priva di una riconoscibile e originale cifra stilistica; e come si può decifrare ciò che non è cifra? I grandi maestri di stile come Gadda, Bernhard, Céline e Joyce erano degli aguzzini, dei persecutori del linguaggio. Lo inquisivano e lo torturavano fino a farlo parlare, ed è per questo motivo che la loro voce ci dice ancora qualcosa: perché possiede una proprietà transitiva, riesce a passare, a giungere fino a noi. Il genio linguistico è il frutto dell’alterazione e della disarmonia, è appannaggio degli squilibrati; e Wallace è troppo continuativamente vigile per possederlo.
La verità è che per scrivere un libro importante la sola intelligenza non basta; a volte, anzi, disturba. Non è improbabile che abbiano ragione le agguerrite e folte schiere dei suoi adepti, quando sostengono che l’americano sia il nuovo Musil, tuttavia io la penso come Walter Benjamin che, nel 1933, restituendo a Gershon Scholem una copia de L’uomo senza qualità, diceva nella lettera d’accompagnamento all’amico: “Il Musil, tienilo pure. Non ho più nessun gusto a leggerlo, e mi sono congedato da questo autore quando ho capito che è più intelligente di quanto sarebbe necessario”.
(Pubblicato su Stilos – Luglio 2005. Foto: www.nndb.com)
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Ovazione.
un autore divertente che non leggerà mai più??
A parte la chiusa (lascerei Musil e Benjamin a vedersela tra di loro) sono piuttosto d’accordo con questo pezzo, aggiungerei che sono stati proprio i due sunnominati e i loro pari novecenteschi a fare qualche iniezione di intelligenza di troppo alla letteratura europea.
Di Wallace ( ma sarà lo stesso acclamatissimo genio di cui si parla qui? ho eliminato il libro e non posso controllare) ho letto un mestissimo libretto su un viaggio in nave da crociera e ancora me ne dolgo, parecchi quarti d’ora sottratti inutilmente alla mia vita ormai non più lunghissima.
Miracolo!!!
Mi vergogno del commento che ho fatto sopra, pensavo che non uscisse, e allora per farmi perdonare copio, per chi non le conoscesse, un pezzettino di lettera editoriale di Bobi Bazlen a proprio sull’ Uomo senza qualità di Musil, sulla base di questa lettera, molto più lunga, questa è solo la premessa, Einaudi pubblicò poi il romanzo.
12 giugno 1951
“…
Come livello, non si discute, e (malgrado le riserve che vi farò ed infinite altre che si possono fare) va pubblicato a occhi chiusi. Come valore sintomatico in ogni singola pagina, come valore assoluto in moltissime parti, rimane una delle faccende più grosse tra tutti i grandi esperimenti di narrativa non conformista, fatti dopo la prima guerra mondiale, quasi tutte opere basate sul predominio di un’unica funzione, usata fin oltre i limiti permessi dalla pedanteria (Joyce, per esempio, l’associazione sonora; Musil, la precisione di pensiero).
Da discutersi molto, invece, da un punto di vista editoriale-commerciale. Qui, devo fare l’avvocato del diavolo. E come avvocato del diavolo, ho quattro argomenti. Il romanzo è
1°) troppo lungo
2°) troppo frammentario
3°) troppo lento (o noioso, o difficile, o come vuoi chiamarlo)
4°) troppo austriaco
…”
Chi non le avesse e volesse procurarsele:
Roberto Bazlen, Lettere editoriali, Adelphi, Milano 1968.
Ma dove sta scritto che il linguaggio può essere fatto parlare solo attraverso uno spropositato, faticoso ed espressionista scavo della lingua e – sopratutto – che questo scavo debba poi essere reso visibile e contrabbandato come sperimentazione linguistica (eccolo il “guarda, mamma, senza mani!”), perché uno scrittore possa essere considerato “grande”?. Io non penso che l’argomento dell’articolo possa essere convincente se non si entra nel merito dell’opera… e preso da sé è apodittico e non dimostrabile. Detto fra di noi, poi, io preferisco 1.000 volte Svevo a Gadda, ma queste sono divagazioni che hanno poco conto.
In secondo luogo, credo che lo sproporzionato sfoggio di intelligenza che si riscontra nei romanzi di Wallace costituisca già di per sé una “cifra stilistica” che per giunta ha il merito di riesaltare (post-modernisticamente, certo.. ma è questa forse una colpa?) quella indissolubilità di contenuto e forma che, dopo il moderno, è diventata per forza di cose indissolubilità di opera e tramestio intellettual-grottesco-compiaciuto intorno all’opera. Ora… in Wallace l’opera e quello che ho chiamato il “tramestio” diventano una cosa sola… e questo ce lo confermano gli ammiratori, ma soprattutto i detrattori dell’opera di Wallace. Questi ulltimi, infatti, prendono di mira l’intelligenza di Wallace, e non del narratore di Infinite Jest!!! Il narratore è scomparso e si è sovrapposto completamente al personaggio che narra… è Wallace stesso a essere diventato il suo più riuscito personaggio (non credo proprio che si tratti di sviste…), e questo – ragazzi – forse non accadeva dai tempi di Tolstoj. Si tratta di un paso indietro??? Ma certo che sì… il fatto è che Wallace rimpiange la narrazione e ha dovuto mettere in piedi questa infernale macchina omeostatica perché è questo l’unico modo modo possibile di continuare a narrare (e a mentire) pur facendo mostra di essere il più lucido e consapevole degli esseri umani. DFW in fondo è un classicista (non è mica Joyce…) che sa che oggi è la sola arma dell’intelligenza iperconsapevole ad essere la più disturbante e malvagia presa per i fondelli (in questo simile a Joyce, ma in fondo tutti gli scrittori sono degli “strafottenti”…) nei confronti dell’arte e di tutti coloro che vi si inchinano mediocremente.
Basta con questo mito dell’intelligenza. Bravo Garufi.
alla fine di “verso occidente l’impero dirige il suo corso”, mark nechtr per tre pagine dice in uno dei passi più commoventi che abbia mai letto cosa vuol dire scrivere, e come evitare le trappole autogenerate dell’intelligenza non al servizio della narrazione.
wallace può toppare racconti di 60 pagine per l’innamoramento della propria bulimia, ma le 200 pagine di flusso di coscienza don gately colpito quasi a morte alla fine di infinite jest? sono frutto solo di una straordinaria maniacale capacità di scrittura? e “piccoli animali senza espressione”, voglio che qualcuno sostenga scientemente che ogni riga non trasuda intelligenza, ma una forma di sentimentalismo, violente, candido, e netto. che poi spesso la sua scrittura cerchi di essere proprio una forma di esorcismo nei confronti della iperconsapevolezza, lo dice e lo teorizza lui stesso in E unibus pluram, il saggio in cui parla del rapporto di dipendenza degli scrittori americani dalla metafinzionalità della televisione.
ma, come in tutti gli esorcismi, i demoni bisogna evocarli. e non è una delle più tipiche caratteristiche della nostra contemporaneità essere perfettamente consapevoli di cosa muove il mondo, ma saper a mala pena respirare?
Temo che come sempre in questo paese piccolo ma molto conflittuale anche questo articolo porterà a una contrapposizione pro-contro Wallace, saltando a piè pari il problema che pone.
Come ho detto non ho letto niente di wallace, salvo un librettino, e sono contenta di non averlo fatto, così parlerò del “problema” e non del punto di partenza.
L’intelligenza è stato, letterariamente parlando “IL” problema della letteratura novecentesca, del “secolo della critica” in cui tutti siamo nati (almeno questo lo abbiamo in comune) e porselo, questo problema, per chiunque da questo secolo sia stato formato, non è irrilevante.
“Ma sono sufficienti, l’intelligenza e le idee, a fare di un libro un capolavoro?” si chiede Garufi sulle orme di illustri predecessori. Io mi chiederei addirittura se l’intelligenza e le idee sono sufficienti a fare di un saggio un grande saggio. E di una poesia una grande poesia. E di un’opera figurativa una grande opera. Perché l’intelligenza, così invasiva, ha occupato anche lo spazio dell’arte, quello spazio un tempo afasico e però pieno di energia che è mutato rapidamente sotto i nostri occhi, diventando sempre più estremo (e specialistico, temo).
Garufi dice:
“E’ la qualità delle ossessioni che si riversano e si rimuginano nello scritto, ciò che fa grande uno scrittore; non le idee brillanti o la sua mirabile intelligenza. L’intelligenza dell’autore va posta al servizio della narrazione senza volontà di sopraffazione, a tal punto da dare l’impressione al lettore che la storia si dipani da sola, quasi che chi scrive non ne conosca previamente gli esiti e non sia in grado di muovere i personaggi come marionette. ”
WALLACE A PARTE, non è questo lo sforzo, o almeno la speranza di chiunque si ponga all’opera?
Solo quando l’intelligenza è capace di dimenticarsi di se stessa, l’opera diventa una grande opera, persino una grande opera come quella musiliana, fatta anche di carne e sangue.
Garufi dice:
” la creazione artistica implica necessariamente una forma di abbandono, seppur parziale, delle proprie facoltà intellettive”
Sono d’accordo. Come dice Herrigel nel Tiro con l’arco, c’è un punto in cui la freccia deve andare al bersaglio da sola, senza che il tiratore prenda la mira, perché possa farlo, il tiratore prima deve essersi molto esercitato, ma nel momento cruciale non può aggrapparsi al suo sapere, deve andare oltre, in caso contrario prenderà il pioppo.
A me Wallace non piace, per niente. Ecco, ho avuto il coraggio di ammetterlo. Adesso bruciate la mia foto, Wallacisti…
Il tema è stimolante, senza dubbio. Ma…
Anzitutto non paragonerei Wallace a Musil, mai. Anche perché, se le parole di Garufi sottoscritte da Temperanza non fanno una piega (e non la fanno neanche secondo me), trovo che Musil abbia fatto esattamente questo: ha messo cioè la propria intelligenza “al servizio della narrazione [o forse meglio: dell’opera] senza volontà di sopraffazione”. Trovo impressionante, del resto, che oggi ci si trovi a sottoscrivere con passione queste parole che solo poche decenni fa sarebbero apparse come un’ovvietà. Mi domando perciò: che cosa è accaduto nel frattempo? O forse: che cosa è venuto a mancare?
Il fatto è che il fraintendimento dell’intelligenza di Musil, come molti altri aspetti di questa discussione per il resto molto intelligente [sic], poggia, secondo me, su un equivoco terminologico. Provo a spiegarmi.
Ammetto anzitutto di non aver letto Wallace, ma di averlo più volte sentito affiancare, da chi me lo ha insistentemente consigliato, a un altro autore americano di quella generazione, magari meno celebrato ma altrettanto di culto, e cioè Palaniuk (o come diavolo si scrive). Ora, da quello che ho inteso presso questi interlocutori e che mi par di capire anche in queste colonne, è che in entrambi i casi la straordinaria intelligenza di un autore, che come tale non può né dovrebbe essere biasimata, viene fraintesa con una certa applicazione letteraria delle sue originalissime “idee”, e questo che fa di un autore “brillante”. Brilante! E’ questa brillantezza, incarnata da una raffica di super-idee a ogni pagina, che oggi – da qualcuno, o da chi determina il gusto dall’altra parte dell’Atlantico – viene chiamata e propagandata come intelligenza! Ma l’intelligenza non è qualcos’altro? L’intelligenza di Benjamin, di Musil, di Bazlen, non era forse un’altra cosa? Non era forse una questione di profondità, di penetrazione (che è quindi ben altra cosa dal profondismo di cui parla Garufi) più che di virtuosismo intellettuale? Che io sappia, nessuno dei grandi autori che ho appena citato, saggista romanziere o critico nascosto, è mai stato definito “brillante”. Ma tutti e tre erano incredibilmente intelligenti, e tutti e tre sapevano che un autore deve sapere anche lasciar parlare “la pancia”, come si dice, per poi saper ritrovare, al momento opportuno, il controllo del verbo con “la testa”. Invece Wallace e Palaniuk mi sembrano proprio questo: autori incredibilmente brillanti. Nient’altro.
Per questo il dualismo un po’ rigido tra intelligenza e ossessioni, armonia e disarmonia, lucidità e obnubilamento che attraversa molti interventi, a partire dal pezzo di Garufi, che pure rimane per molti aspetti condivisibile, mi sembra essenzialmente incongruo, tarato male.
Rimane il fatto che una Medusa resa presentabile da un passaggio dalla parrucchiera è sì una visione abominevole, ma è anche la metafora di quella letteratura che oggi va per la maggiore, anche presso certi lettori intelligenti, anzi intelligentissimi. Questo è pertanto il mio dubbio finale: che stia cambiando il gusto dominante, e con esso la cognizione dell’intelligenza? E se è così, come potrà sopravvivere la grandezza di Musil? Se oggi siamo arrivati al fraintendimento (Musil=Wallace), a quando l’oblio definitivo dell’intelligenza al servizio dell’opera a favore dell’opera al servizio dell’intelligenza?
(Mi scuso per i refusi, spero che si colga comunque ciò che voglio dire.)
@Stefano
Hai ragione, sarebbe opportuno ridefinire il concetto di intelligenza, se è quello che tu immagini, se è “brillantezza” e basta, certamente la si può chiudere qui.
Se però non è solo questo (la mia non conoscenza di Wallace mi danneggia in questo momento nell’argomentazione), se è estrema conoscenza dei meccanismi, se è consapevolezza portata all’eccesso, non è solo brillantezza, è una forma di intelligenza più critica, e varrebbe la pena ripartire da qui e analizzarla, o definirla meglio.
Ho avuto l’impressione che Garufi, (a parte il discorso su Musil sul quale non lo seguo) parlando di Wallace parlasse anche di altro a noi più vicino, sarei interessata a saperlo.
Se è così, questo discorso sull’intelligenza ha parecchi punti in comune col discorso sulla poesia che si fa qui in coda al post di raos/inglese.
E’ la categoria stessa del contemporaneo (stavo per scrivere postmoderno, poi moderno, ma sono parole troppo connotate e usurate e vorrei andare oltre) che ci sta ponendo dei problemi, mi pare, che evidentemente ci inquieta.
Tu Stefano difendi una forma di “intelligenza complessa” che chiamerei, con la minuscola, genio.
Wallace è malato forse di una “intelligenza semplice” che è l’intelligenza del mentale, della lucidità, della consapevolezza degli strumenti, dello spirito del tempo americano (perché non sono affatto convinta, pur con tutta la colonizzazione che stiamo subendo, che sia anche totalmente nostro), ma poiché il materiale dal quale Garufi è partito è uno scrittore che non conosco non posso che fermarmi qui.
Anch’io, cara Temp, sconto la non conoscenza di Wallace, che mi impedisce di argomentare ulteriormente, ma sono assolutamente d’accordo con te: ciò che ci preoccupa anche al di là dell’autore discusso e perfino dell’argomento in questione (prosa o poesia) è probabilmente il “contemporaneo”, la sua comprensione, che il nostro fiuto confuso subodora anche qui, nel “caso Wallace”.
E anch’io credo, anche se prima ho sorvolato (ma già l’idea bussava), che qui in Europa lo spirito del tempo americano incarnato anche da Wallace incontri, se non altro, un interlocutore problematico, pronto a discutere e confrontarsi, magari in certi casi a entusiasmarsi, ma tutt’altro che prono ai gai dettami del gusto d’oltreoceano. Mi pare del resto che questa discussione, a suo modo e in certi punti, ne sia un buon esempio.
Notevole: si cita un cliché giornalistico piuttosto cretino appiccicato a un autore (wallace è intelligente E QUINDI è un grande scrittore – la seconda parte non viene mai esplicitata perché i giornalisti sono furbi, non cretini), poi si smonta il contenuto del cliché dicendo che manifesta un’idea errata di letteratura (il che non è difficile, essendo un cliché cretino anche per chi l’ha inventato, e pur opponendogli nella dimostrazione una serie di patetiche rifritture romantiche su letteratura autore e linguaggio), infine si pretende di aver stroncato l’autore perché il cliché che gli è stato appiccicato esprime quell’idea cretina ERGO non egli è un grande scrittore. Alla scuola radio elettra di logica per dentisti non avrebbero potuto fare di meglio.
Così “l’intelligenza” dell’opera di wallace e dei suoi rapporti con la letteratura moderna e postmoderna (laddove la questione della consapevolezza critica dell’autore su se stesso non è certo un accidente, il che avrebbe dovuto insospettire l’articolista) sta a zero: andiamo a gusti, come in ogni buona conversazione in società. Ma non importa: alcuni commentatori – altri paiono più avveduti e prudenti – ammettono candidamente di non conoscere wallace e ciò non è di ostacolo alla logorrea, perché il “problema profondo” di cui si discute è un altro: appunto il contenuto del cliché, peraltro cretino fin nelle premesse.
Ovazione.
Siceramente – sicuramente per mia colpa – non mi raccapezzo più nel discorso. Naturalmente in letteratura ogni opinione è legittima, ci mancherebbe altro… cosicché è possibile che qualche lettore guardi a Wallace come all’ennesimo postmoderno brillante, iperconsapevole, grottesco e …pop!!! e ad Agota Kristof, come ad una chiccosa e algida cinica che fa sfoggio di crudezza (o crudeltà) per andare dietro ad un puro virtuosismo (o vezzo…) intellettuale o pseudo-letterario.
Per me l’iperconsapevolezza di Wallace travalica il postmoderno e i tic ad esso annessi perché al fondo si scorgono i sedimenti (le rovine) di una narrazione costretta ad essere quello che è. C’è qualcuno che potrebbe dire in tutta franchezza che La scopa del sistema è solo il brillante esordio di un ventitreenne scaltro, o al fondo non c’è qualcosa di più… ovverosia la sensazione che penna e pella (sì, proprio la pelle dello scrittore) siano diventate una cosa sola??? Non è una domanda retorica… mi interessano davvero delle risposte. Allo stesso modo, mi pare che il “cinismo” della Kristof non possa in alcun modo alla straordinaria scrittura “a mani nude” con la quale essa – inspiegabilmente – riesce a colpire e a strappare in mille pezzi il nostro cuore marmorizzato da tanti bravi artigiani della penna. Mi sbaglio? Scusate per la lunghezza.
Bambi, non posso non aggiungere che ho apprezzato il tuo intervento. Sono d’accordo con te.
Grazie bambi, avevamo proprio bisogno di te: il nostro narcisismo e la nostra logorrea, da sempre ciechi di fronte alla nostra miseria, ci avevano portato alla deriva di un senso frainteso fin dall’inizio, impedendoci di scorgere la verità che tu con tanta sapienza ci servi su un piatto di ferrea logica, tra incisioni di fiera spocchia e tintinii di nobile risentimento. Chapeau
stefano, l’intelligenza non serve in letteratura, ma non è che per questo si deve fare un monumento alla stupidità. e non attribuire a me tutti i tuoi sentimenti, guarda che si vede.
Stiamo sulla questione, bambi: ripeto, non conosco Wallace, ma se lo leggessi e lo trovassi di valore sarei ben contento di condividere con altri questa mia impressione. Finché questo non succede, nulla mi impedisce di accodarmi a una discussione nata intorno a un cliché per contribuire a cavarne fuori un senso migliore, o un senso e basta, da condividere possibilmente con i medesimi altri.
E comunque la pensiamo diversamente, perché secondo me l’intelligenza in letteratura serve eccome – purché non ne si abusi, altrimenti si approda a quel paradosso di cui parlava il mio amatissimo Gombrowicz: “Più si è intelligenti, più si è stupidi”.
Io a volte mi ci riconosco mio malgrado, non so tu.
@bambi,
poiché i commentatori prima di te erano sette, perché non fare i nomi, in modo che possano risponderti o magari precisare?
E.C.: “non se ne abusi”
Ho riletto.
C’è qualcosa di sgradevolmente personale nell’intervento di @Bambi, non so se rivolto anche a me o principalmente a me o a altri. Rispondo per la parte che eventualmente mi riguarda.
Il testo di Garufi, per quanto incentrato su Wallace, mette in campo un discorso che riguarda ” l’intelligenza” dello scrittore in generale e la narrativa contemporanea.
Non posso dire che parla a nuora perché suocera intenda, non sono Garufi, ma io, essendo suocera, mi sono sentita legittimata a prendere spunto dal suo intervento, non per parlare del cliché su Wallace, ma del discorso che attraversa da molti decenni la letteratura europea e che evidentemente interessa ad alcuni di noi.
Wallace non è brillante.
Quasi mai.
Il libro letto da temperanza è forse l’unico brillante. Forse.
Wallace è complicato, coinvolgente, ostico, folgorante, commovente, noioso, vanitoso, snob, eccetera.
Wallace ha scritto, per esempio, alcune delle righe più profonde (non “intelligenti”) che abbia letto sull’attentato alle Twin Towers.
È uno scrittore che non si mette completamente al servizio delle sue pagine, cioè non sempre.
Spesso ne schizza fuori e danza e si pavoneggia.
Altre volte si imbarca in imprese pazzesche, che magari parzialmente gli riescono.
Dire che è tropo intelligente per essere un “grande” scrittore è un po’ troppo semplice.
E sopratutto la categoria “scrittore” nel senso di narratore, forse gli sta stretta, mentre la categoria “grande” mi fa sorridere, perché è antica e forse si applica solo alla scrittura che arriva fino alla prima metà del novecento.
Dopo non serve più.
Quello che mi piace in Wallace, a parte la capacità di essere a volte straordinariamente intenso (e a volte straordinariamente palloso, supponente, irritante), è il suo raccogliere la sfida di una narrare anti-riduzionista, che si porta appresso, oltre a una evidente necessità di scrivere su tutto, l’idea che una vicenda, qualsiasi vicenda, è multi-dimensionale.
Sono convinto che anche il più piccolo evento può essere narrato all’infinito, cioè con un numero infinito di pagine, di strati su strati su strati, fino a ricomprendere l’intero universo e con esso tutte le ipotesi sulla sua nascita e le vite degli ipotizzatori i loro amori, eccetera.
In questo senso (se questo è il senso di Wallace) Wallace mi interessa, apre varchi, spiragli, vale la pena di provare a leggerlo.
Sopratutto varrebbe la pena di non perdere tempo a provare a stroncarlo: è molto robusto e se gli affibbi l’etichetta dell’”intelligente”, ti rispunta fuori da un’altra parte, magari come “lirico”.
Ma che bel commento, Tash, e convincente, da uno che Wallace sembra averlo letto davvero.
Se non temessi una delle tue repliche indisponenti, dietro alle quali camuffi spesso la tua sensibilità, ti ringrazierei.
sto sperimentando sulla mia pelle “Infinite Jest”, il tema dell'”intelligenza” è secondo me il più azzeccato della critica mossa in questo intervento, assieme a quello del libro “esorcizzato”, anche se per quest’aggettivo aspetto di essere arrivato fino al termine del libro. Credo che una tensione alla “verbosità”, al fare in modo che tutto-sia-oggetto-di-narrazione-possibile, ogni reale, ogni quid di realtà sia in maniera inequivocabilmente descrivibile, ecco, ciò è profondamente legato alla letteratura americana. Un capolavoro ‘malato’ alla radice, come può essere “L’uomo senza qualità” è un libro Europeo, o come ha scritto Bazlen “troppo austriaco”. Una domanda plausibile, effetto collaterale all’intervento postato, può essere questa: la categoria del “troppo” deve essere connaturata ad un Hauptwerk (per dirla in tedesco) che dir si voglia? Lo stesso effetto di cui ha scritto Christian Raimo hanno fatto a me la lettura delle ultime cento pagine della prima parte dei “Canti del caos”.
Bel commento, sì.
A questo punto, a parte tutto, mi toccherà leggere Wallace.
Con cosa incomincio?
Uno per ora.
Grazie
Io direi “Brevi interviste con uomini schifosi”, Einaudi Stile Libero, 2000.
E’ una summa di tutto il suo peggio (che è il suo meglio, e viceversa).
Tash è il più grande critico letterario (sconosciuto) oggi operante in Italia. ;-)
Wallace non è convincente, stimo, congetturo. In italiano non rende, qualunque sia la grandezza che gli si attribuisce. Bisognerebbe scendere nel dettaglio, sentire il parere di buoni lettori anglofoni. Piuttosto, vediamo il prossimo Pynchon… qualcuno ne sa niente? Si diceva parlasse di un matematico, se non vado errato, ambientato in Europa, in Germania, forse.
P.s
Il paralogismo è comunque esemplare. Io ovo ancora.
Ah, l’ho letto brevi interviste con uomini schifosi, dunque ne ho letti due.
Ma proprio non me lo ricordo.
Agota Kristof invece perfettamente.
Hauptwerk?
Innanzitutto mi fa piacere che il pezzo abbia suscitato un’appassionata discussione, è quello che mi auguro ogni volta che scrivo. Temperanza e Massimiliano sono quelli che hanno colto le intenzioni meno palesi del testo; cioè l’usare Wallace come pretesto per parlare d’altro, in sostanza una critica al mito dell’intelligenza. Ma, paradossalmente, ha in parte colto nel segno pure il sarcastico Bambi, perché le mie riserve erano rivolte soprattutto alla vulgata critica dell’americano. Definirlo cliché giornalistico sarebbe eccessivo e ingeneroso, dato che faccio riferimento ai testi degli interpreti più accreditati di Wallace, dove, a differenza di quel che pensa Tashtego, gli aggettivi ricorrenti sono proprio “intelligente”, “brillante”, “acuto”, vale a dire nell’accezione di senso che io gli attribuivo; mentre per i sostantivi (riguardo a Infinite Jest ma non solo) si affaccia spesso “capolavoro”. So bene che esistono molte forme di intelligenza (emotiva, narrativa, speculativa, associativa ecc), ma a cosa mi riferissi era abbastanza evidente. Gli aggettivi sopracitati sono una costante dei saggi di gente spettabilissima come Edoardo Nesi, Martina Testa, Mattia Carratello ed altri, che a Wallace hanno dedicato analisi approfondite e argomentate, che certo non si limitano a sviluppare l’idea di una sua intelligenza superiore, ma che incontestabilmente su questo concetto tornano con un’insistenza sospetta, e spesso associandolo alla sua “difficoltà”, quasi istigando nei suoi estimatori il pregiudizio, molto lusinghiero, secondo cui apprezzare Wallace equivale in qualche modo ad appartenere a una casta di eletti. Ora, parrà strano, e forse chiarirà la natura un po’ provocatoria del pezzo, ma io sono un estimatore di Wallace. Lo considero uno dei migliori talenti oggi in circolazione, e questo giudizio lo scrissi e fu pubblicato diversi anni fa. Penso, per esempio, che il suo Infinite Jest, Vergogna di Coetzee e Le particelle elementari di Houellebecq rappresentino il meglio della letteratura degli ultimi dieci anni; e se dovessi segnalare qualcosa dell’americano a chi volesse avvicinarvisi per la prima volta consiglierei la lettura del folgorante racconto sul custode dei cessi del Grand Hotel, incluso in Brevi interviste a uomini schifosi. Con Christian, che so suo lettore attento e profondo, condivido anche l’ammirazione per il saggio E unibus pluram, raccolto in Tennis, tv, trigonometria, tornado. Proprio qui, Wallace cita un apologo formidabile di De Lillo tratto da Rumore bianco. Parlo de il fienile più fotografato d’America, in cui i turisti fanno “fotografie del fare fotografie”, finendo in pratica per dare una visione cartolinesca della realtà. Ecco, forse la mia insistenza su quel tipo di propaganda enfatica (“Wallace scrittore intelligente”), ai limiti del culto religioso, voleva denunciare appunto questo: e cioè che “vederlo”, considerarlo come un luogo di incantamento intellettuale, significa in sostanza occultarlo, prima ancora che banalizzarlo. Wallace non può essere giudicato come “intelligente”, e i suoi libri non vanno giudicati come “capolavori”, perché queste sono le due parole proibite, in queste parole si riassume il divieto di scoprirlo. Se l’aggettivo “intelligente” per Wallace è pertinente, questo significa che l’americano è uno scrittore che si identifica totalmente, ossia si esaurisce, nella sua “intelligenza”; oppure può voler dire che l’interpretazione intellettuale (nel senso di cerebrale) è stata imposta su un autore estremamente significante affinché quell’autore non inquietasse, non fosse altro che materia di colto svagamento. In entrambi i casi, a mio avviso, così facendo lo si depotenzia, lo si disinnesca, lo si priva di spessore. Stesso discorso si può fare per il concetto di “capolavoro”, che è tirannico e odioso perché, come diceva Manganelli, ci vuole trasformare in dei punti esclamativi, privandoci del necessario spirito critico. Un capolavoro non si discute, si può solo ammirare, è un dogma di fede. Io, forse perché sono agnostico, preferisco fare come Reger, il protagonista di Antichi Maestri di Thomas Bernhard, che si reca tutti i giorni per trent’anni alla Pinacoteca di Vienna per cercare i difetti dei capolavori.
Scusate la prolissità.
Per ora sola una piccola cosa, sono totalmente d’accordo sulla salutare messa al bando della parola “capolavoro” e da ogni superlativo nei giudizi che diamo delle opere, messa al bando alla quale anch’io, nel mio piccolo, cerco di contribuire, nelle chiacchiere che faccio qua e là.
Su Wallace, di cui ho scoperto di aver letto senza frutto due libri, devo riflettere perché sento che c’è una mia profonda estraneità, incapacità di vedere, chiusura. Non so se è un mio limite, probabile, certamente è un essere altrove.
Buona giornata
Wallace a parte, faccio fatica a capire questa cosa dell’intelligenza che quando è troppa rovina la scrittura.
Direi che se parlassimo di esibizione intellettiva e/o sapienziale, di brillantezza affettata, di incongrua sovrapposizione al testo narrativo di uno o più sovra-testi di commento, di strizzate d’occhio per i colti (accade spessissimo nel cinema che si lasci in bella vista la “chicca” per il cinefilo), eccetera, forse sarei d’accordo.
Altrimenti seguito a non capire cosa possa significare questa cosa della troppa intelligenza.
Da notare che Wallace ha, di volta in volta, tutti i difetti su-elencati – ha scritto persino un trattato sul concetto di infinito, mi pare, subito stroncato da noi dai critici letterari, da un lato, e dai matematici dall’altro: “si occupi di cose che conosce, il ragazzo” – e tuttavia per me va bene lo stesso.
Secondo me Wallace non vuole farsi intrappolare nel recinto del narratore, perché pensa che scrivere sia scrivere e non necessariamente e solamente narrare: forse l’identificazione scrittura-narrazione è forzata oppure obsoleta, analogamente a come, da molto tempo, lo è quella tra pittura e figurazione.
Aggiungo, per Temperanza, che dimenticare un libro, cioè dimenticare cosa c’è scritto, la vicenda, persino il titolo, non significa che quel libro non si possa lo stesso essere aperto un varco nel tuo personale tessuto “interiore”.
garufi, mi spieghi meglio la storia del fienile più fotografato d’america e chi ha scritto che wallace è uno scrittori difficile, per pochi eletti. grazie
@Tash
Hai ragione, ma mi turba che la cosa sfugga al mio controllo.
E credo che ci sia altro sotto che devo capire
Il brano su “il fienile più fotografato d’America” si trova in “Rumore bianco” di Don DeLillo, ed è citato da Wallace nel saggio “E unibus pluram” come esempio della metastasi del guardare. In sintesi, si tratta di un’attrazione turistica situata nei dintorni delle campagne vicino a Farmington. Il fienile è pubblicizzato da molte insegne e tutti vi si recano per fotografarlo. Murray, che è uno studioso della cultura pop, si apposta su una collinetta a guardare la gente che fa le foto al fienile, e dice che “nessuno vede il fienile, perché una volta che hanno visto le insegne diventa impossibile vederlo”. E termina sentenziando che “fanno fotografie del fare fotografie”. In realtà lanche lui è incapace di trascendere il proprio ruolo di spettatore, perché il luogo è ipotecato semanticamente e lui stesso fa parte della scena, guarda gli altri che guardano il fienile. Per quanto riguarda il termine “scrittore difficile” sono in tanti a usarlo. Per esempio l’incipit del saggio introduttivo di Martina Testa a “Verso Occidente l’impero dirige il suo corso”, recita testualmente: “David Foster Wallace è uno scrittore difficile. Ed è anche un grande, un grandissimo scrittore” (evidentemente categorie ancora in uso). Chi si è spinto ancora più in là è Wyatt Mason, che, recensendo “Oblivion” di Wallace sulla London Review of books, concluse il suo intervento scrivendo: “Wallace has the right to write a great book that no one can read except people like him. I flatter myself to think that I am one of them”. Insomma, è un genere di lusinghe di cui io faccio volentieri a meno. Per usare una metafora di tipo spaziale, a Wallace hanno appiccicato un’etichetta, un’insegna tipo “lo scrittore più intelligente d’America”. Prima i suoi libri erano uno splendido locale dove andavo spesso e volentieri, ora questo locale è frequentato da gente che non mi piace e all’entrata hanno messo il buttafuori che seleziona gli avventori. E io non amo i locali con i buttafuori.
Wallace è uno dei pochissimi autori di cui abbia comprato un libro non appena l’ho visto per il solo fatto che l’aveva scritto lui (Oblio, restandone puntualmente deluso). Avevo letto Girl with curoius hair (in inglese) e Brevi interviste con uomini schifosi (ho sempre rifiutato the infinite jest perché ho una prevenzione verso i libri così massicci). Le Brevi interviste sono un libro che tuttora apprezzo molto. Ciononostante, mi sfugge cosa ci sia di tanto intelligente in Wallace. Se non mi ricordo male la parola significa “leggere tra le righe”. Se c’è una cosa che secondo me Wallace non fa è leggere tra le righe. Lui, piuttosto, mi pare soprattutto leggere TUTTE le righe. Specie quelle scritte in piccolo. Anzi, meglio se scritte in “piccolissimo”. Una volta lessi in un saggio che i paranoici, per la loro malattia, molto spesso si accorgono EFFETTIVAMENTE di una serie di segnali che tutti noi lanciamo col nostro linguaggio corporeo; ci riescono perché hanno smesso i fare una cosa che tutti impariamo fin da piccoli: ignorare quei segnali. Il paranoico, quindi, guarda quello che altri sistematicamente si rifiutano di vedere pur avendolo davanti agli occhi. Ecco, Wallace secondo me fa proprio questo. Non mi è praticamente mai capitato di leggere qualche sua considerazione e dire “non ci avevo mai pensato”. Spessissimo ho invece pensato “cavolo, è proprio così”. Insomma, attraverso Wallace non si “conosce”, ma si “riconosce”. Quello che lui fa (e non sto dicendo che è poco) è riuscire a tenere la luce accesa su TUTTI i particolari. Ma siccome l’obiettività non è di questo mondo, anche la sua luce, per quanto potente, viene da una direzione e va verso un’altra. E per come pare a me, il suo punto di illuminazione è un moralismo feroce. Tanto più feroce in quanto non dogmatico, cioè non rispondente a un principio definito, ma a un “non dovrebbe essere così” astratto. La sua descrizione della realtà è la descrizione della ripugnanza della realtà. E l’unico buon motivo per metterla continuamente in evidenza, la parte più ripugnante della realtà, è che non la si tolleri. Cioè che si desidererebbe, in fondo, un mondo senza ripugnanza, senza male. Il che è un punto di vista profondamente moralistico (lo so bene perché lo sono anche io, per questo certe cose mi son piaciute così tanto). In Oblio la faccenda è ancor più evidente. Tutti i personaggi ispirano ripugnanza. Tranne forse il suicida, il quale peraltro NON ESISTE (neanche nel racconto) poiché quella non è la storia di un personaggio, ma la storia di Wallace che, sulla base di un inizio (una foto del liceo) e di una fine (la morte per suicidio) del personaggio, ne “vede” (con quel meccanismo così tipico del pensiero, e che lui ci fa “riconoscere” così bene) una plausibile storia. E non a caso, credo, proprio quel racconto si conclude con un invito dell’autore a se stesso a smetterla (“non una parola di più”).
Tutti i personaggi, dicevo, ispirano ripugnanza, tutti sono miserabili. In ogni cosa c’è del marcio. Il che, come dire, non è precisamente una gran notizia.
Poi, indubbiamente lui riesce a renderlo in maniera spesso notevolissima (ma a volte, sebbene meno spesso, pure decisamente fastidiosa, autoindulgente e programmativamente difficile… non complessa, difficile e basta). C’uè un passaggio per me memorabile nelle Brevi interviste, in cui un personaggio fa capire all’alto di essersi scopato una tipa (di questo tratta il racconto, dei diversi modi di scopearsi delle tipe) senza dire nemmeno una parola. Fantastico. Il che, per uno scrittore, mi pare IL risultato.
Acuto e istruttivo, Semtex. Dopo i commenti di Tashtego sullo stesso argomento, è la seconda volta in 72 ore che qualcuno mi convince a prendere finalmente in mano (e leggere) un libro di Wallace.
“E unibus pluram,” riflette Ingersoll.
In Wallace io leggo la disperazione dell’intelligenza.
Tutto e di +, Una cosa divertente che non farò mai più, Infinite Jest, Verso occidente… sono tutti testi in cui l’intelligenza è messa in scacco, soccombe al suo stesso potere di astrazione. W. capisce, ma non comprende, e soffre nel non poterne *venir fuori*. Bene, giochiamo al meglio la citazione, l’abissalità, il rimando. A che serve? Restiamo pezzi di merda, sofferenti d’ulcera o bavosi masticatori di tabacco.
Tante volte, dopo averti titillato con narrazioni emozionanti, Wallace (scusate, non trovo proprio un’altra parola) ti smerda il finale. Potrebbe non farlo. E invece no, fa apposta.
– Guardate, posso sollevarmi in aria impugnando il mio ciuffo di capelli e tendendo il braccio… – sembrano dire saggi e racconti. Beh, ma no. Tutta un’illusione, lo sapete. Erudizione, accanimento, invenzione, creazione di imperi, ascese nel mito… ma si resta lì, una ruota impantanata che gira a vuoto.
La cosa per noi comuni mortali è assolutamente consolatoria: come vedere il talento del compagno prodigio al liceo, studioso, sportivo, desiderato da tutte ma insoddisfatto. Nell’ammirazione per il suo genio, si costruiva la certezza tranquilla di non dover competere con lui, che tanto alla fine avrebbe preferito essere normale come tutti gli altri…
Perché, con tutta l’intelligenza non si comprende tutto, e non se ne viene fuori. Solo questo, alla fine, ci fa capire Wallace.
Forse Foster Wallace bisognerebbe leggerselo davvero.
Fare un percorso (è un autore complesso, che si crede?).
Si inizi con il leggere Infinite Jest e poi Brevi interviste e poi Verso Occidente e poi Oblio (gli ultimi due racconti sono perfetti, ma solo alla fine di questo percorso).
Quello che traspare non è la componente “guarda mamma, senza mani” (leggi: come sono fico ed intelligente), ma Dolore.
Il DFW saggista: ok, lì è intelligenza e zero narrativa (è un saggio, infatti).
Paolo S ha scritto “con tutta l’intelligenza non si comprende tutto, e non se ne viene fuori. Solo questo, alla fine, ci fa capire Wallace”. E Fiorani, dopo il percorso di lettura suggerito, arriva a dire che “Quello che traspare non è la componente … “come sono fico ed intelligente”, ma Dolore, il che mi pare la stessa cosa.
Per quel che vale, sono perfettamente d’accordo con entrambi. Il problema è che se, appunto, fosse tutto qui, non sarebbe una gran cosa. Mi verrebbe da dire che tutti gli scrittori, da sempre, non fanno che questo. Wallace lo fa bene, con grande acutezza (ecco, direi acutezza più che intelligenza), con grande maestria e con qualche (inevitabile, credo) vuoto compiacimenti tipico di un po’ tutti i virtuosi. Mi è rimasto impresso un passaggio tra tanti. In uno dei racconti di Oblio sta descrivendo una tizia in palestra. Una che è qualcosa tipo una capo-stagista bella intelligente capace competente votata al più sfolgorante successo eccetera… e poi, all’improvviso: parentesi … in quel momento le restavano due settimane di vita… chiusa parentesi. Che uno sul momento resta effettivamente “taken aback”, ma una frazione di secondo dopo si sente esattamente nella parte dell’indigeno cui il tizio bianco dice “tu dare me tua terra, io fare te grandissimo dono di specchietto luccicante”. Che però siccome uno qualche specchietto in vita sua l’ha visto, la terra se la tiene. E questo gusto per il capovolgimento (o dovrei dire per lo smerdamento) coatto alla fine è altrettanto noioso quanto l’obbligo del lieto fine.
intanto, a leggervi, vedo che l’intelligenza c’è anche qui.
e non vi danneggia affatto.
@stefano
non cominciare con Oblio, però.
Sì. Però non è una sorpesa che la capo stagista morirà dopo due settimane. è una cosa che sappiamo sin dall’inizio del racconto: l’ambientazione è quella delle Torri Gemelle (adesso non ricordo esattamente il mese) a ridosso dell’undici settembre 2001.
DWF, in questo racconto (Il canale del dolore, mi sembra), ci fa vedere questa società al collasso poco prima dell’attentato. Una società che se non fosse crollata per via dell’attentato, sarebbe comunque collassata sotto il suo stesso peso: è satura di marketig, pubblicisti, carrieristi tutti belli ed intelligenti ma avvitati su se stessi. è una critica alla società moderna americana (che noi dovremmo tenere a mente perché è lì che noi ci stiamo dirigendo, vero Silvio Berlusconi?).
E qui sta l’intelligenza di Foster Wallace. è vero.
Ma qui sta la bellezza/Dolore (in questo racconto):
Il personaggio della donna obesa.
Il personaggio del cronista con il suo tic.
E (chi lo ha letto, capirà), la merda.
Ciao Tash. Tu non lo sai, ma noi ci siamo conosciuti (con i nostri nomi veri, intendo).
Fiorani… tu (lei?… se ci incontrassimo al lavoro ci daremmo del lei, ma qui in fondo è bello lasciar perdere) dici bene… lo si sapeva dall’inzio. E se lo si sapeva, che me lo ridice a fare in quel modo se non per fare una bella battuta a effetto? Per volermi calare precisamente immediatamente (senza mediazioni) nell’incombente dura realtà del tracollo? Boh… io ci vedo lo specchietto.
Dopodiché mi fermo e mi rendo conto che io sto parlando d’altro. Io in fondo non son d’accordo con la tesi. “La società al collasso prima dell’attentato”. Non ci credo a questa cosa, come non ho mai creduto a quello che ha detto e scritto chiunque abbia cercato di “fermare il tempo”. La civiltà è sempre sull’orlo del collasso. O, al contrario, il collasso non esiste. Infatti quella socità è ancora lì. Un po’ diversa dopo le torri? Certo, ci mancherebbe. Ma è ancora lì. E ci scommetto che quelli che hanno vissuto in diretta il crollo di qualunque impero del passato non l’hanno vissuto così, ma come una trasformazione continua da qualcosa a qualcos’altro. Solo fissando arbitrariamente dei paletti si riesce a determinare degli stacchi. Ma noi non viviamo a stacchi, per quanto ravvicinati.
Si prende un momento, lo si fotografa, si ottiene un bell’effetto che ci fa pensare. Ma quel momento non è il tempo. E’ un pezzo di tempo e quindi, necessariamente, è falso.
Wallace mi fa pensare alla pittura iperrealista. Un quadro che riproduce in maniera assurdamente minuziosa e dettagliata un pezzo di realtà. Ed è bello proprio perché è un falso perfetto. Però è un falso.
Le sue sono tutte splendide istantanee. Sebbene prese tutte dalla stessa angolazione. Il basso.
Ciao Semtex (assolutamente del tu).
Che la capo stagista morirà ci può stare, ma non è ovvio, non è una ripetizione: non tutti quelli che lavoravano nelle Torri sono poi morti nell’attentato. Lei morirà – un altro si salverà (magari la collega che corre con lei durante l’allenamento).
Poi, sì. Hai ragione. Quella della società al collasso è un immagine semplicistica, ma mia e non anche di Foster Wallace.
@fiorani
non so.
sul tuo blog vedo che vendi pannoloni.
sono preoccupato.
Be’, in effetti uno dei due obbietivi del (mio) blog dovrebbe essere proprio questo: destare preoccupazione.
eccerto, come se quelle che già abbiamo… eccetera.
FIORANI, per come la vedo io, secondo Foster Wallace la società è GIA’ collassata :-).. (a tal proposito, hai per caso pannoloni formato società? … e, già che ci siamo, c’è un bel libro che si chiama “Collasso, come le società selgono di vivere o morire” che consiglio caldamente – come, dello stesso autore, consiglio Armi acciaio e malattie, breve storia del mondo negli ultimi 15mila anni)
TATSH: mi devo leggere bene questa faccenda del 68. Io ci sono nato nel 68.
Ragazzi, non facciamo i fichi con i pannoloni ché prima o poi bisognerà scenderci a patti.
FIORANI.. io credo nelle magnifiche sorti e progressive. Per quando toccheranno a me, i pannoloni, spero abbiano inventato di meglio (Da Wallace ai pannoloni… credo che Wallace stesso non potrebbe chiedere di meglio!)
Allora siamo in due a sperarlo SEMTEX.
(Spero non ci tocchino i Pannoloni per Adulti Depend.)
diamond ha scritto un libro bello, un libro brutto e un libro che non ho ancora letto, che è appunto Collasso.
il libro bello è quello che dici tu, cioè Armi, acciaio, ecc., mentre il brutto è Il terzo scimpanzè.
diamond forse ha scritto anche altri libri.
quanto al collasso, non so se sia già avvenuto, ma si tratterebbe di mettersi prima d’accordo sul significato del termine.
il collasso dell’URSS ha determinato il collasso della sinistra in occidente, per esempio, e le conseguenze di ciò si vedono bene nel collasso di ogni sentire solidale, nella guerra in afganistan e in irak, eccetera.
ma il vero COLLASSO sarà energetico-ambientale e arriverà nei prossimi due o tre decenni.
pare.
allora saranno cazzi per tutti, se nessuno sarà stato capace, nel frattempo, di inventarsi una nuova sinistra mondiale.
le cose quando non vanno bene non possono essere lasciate nelle mani dei padroni, perché il capitale è capace di gestire soltanto lo sviluppo, non il suo contrario.
Rilancio sulla questione del “mancare l’infinito”.
In questa pista di lettura, per me è fondamentale il saggio di storia della matemetica di DFW. Ma allo stesso modo lo è la “mise en abyme” (ma si scrive così? E si capisce così), e la lettura di livelli di livelli di livelli di livelli a cui ci costringe la scrittura di Wallace. Si sprofonda (e forse si collassa), oppure ci si astrae, ma senza elevarsi. Non ho sottomano il finale di Una cosa divertente, ma lì, mi pare, lui salda il finale con un cortocircuito che è folgorazione come la intende l’elettricista, ma non l’artista.
Dolore: sì, e anche disperazione, abbandono della speranza. Giro sull’ottovolante, urlo, credo di divertirmi. Lo scrivo. Scrivo della sensazione che ne ho. Scrivo della capacità che ho di capire come lo intendo. Della società che… E non ne esco fuori.
E’ questo che non ne fa un garrulo brillante, anche se sa farlo, quando vuole. Non ammirate il suo camaleontismo stilistico? Lui scrive Infinite Jest E un racconto di 2 pagine alla Carver (in LA ragazza coi capelli strani) con la stessa capacità. Cosa vuol dire, se non “so andare oltre lo stile, andate oltre lo stile”? E per dire, anche: oltre lo stile non c’è niente, se non il riconoscere gli stili. Quindi sbava, sgrana, sfuoca: si concede ogni tremito possibile della penna, per un sentimento che prova E CONTEMPORANEAMENTE sa di provare, col che forse rimproverandosi (ma allora è un romantico?) la mancata totale adesione ad esso.
Devo proprio dire che lo amo?
Che wallace piaccia o meno, mi sembra questione irrilevante.
Ma scrivere che i suoi libri “esorcizzano i demoni. Non inquietano, non fanno male, non cozzano con la pietra, la blandiscono solamente” mi sembra davvero fuori luogo. Significa non aver seguito nemmeno per un po’ il ritmo e la voce dello scrittore, non avergli fatto nessun credito, non averlo seguito davvero, come ogni storia esigerebbe. E ancor di più mi sembra fuori luogo se dopo qualche riga si citano esempi come Bernahard o Magris, che sono quanto di più estraneo alla poetica disperata di Wallace.
è vero Infinit è un’opera intelligente, ma è anche piena di paura, terrore, insicurezza. I suoi giri di frase alcune volte sono guarda-mamma-senza manismi (Tv, tennis, trigonometria…), ma quando funzionano sono delle spinte potentissime che ti colpiscono come una freccia al cuore. è vero Wallace è presente in Verso occidente…, ma è il protagonista. Il formidabile tiratore con l’arco, precisissimo e terrorizzato da un’arma che deve imparare a maneggaire. Ma non è forse proprio qui la più commovente e sorprendente, onesta e sincera, rinuncia ai trucchi da quattro soldi. Ciò che fa lo scrittore grande non sta forse nel non imporre mai le sue ossessioni direttamente ma nel lasciare che si mostrino a tratti e commuovano quando meno ce lo aspetteremmo?
La circolarità delle frasi di Bernahrd non è paragoniabile alla complessità ricercata e consapevole di Wallace, semplicemente perchè è altra cosa.
E poi forse è stata dimenticata una cosa importante. Wallace è uno scrittore divertente, che si diverte a scrivere.
Gardner diceva che “lo scrittore e colui per cui non esiste niente di più gioioso che scrivere”.
Deleuze scriveva che un grande scrittore sa “infondere una gioia sempre più grande in ciò che tocca, un riso sempre più manifesto, si èaffascinati da un riso incontenibile”
Forse dovremmo dargli ascolto e provare a seguire Wallace almeno per un po’, prima di demonizzarlo, banalizzarlo, (idolatrarlo)
Discussione interessantissima. Da tempo non mi capitava di leggerne. Una cosa che mi pare non sia stata ancora sottolineata:il CONTRASTO (mi riferisco soprattutto alle narrazioni lunghe… anche mooolto lunghe di Wallace). Ebbene, a me pare una notevole forza della sua scrittura derivi proprio dalla sensazione di contrasto che riesce a infondere nel lettore; mi spiego: leggiamo i suoi romanzi e diciamo fra di noi “ancora, mamma, ancora” come dei bambini. Si diventa come bambini un po’ scemi che, capito il meccanismo, scelgono scientemente di ignorarlo e di farsi abbindolare… Non si tratta, semplicemente, di “sospensione dell’incredulità” dal momento che noi lettori non crediamo a ciò che dice l’autore ma crediamo ciecamente alla sua NECESSITA’ di dirlo (per parafrasare Barthes). E ci crediamo perché la scrittura di Wallace (al di là delle strizzatine d’occhio, dell’ironia, del grottesco) è soprattutto una scrittura MATERNA, una scrittura dell’ “attenzione” e del “prendersi cura”. In questo sta la sua contraddizione più seducente… inglobare le armi del post-moderno per ritrovare una reazione ingenua e – quindi – sentimentale. Wallace vuole essere il più tradizionale dei narratori sfruttando tutte le frecce della tradizione (post-modernismo compreso): è per questo che egli crea dibattito. Il suo lavoro non è per nulla passibile di catalogazione nel continuum della letteratura… il suo è piuttosto un ritorno a ciò che non è più… auto-da-fé letterario… un po’ quello che teorizzava in un saggio Tennis, tv e che tanti gli hanno rimproverato di disattendere. Ma se tutte le “restaurazioni” sono così… Dio benedica Napoleone III.
” (…) Il postmodern cerca di porsi all’altezza dell’industrialismo giunto alla fase di intrusione e sussunzione del linguaggio nella forma-merce, un piano che le avanguardie, ancora debitrici di un residuo di naturalismo inconscio non tanto nel contenuto, consapevolmente costruttivista, ma nel gesto, ancora alla ricerca dell’autentico e del superamento, non potevano attingere (lo scacco del postmodern avviene dunque esattamente su questo terreno!).
Nella fase attuale, successiva al postmodern e in modo più fluido e consapevole rispetto a quei maestri, occorre intendere il limite non più in senso metafisico o storico, o metaletterario: non è l’insensatezza della vita, l’impossibilità della felicità, lo scacco storico, il problema del senso dell’esistenza singolare e così via (temi propri delle ideologie otto-novecentesche che si muovono ancora dentro un paradigma filosofico umanistico e para-cartesiano), ma non è nemmeno semplicemente il limite continuamente percorribile tra forma e contenuto dell’opera d’arte come prodotto/merce e dell’autore come altro da sé (postmodern).
L’asse portante tende a diventare piuttosto “il senso del senso”, e il tema del “limite” prende la forma del tracciato conflittuale tra proliferazione-produzione del senso e sottomissione-coercizione-implosione del senso. L’intreccio tra verticalità e orizzontalità del significato (dimensione sorgivo-genetico-creativa e dimensione plurale-discorsiva-articolata) viene percorso nelle sue declinazioni empiriche, nei suoi modi creativi o depressivi, senza più riguardo a una centralità dell’io gioente o sofferente che è denunciata come solo prospettica (“centralità costituita dal fatto di essere in realtà semplicemente il centro esatto di tutte le esperienze che hai vissuto nell’intero corso dei tuoi anni di vita cosciente”, DFW, Oblio), quindi con un approccio post-psicologico, che non vuol dire oggettivistico dato che entrambi i lati sono decostruiti.
Ciò che differenzia questa leva dal postmodernismo è il consumarsi dell’approccio polemico verso il moderno, che nei padri rifluiva spesso in scelte retoriche quasi rovesciate, quindi segnate da una certa rigidità formale. Se vogliamo, l’approccio attuale recupera il meglio dell’una e dell’altra prospettiva, muovendosi con estrema libertà tra le forme ma senza feticizzarle in enti.
In sintesi: nella letteratura della crisi il soggetto è ancora una sacca, è autocentrato, il limite è al suo esterno, il compito – tendenzialmente impossibile – è il possesso dell’oggetto, l’azione è il precipizio dell’io come rimbalzo psicologico o metafisico. Il limite è l’invalicabile nulla.
Già nelle avanguardie storiche si pone il problema del rovesciameno di prospettiva, operato però volontaristicamente (nella struttura o nei flussi) attraverso la proto-tematizzazione della retorica artistica.
Proprio questa tematizzazione è il grimaldello usato dal postmoderno. In esso l’io appare come limite interno: l’io viene da fuori, l’io è gli altri, non come sconfitta, ma ontologicamente, quindi come produzione. È una fessura di transito, una porta.
Nella fase attuale l’ipertrofia retorica regredisce, dando luogo a una sorta di neosoggettivismo non inteso però come nuova centralità dell’io-sacca, ma come esplorazione del transito onnidirezionale e sua proliferazione (DFW, Infinite jest, 112 ss). Lo sguardo sullo “scacco” assume quindi una connotazione radicalmente diversa da quello della crisi, non ponendosi più in termini spiritualisti (nostalgia dell’uno impossibile) né dando luogo ai conseguenti scivolamenti moralistici o sentimentali. Allo stesso modo non v’è più l’intento polemico o retorico del postmoderno: la metaletteratura riprecipita a funzione pienamente metaforica e stilistica, è la base rotante su cui si costruisce. (…) ”
Tratto da: Davide Murasso, La questione del limite in letteratura e in altre scienze, PBE, 2009, pp. 691-692
TASH… Diamond, ecco come si chiama.. grazie. Beh, io Collasso l’ho appena cominciato (l’ha comprato la mia compagna, che però protesta che io compro i libri e poi mi leggo i suoi, allora ne pizzico qualche pagina quando lei non guarda), ma direi che si intende il termine Collasso nel suo significato più istintivo. Crollo, fine, dissoluzione. Basta leggere il sottotitolo: come le civiltà scelgono di vivere o morire. E si guarda il collasso nell’ottica della singola società – almeno mi pare per ora – senza badare ad eventuali ripercussioni. Al contrario, si compie una comparazione tra società diverse che hanno seguito, pur nelle diversità apparenti, strade simili.
Quando poi parli di altre cose come “il collasso di ogni sentire solidale” io mi fermo. Non credo che queste cose, sinceramente. Soprattutto non credo agli spartiacque: prima c’era il sentire, poi non c’è stato più.
Quanto all’energia, infine.. è il mio campo lavorativo, quindi lo lascio perdere.
Di “Collasso” sto apprezzando la grandissima qualità di prendere un fatto e mostrarti l’enorme quantità di ragioni intrecciate che lo motivano; ragioni a volte provenienti da molto lontano, a volte decisamente controintuitive (che i peggiori incendi abbiano tra le loro cause fondamentali (non certo l’unica) le conseguenze di anni di ossessiva attenzione acché gli incendi restassero limitati è illuminante… e mi riporta alla mia ossessione per il tempo: molti fatti non hanno senso se non in base a un metro in cui purtroppo – vogliamo dirci la verità? – la durata della nostra vita media non è molto significativa).
Insomma, un libro che – senza moralismi – assesta un duro colpo alla cosiddetta “saggezza convenzionale”. Un po’ quello che faceva anche Armi acciaio e malattie (non ho letto Il terzo scimpanzé).
FEDERICA … ma davvero a te sembra che si possa dire di Wallace che “non impone mai le sue ossessioni direttamente ma lascia che si mostrino a tratti”? A me sembra che le mostri ogni tre per due. Il che non mi sembra un male, bada… mi sembra anzi che vada benissimo. Di che altro si dovrebbe scrivere, in fondo?
Detto questo, sebbene non interessi a nessuno, ho voglia di dire che 1) Wallace è bravissimo. Sa scrivere, sa creare personaggi che se li guardi in trasparenza ci vedi schiere di esseri umani. 1bis) Sa scrivere A MODO SUO. E non sono molti quelli che ci riescono. 2) E’ un grandissimo rompicoglioni afflitto dalla malattia dell’intelligenza, cioè è di quelli che per dover dire sempre una cosa “un po’ più intelligente” finisce per dire fesserie allucinanti e per impiccarsi ad astruserie pallosissime (però se vuoi ammazzare qualcuno hai una particolareggiata descrizione di come si fa il botulino. Essenziale in una qualunque opera di narrativa. Ma questi compiacimenti ce li hanno tutti. Perfino i più insospettabili. Isaac Asimov litigò ferocemente per mantenere in un suo racconto (o romanzo?) tre pagine di descrizione di una partita a scacchi che chiunque non sia uno scacchista salta sistematicamente a piè pari) 3) Non è affatto particolarmente intelligente, bensì estremamente lucido. Di una lucidità che ben pochi hanno. Per cui tanto di cappello. 4) E’ convinto che il mondo sia una merda ed è bravissimo a convincerne anche il lettore. Ti prende, ti porta nel suo mondo e – come dice benissimo MALDOROR –
“Si diventa come bambini un po’ scemi che, capito il meccanismo, scelgono scientemente di ignorarlo e di farsi abbindolare… Non si tratta, semplicemente, di “sospensione dell’incredulità” dal momento che noi lettori non crediamo a ciò che dice l’autore ma crediamo ciecamente alla sua NECESSITA’ di dirlo”.
Sono perfettamente d’accordo: e in questa empatia tra esseri umani, assai più che tra scrittore e lettori io credo come a una delle poche cose positive al mondo. 5) Personalmente, che il mondo sia una merda l’ho capito da me. Adesso se qualcuno ha anche qualche idea di come – almeno – convertire la merda in letame, leggerei volentieri. Altre acute disquisizioni sulla merda (anche quella che fa le sculture, anche quella che compone – con svolazzi – l’appello HELP ME) cominciano ad annoiarmi.
Mi scuso per aver narcisisticamente esposto le mie idee, che sono puro e semplice gusto personale. Ma in fondo siamo su un blog :-)
Sulla questione del Collasso. Io credo che il primo da leggere sia Oswald Spengler. Il suo Il Tramonto dell’Occidente la dice lunga (forse una tesi estrema, surreale, ma molto affascinante e non certo pura fantascienza). Spengler ha saputo affascinare scrittori non da poco. è citato in ‘Sulla strada’, ma soprattutto in ‘Tropico del cancro’ (che risente molto dei pronunciamenti spengleriani sulla fine dell’occidente).
Su Foster Wallace: è come Dio (però lui esiste di certo, Dio forse no).
Di “sfoghi narcisistici” ce ne sono parecchi, ma mi sa che se copiassi tutto quello che ho scritto come commento sarebbe davvero troppo. Per ora metto quindi il link a tutto il discorso su Wallace con riferimento a Garufi essendo più che felice, se qualcuno lo ritiene necessario/opportuno, a fare copia&incolla di tutto quanto inserendolo come commento.
http://www.splinder.com/myblog/edit/post/295299