Leccare la lingua altrui come quando ci si bacia/ 2a parte
(continua il florilegio, iniziato qui, a cura di) Alessandro Canzian
Apro il mio laboratorio
DARIO VOLTOLINI
Perché Pavana del viale è pieno di virgole? Perché volevo obbligare il lettore a una certa velocità di lettura, a un certo ritmo, nella speranza che nella sua testa passasse una specie di musica un po’, come dire, salmodiante (speravo questo anche perché mentalmente noi quando leggiamo un inciso tra virgole abbassiamo il tono della voce e qui le virgole dovrebbero sortire anche una specie di effetto di questo tipo). In mente avevo la Pavana di Fauré. In generale è impossibile determinare quale musicalità un lettore attribuirà alle cose che uno scrive, però tutte queste virgole dovrebbero almeno ottenere che la comprensione del significato delle frasi venga differita quantomeno fino alla fine delle stesse, e non prima, in modo da evitare effetti di velocizzazione della lettura. Naturalmente il motivo per cui ho scritto Pavana del viale non consiste in queste cose. Ho scritto Pavana del viale perché un sogno che avevo fatto tempo fa mi era rimasto, come a me capita di rado, vivido nella memoria. In quel sogno c’erano alcune cose che si trovano nel racconto (l’ospedale, un’amica con un inopinato – per lei- fuoristrada, un viale in un’ora della sera), in generale una precisissima tonalità emotiva molto difficile da denotare con una sola parole: ecco la “causa” del racconto: Però per colorare anche la scrittura di quei toni emotivi, dovevo lavorare anche sul ritmo: così come un sogno non consiste solo delle cose sognate, ma anche dell’alone indefinibile che lo avvolge, allo stesso modo volevo che no ci fossero solo le cose raccontate, ma anche il suono della lingua che le racconta. Non so cosa è venuto fuori, però la genesi è stata questa.
Più in generale, ci tengo a dire che la lingua ha una sua gamma di possibilità musicali. L’italiano diversamente dall’inglese e l’inglese diversamente dal russo e così via. Al contrario, tutte le lingue hanno la stessa gamma di possibilità denotative, cioè possibilità di significare. Questo significa che le lingue si somigliano quando devono dire delle cose, ma si differenziano per il suono che fanno dicendole. Tutte le lingue umane sono così. Ora, io scrivo in italiano. Dico cose che potrei dire in giapponese, se lo conoscessi. Ma dico comunque cose che “suonano” in italiano e che non suonerebbero allo stesso modo in giapponese. Per tutti è così. Ma, poiché una regola canonica della scrittura in prosa ha sempre detto di fare in modo che la frase non richiami l’attenzione su di sé (con rime interne, assonanze o cacofonie, ripetizioni ravvicinate, e così via), ecco che chi scrive in prosa cerca di combinare le parole in modo che il loro suono non copra il loro significato. Questo grado zero della sonorità può essere raggiunto solo perché il suono della lingua madre ci accompagna sempre e qualcosa che gli si accordi passa sullo sfondo. Non già perché sia possibile in assoluto azzerare il suono della lingua. Questo va tenuto ben presente. Ecco però allora che a me vien voglia spesso – non sempre – di farlo invece ben percepire, questo suono, uno di questi suoni dell’italiano. Se io ascolto uno che mi legge un brano in una lingua sconosciuta, ciò che sento è uno dei possibili modi in cui quella lingua suona. Se invece ascolto uno che mi legge in italiano, ciò che sento è tendenzialmente non il suono dell’italiano, ma il significato di quello che mi sta dicendo. Naturalmente con gran parte dei componimenti poetici accade che anche il suono della mia lingua mi risulti percepibile, oltre al senso delle parole. È come capire una lingua sentendola però suonare come se fosse sconosciuta e straniera. Non dico che questo sia un computo della poesia, però è indubbio che dia uno dei suoi possibili effetti. Ecco, a me piace
l’idea di azzardare qualche passo in questa direzione anche scrivendo – e amando scrivere – in prosa. Questo è il cavallo di Troia grazie al quale anche le musiche in generale pretendono di farsi vive nelle cose che scrivo. Ma il punto centrale è quello che ho detto prima.
ALDO NOVE
Mi viene più facile immaginare tra qualche anno una specie di calderone, contenente una quantità di termini inglesi, ma anche altri di “meticciato”
vario che non appartengono all’italiano vero e proprio. Sicuramente un italiano impoverito di forme, ma più significativo nella sostanza. Il congiuntivo in italiano sta saltando, per esempio. Infatti l’inglese è una lingua semplice, almeno per quanto riguarda la coniugazione dei verbi.La questione è comunicare, la lingua che si usa per farlo è irrilevante. Istituzioni come l’Accademia della Crusca e altre del genere sono insignificanti. Il linguaggio è uno strumento quindi si tratta di saperlo usare. Sono meglio le lire o l’Euro? Al di là del fatto economico, come praticità e simbologia, sono sempre soldi. Io non sono mai riuscito a imparare a suonare. Quando mi esibivo con la “Democrazia Cristiana” [il nome della formazione musicale in cui appariva Aldo Nove (N.d.R.)] leggevo i testi delle Brigate Rosse –le azione delle BR saranno pure state delinquenziali, però le analisi che elaboravano alla fine degli anni ‘70 hanno anticipato quello che è poi successo oggi –. Se sapessi suonare mi esprimerei facendo il musicista. Siccome non so farlo, questo è il linguaggio che uso.
Lo scrittore dei primi dell’800 non poteva essere stato condizionato dalla televisione o dalla pubblicità, come è successo a noi, perché non c’erano. E’ un problema storico: inevitabilmente qualcuno l’avrebbe fatto.
Sicuramente [il computer] influenza il modo di scrivere. Lo stesso fatto che si possa cancellare tutto senza lasciare tracce ha delle implicazioni filologiche stranissime. La filologia oggi non ha più senso, perché non ci sono più i testi. Un manoscritto di Leopardi, invece, è pieno di cancellature su cancellature.
RAUL MONTANARI
Io uso un linguaggio trasparente completamente al servizio della narrazione, una lingua strumentale, un italiano molto pulito, molto limpido e da questo punto di vista non lontano dalla lezione di Calvino, dalla linea Calvino-De Carlo: la ricerca di una semplicità raffinata. Invece Tiziano Scarpa e Aldo Nove hanno la capacità di raccontare la storia, quindi le idee, le trame, con una voce immediatamente riconoscibile, molto personale. Anche a me hanno detto che ho una voce riconoscibile, ma più per sottrazione che per aggiunzione di valori, io scarnifico al massimo e racconto…
Io non credo assolutamente a chi dichiara di scrivere per se stesso perché, se fosse così, non vorrebbe nemmeno che quello che scrive venisse pubblicato. Non ho in mente però un lettore ideale di riferimento; di sicuro una volta avevo un lettore di riferimento più colto di quello che ho ora. Oggi ho aperto tantissimo la mia scrittura, lasciandomi un po’ contaminare dai pulp e da questo tipo di narrazione veloce in cui ho trovato una soluzione che stava sulla stessa strada che io stavo percorrendo.
TIZIANO SCARPA
A ogni modo, mi sento molto un erede, in quanto italiano, dell’atteggiamento da “funzione Alberto Sordi”. La funzione Alberto Sordi nella lingua è semplice: l’italiano è un’impostura, è una falsità, è burocrazia, ipocrisia, fregatura, abbindolamento, mentre il dialetto è sincerità, la verità di ciò che si pensa, però allo stesso tempo è impresentabile, è un signore nudo, grasso con la panza pelosa e i calzini bucati che puzzano: questo è il dialetto. Quindi questo è Alberto Sordi, che quando parla, dice la sua, non può fare a meno di contenere certi strappi, certe eruzioni, che sono per esempio un “che tte devo dì” mentre sta parlando un italiano assolutamente forbito e impeccabile. Queste eruzioni sarebbero la verità della lingua, la verità della rappresentazione mentale che in quel momento sta accadendo nella testa dell’italiano. Quindi ha poca importanza che questo sia il dialetto o sia qualcos’altro, quello che mi dà da pensare è che, quando ho cominciato, non ha importanza, ripeto, che tipo di sottofondo o di altrove o di a fianco dell’italiano tenessi presente, quello che ha importanza è che tenevo presente un di fianco, un sottofondo, un altrove, un eccesso, un di più: che questo fosse dialetto, fosse parola preziosa arcaica, fosse tecnicismo inglese, parola straniera, citazione, imprecisione o addirittura, perché no, parola crassa, parolaccia, questo mi affascinava e mi affascina tuttora (anche se forse si cambia).
Direi che, se questo ha importanza per un noi, per una comunità – perché poi gli scrittori sono sempre idiosincratici, non rappresentano altro che se stessi, quindi è un po’ imbarazzante parlare di sé e del proprio rapporto con la lingua, è come parlare del proprio rapporto con l’atmosfera, è come se io ne avessi uno particolare, mio e soltanto mio: respiro… Però, appunto, se devo parlare del mio rapporto con la lingua, dico questo, forse può avere qualche minimo interesse per noi italiani. Io penso che viviamo un momento, che dura in realtà da tantissimo, in cui abbiamo l’impressione che le cose accadano da un’altra parte, e questo succede anche nella lingua: per la funzione Alberto Sordi, appunto, si crede che la verità succeda nel dialetto o addirittura nei gesti. Pensate a un americano, che non ha alcun bisogno di usare parole straniere.
La posizione di lamentazione sulla lingua italiana è ormai un cliché, è cerimonia che nasconde una quantità o di impensato o di cattiva coscienza, non di cattiva fede, perché una lingua italiana c’è, mobilissima, che è stata unificata nelle sue linee principali – se poi parliamo di dettagli lessicali, o lessicografici, possiamo anche discutere – però, di fatto, una lingua c’è. Io dico semplicemente che esiste la condivisione di una lingua, da moltissimo tempo, e non è lì il problema, non è lì la ferita, non è lì l’impossibilità, non è lì la chiusura. Se mai, trovo nell’italiano, nella sua ricchezza, nella sua profondità e nella sua inquietudine plurisecolare un’apertura, non una chiusura. Non vedo perché dire, e continuare a dire: noi non abbiamo questo a differenza degli altri.
MICHELE MARI
Alcuni miei sono libri molto artificiati, a volte alzo la guardia contro la lingua media. In altri lo faccio di meno (soprattutto in alcuni singoli racconti).
La critica (indipendentemente dal giudizio di valore) tende a interpretare nel segno dell’autenticità le mie cose più vicine all’italiano standard, mentre le altre vengono ricondotte alla categoria dell’inautentico: in quei casi sono accostato a Giorgio Manganelli, e vengo considerato un fanatico del delirio verbale che si autoavvita e procede per vertigini foniche (ancor più che lessicali).
Ma io sento di essere più autentico (nel senso che tocco cose più scabrose, più private, cose che non avrei mai pensato di dire) laddove sono più complicato linguisticamente. Per esempio, La stiva e l’abisso, uno dei miei libri più peregrini stilisticamente, lo sento quasi osceno in termini di confessione autobiografica.
Nelle pagine più semplici, metto in gioco di meno me stesso. Eppure, l’equivoco critico che mi ha sempre lasciato sconcertato, ripete che laddove scrivo più semplice risulto uno scrittore vero che “mette in gioco le trippe”…
Avendo un senso liturgico, rituale, religioso della letteratura, vedo nella lingua media una minaccia, qualcosa da cui difendermi; una specie di nube
che potrebbe contagiarmi.
Penso che la lingua media vada utilizzata in modo non passivo. Nonostante il suo strapotere quantitativo, bisogna metterla sullo stesso piano delle altre lingue.
La lingua media non deve preesistere allo scrittore.
Io ho un senso della lingua diacronico, il mio dizionario ideale è quello storico (il Battaglia, per esempio), non quello sincronico. Non esistono doppioni, triploni, sinonimi: la lingua è ricchezza e magia, e questo dà maggiori possibilità (e maggiore responsabilità) agli scrittori.
Mi considero un privilegiato, perché la nostra lingua è talmente gravida di letteratura da consentirmi di muovermi con grande divertimento in essa.
LAURA PARIANI
La lingua che ho utilizzato è strettamente legata alle cose che raccontavo; devo dire che – piccolo riferimento biografico – io sono nata in un paese dove tutti parlavano il dialetto, quando ero bambina, agli inizi degli anni Cinquanta, e sono cresciuta in questo strano bilinguismo: gli adulti parlavano in dialetto e noi bambini comprendevamo il dialetto ma dovevamo parlare in italiano. Ho vissuto poi questa esperienza di emigrazione di Argentina, con l’apprendimento di una lingua nuova, e quindi il dover imparare a pensare e parlare in un’altra lingua. Ho vissuto una situazione linguistica complessa, e questo sta alle spalle. Quando ho cominciato a scrivere il mio primo libro, la prima stesura era in italiano, o meglio in italiano con riferimenti letterari, sicuramente influenzato da tante cose che io avevo fatto, in primo luogo dal mio lavoro sulle immagini, quindi con scelte di inquadrature, e di quel tipo di linguaggio, quel tipo di narrazione che cerca la scena con maggior tensione, per portarla al lettore.
La stesura di Di corno o d’oro non mi piaceva, non mi riconoscevo, era come una lingua estranea, perché io sono una persona che ha diverse lingue alle spalle, e queste lingue inevitabilmente interferivano, affioravano. All’inizio ho cercato di censurarle, poi ho capito che dovevo lasciarle venire in superficie. Infatti, nel primo racconto ci sono le mie tre lingue. Ho cercato di inventarmi una lingua che mi permettesse di usare espressioni e parole di queste altre lingue, se vogliamo, per me perdute, che poi sono proprie del mio modo di pensare. Chi ha un’esperienza di più lingue sa bene che non è indifferente dire una cosa in una lingua piuttosto che in un’altra, io mi accorgo che, quando parlo in castellano, cambio persino la mia maniera di parlare: è la bocca che emette dei suoni differenti, ma è anche la testa che si muove in altro modo, secondo un altro ritmo e con strutture linguistiche che fanno riferimento a un altro mondo.
Ogni lingua è, secondo me, un mondo, una maniera di pensare e di avvicinare l’esperienza: ogni lingua esalta certe forme di esperienza e ne esclude, forse, altre. Ho cercato di lavorare su queste cose, e devo dire che ho avuto più difficoltà con il dialetto che con lo spagnolo, probabilmente perché lì valeva la forte censura in epoca scolastica, che avevo interiorizzato assumendo il dialetto come lingua che non si poteva scrivere.
Negli anni Cinquanta, c’era fortissima questa distinzione fra il dialetto che si poteva al massimo parlare e poi l’italiano, la lingua della scuola e della scrittura. Ci sono dei suoni in dialetto o in castellano, che non esistono in italiano: quest’attenzione alla sonorità delle parole mi ha portato a ottenere anche nella pagina scritta sonorità diverse. Per molto tempo ho lavorato su questo: La signora dei porci è il libro in cui mi sono concentrata di più su questo aspetto, sul suono scuro delle parole e della pagina, che per me era anche il modo di sprofondare in una materia tanto lontana e tanto difficile come quella della stregheria del Cinquecento.
DANIELE DEL GIUDICE
La sperimentazione di per sé non mi interessa. Ci sono momenti in cui si ha bisogno di macinare altri linguaggi, così come ci sono dei momenti in cui è necessario scardinare la lingua perché mostri le cose, le dica veramente. In realtà questa sperimentazione, come la moltiplicazione dei punti di vista e dei linguaggi, l’uso non tradizionale dei tempi verbali, della struttura della frase, servono per far “parlare” le storie. Da un certo punto di vista non ho una grande considerazione della pagina. Per me tutto quello che veramente conta nella comunicazione tra autore e lettore è quello che avviene fuori dalla pagina scritta che considero serva di un processo immaginativo che avviene in me come lettore (io sono naturalmente molto più lettore che scrittore). Questo processo avviene in ogni lettore: deve ricostruire il libro, deve provare delle emozioni, delle sensazioni, avere delle percezioni… Tutto è teso a questa finalità: qualunque mezzo per me (e spesso utilizzo un mezzo che può sembrare sperimentale) tende unicamente a questo.
(continua…)
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fuori delle questioni trattate qui, che trovo molto interessanti, concordo con la seguente affermazione di Aldo Nove : “le azione delle BR saranno pure state delinquenziali, però le analisi che elaboravano alla fine degli anni ‘70 hanno anticipato quello che è poi successo oggi”
Ganz persönlich:
Di fronte a queste “dichiarazioni di poetica” ho la sensazione e l’impressione, assolutamente opinabili, che manchi qualcosa, forse una componente dialogica, forse qualcuno che domandi, che interpelli, che insomma dia senso al parlare di sé di ciascun autore, che altrimenti mi appare come un poco interessante parlarsi addosso, anche nel caso di talenti conclamati come quello di Mari.
Troverei forse un interesse maggiore in interventi critici di autori/autrici su altri autori/autrici, i quali secondo me rimangono luoghi ad alto potenziale critico e conoscitivo, oppure in interviste complete, con almeno due parlanti, di cui almeno uno valga al di sopra della media (?).
Comunque Canzian con questi florilegi ci sta almeno provando (o ci ha provato), a differenza di chi continua a farsi solo i vasi suoi – che sono certo più importanti, se è un bravo artista verbale, ma allora poi non venga a pavoneggiarsi nei thread quando più gli piace, con opportunismo e ributtante senso dello specchio.
Buonasera.
Ringrazio Zangrando per avere dedicato un po’ di attenzione a questo piccolo lavoro di “remix”. La mancanza di una componente dialogica è mia responsabilità, non degli scrittori: sono tutti stralci di interviste in cui gli autori venivano incalzati, solo che io ho tolto le domande. Non so perché l’ho fatto, in effetti avrei potuto lasciarle… Nel precedente florilegio c’erano anche interventi di autori su altri autori. Non nego di essere rimasto sorpreso dal silenzio tombale che ha accolto questi due post. Avevo capito che sulla questione c’era un discreto interesse, in calce agli interventi di Sartori e Biondillo (e, a dire il vero, anche negli interventi medesimi) diverse persone avevano invitato gli autori a esprimersi, a venire allo scoperto. Io ho scritto che molti autori non erano mai stati “al coperto” e si erano espressi eccome. Ho voluto rendere disponibili alcune dichiarazioni e riflessioni. Non mi aspettavo certo gli stati generali della lingua, ma almeno qualche commento pertinente. Evidentemente, come ha fatto notare Temperanza, la “formula” era sbagliata. Però continuo a pensare che in questi interventi rimontati si dicano cose molto interessanti, e addirittura cruciali, sulla lingua italiana oggi.
Forse il problema, ma è un’idea che mi è venuta adesso leggendo i vostri interventi, ve la butto giù così com’è venuta, è che questi interventi degli autori su loro stessi, sono descrittivi, non critici.
In fondo, quando si analizza lo stile di uno scrittore, la lingua che usa, è naturale porsi delle domande. Dopo aver analizzato il come uno scrittore usa tecnicamente la lingua, uno si può chiedere se un certo modo di usare la lingua sia funzionale, e a che cosa sia funzionale, che cosa ci faccia, lo scrittore, con la lingua che usa, insomma, e soprattutto se ci riesca. E interrogandosi inizia un colloquio con la pagina che sta analizzando.
Ma quando lo scrittore descrive i suoi stessi strumenti questo colloquio non c’è.
E spesso c’è anche una forma di menzogna produttiva e difensiva, e dunque giustificata. La menzogna, o il non detto, o il detto di tre quarti è importante, in letteratura. Ma certo in alcune di queste dichiarazioni io la sento, sento una descrizione di sé depistante. Forse i lettori di questi pezzi sono paralizzati da questa menzogna potenziale immobilizzante, difensiva, dimostrativa, rappresentativa. Dalla maschera che ogni autore indossa quando parla di sé.
(La mia mente temperante funziona sempre meglio quando vado a caccia di peli nell’uovo, dunque prego i vari fan dei vari autori di non prenderla come un’offesa personale, please, cheeese:–)))
Buona notte
Temperanza, questo è già l’inizio di una delle possibili riflessioni che volevo stimolare con questi florilegi. Chi ha letto i libri di uno di questi autori, o di due, o di tutti, potrebbe dire se, come lettore che ha fatto esperienza della lingua di quei libri, si ritrova nella descrizione che l’autore dà del lavorìo, dell’invenzione, del processo che ha portato a quei risultati.
Scrivere di per sé è sempre una attività cognitiva. Scrivere sulla scrittura, tua o di altri, serve innanzitutto allo scrittore stesso che scopre per primo il perché scrive (non è mica così conclamata la cosa, tutt’altro: diffido di chi prima teorizza una scrittura e poi la applica. La scrittura si scrive e mentre la scrivi la capisci.)
Ecco perché, per quanto Temp dica cose anche giuste, reputo interessante leggere il discorso che uno scrittore fa su se stesso: mentre lo fa lo scopre insieme a noi, in un certo senso.
Alessandro, il tuo nuovo intervento e quello, lucido come sempre, di Temperanza, mi fanno capire adesso che forse ancor più del diaologo con l’interlocutore omesso, brani come questi invocano ai miei occhi, per acquisire un senso funzionale a riflessioni ulteriori, esempi concreti di analisi, anche semmai dalle opere dei medesimi autori. E questo, come suggerisci tu, è legato anche al fatto che non tutti conoscono bene, e forse neanche male, i libri degli scrittori che hai antologizzato.
Ma rimango dell’idea, che ho già espresso in passato, che se un autore non è spinto da una precisa urgenza a parlare delle proprie opere (e qui faccio riferimento soprattutto al reiterato e insanabile fraintendimento pubblico dei loro significati), il rischio sia quello di una troppo facile concessione al proprio narcisismo, che diventa poi anche un modo di raccontarsela e magari di mentire o almeno modificare, aggiustare le proprie intenzioni originarie.
Per questo non sono nemmeno troppo d’accordo con Biondillo, qui sopra, mentre credo che scrivere sulle opere altrui, come ci hanno insegnato per esempio Nabokov, Pasolini e Kundera, sia sempre una via molto fertile e criticamente piuttosto esatta per conoscere meglio sia l’autore trattato sia, di solito, l’autore che lo tratta.
P.s. al primo paragrafo: io non ho mai letto niente di Laura Pariani, per esempio, anche se, da impenitente fan(atico) di Gombrowicz, avrei dovuto almeno sfogliare “La straduzione”…
Suvvia Canzian, non si rattristi. Io (per quel che vale) sto leggendo con grande attenzione. E, se può interessare, vorrei preparare qualcosa di simile (un altro mattoncino), e spero di riuscirci un giorno o l’altro.
Intanto grazie,
(Giusto tu, caro Andrea, che con quella virgola a fine commento per un istante mi hai tolto il respiro: sai niente di un certo mio sudato tentativo : Versuch : saggio affine nelle intenzioni ai modelli che qui sopra decanto? L’avevo trasmesso via rete alla volta di Parigi, qualche tempo fa, ma l’illustre autore dell’opera che vi trattavo non ha reagito in nessun modo, tanto da farmi pensare di aver preso imperdonabili cantonate…)
@GB
Non dico che non è interessante leggere quello che uno scrittore scrive sulla sua scrittura, io sono piena di libri di scrittori scrivono sullo scrivere, che ho letto e leggo con estremo interesse. Osservavo solo che evidentemente i lettori del florilegio sono stati bloccati dalla indiscutibilità, se vogliamo chiamarla così, dell’autoanalisi, per le ragioni che ho detto sopra.
Pensare che uno scrittore che scrive della propria scrittura sia obiettivo, converrai con me, è chiedere troppo. L’occhio che posiamo su noi stessi soffre di molte prevenzioni, sia negative che positive.
Comunque Scarpa parla del suo rapporto con la lingua, non della sua scrittura, solo che credo che sia un pezzo di intervento parlato, mi ha un’aria da sbobinato, più che di scritto (Canzian, puoi confermarmelo? Tra parentesi, io ti do del tu, webbicamente, vedo che Raos ti dà del lei, se ti disturba dimmelo), mentre del Giudice parla proprio della sua scrittura. Dunque anche in questo senso le osservazioni da fare sarebbero molte.
E per quanto riguarda Del Giudice, è piuttosto singolare vederlo affermare “Da un certo punto di vista non ho una grande considerazione della pagina.” basta leggerne una, delle sue pagine, per capirr quanto sarebbe mistificante prendere sul serio questa sua affermazione.
Quasi tutti i pezzi proposti sinora, poiché derivano da interviste e interventi, sono trascrizioni dal parlato.
Il “rapporto con la lingua”, per uno scrittore, è già parte del “lavoro sulla lingua” che si fa durante la scrittura. Almeno credo.
Temperanza, tu scrivi: “Pensare che uno scrittore che scrive della propria scrittura sia obiettivo è chiedere troppo”. E chi ha parlato di obiettività? Anzi, io credo che l’obiettività non c’entri proprio niente. Qui ogni autore sta descrivendo o cercando di descrivere il proprio approccio alla lingua e alla scrittura. Sta quindi parlando di qualcosa di intimo e personale: il modo che ha ciascuno di noi di abitare l’italiano, con tutti i substrati, le idiosincrasie, anche gli equivoci. Per forza di cose, l’approccio non può essere “obiettivo”.
Detto ciò, ripeto: è chi ha letto le opere qui menzionate che deve dire se il risultato reca o non reca tracce del lavoro descritto. Non ci si può adombrare perché lo scrittore ha l’ultima parola, se di fronte al suo testo noi lettori rimaniamo muti. Voltolini dice alcune cose di “Pavana del Viale”. Chi ha letto quel libro, dovrebbe integrare quelle osservazioni con le proprie, o contestarle, dire che il testo non restituisce quell’intenzione. Chi ha letto “New Thing” dovrebbe integrare quel che dice Wu Ming 1 del proprio lavoro etc. Idem per tutti gli altri: Pariani, Scarpa, Mari e tutti gli altri. Oppure nessuno ha letto nessuno di quei libri? Strano, perché nei commenti di NI ho letto più volte giudizi (iper-lusinghieri oppure stroncatorii) su alcuni degli scrittori inclusi nei due florilegi.
Io, peraltro, ho proposto anche interventi di scrittori sulla lingua di altri scrittori: Scarpa su Covacich, De Michele su Evangelisti, Evangelisti su Genna etc. Non era quello che si chiedeva agli scrittori qualche post fa? Non si chiedeva loro di esprimersi sulla lingua dei loro colleghi? Bene, sta già succedendo, e nemmeno di rado.
Invito Raos a procedere su questa strada: a furia di contributi, forse finiremo per illuminare il quadro.
Hai ragione, Alessandro, hai proposto anche interventi di scrittori sulla lingua di altri scrittori.
Per quanto mi riguarda, sinceramente, ho trovato quegli interventi poco interessanti perché non mi interessano abbastanza né gli scrittori che li hanno fatti né quelli su cui li hanno fatti; perciò non sono intervenuto. E anche perché, devo ammetterlo, non condivido un certo glottocentrismo nella strada che state battendo: perché mi interessa di più capire il valore della lingua e del lavoro su di essa all’interno di un’opera precisa e rispetto a tutte le altre sue componenti formali e tematiche piuttosto che “in generale” nel lavoro di uno o più autori e nel loro rapporto con la lingua “comune” o altri linguaggi d’autore.
Un esempio. Sto tenendo un corso su Paolo Volponi, all’università, è credimi, niente sarebbe più facile che concentrare le lezioni sul suo linguaggio, che è stato il centro infuocato del suo travaglio letterario e che è ancora oggi radicalmente nuovo, di completa rottura e forza critica rispetto al raccontare e al poetare tradizionale e tutt’ora dominante – ma non lo faccio, perché mi sembrerebbe di dare agli studenti una ricetta incompleta per entrare nel mondo poetico di Volponi e guardare e interpretare il mondo reale dal punto di vista suo e dei suoi personaggi romanzeschi.
Ma io sono d’accordo, non è dalla lingua in sé che bisogna partire per fare conoscere un autore, ma dal mondo che costruisce. Quello lo davo per scontato, davo cioè per scontata una conoscenza minima del percorso di questi autori, qui su Nazione Indiana, che nel bene e nel male è uno dei blog letterari più conosciuti e frequentati. Per questo rimango stupito di fronte a certe osservazioni: sinceramente non mi sembra di battere una strada “glottocentrica”: nel primo florilegio, quasi tutti gli autori concordavano sul fatto che la sperimentazione linguistica non dev’essere fine a se stessa e ha senso se serve a esprimere ciò che si vuole dire, se permette di raccontare meglio, se è al servizio di un’operazione poetica (“raccontare” e “poetica” sono la stessa cosa, nel caso di certi autori). Nessuno degli autori inclusi ha posizioni “glottocentriche”, anzi, di alcuni si dice (sbagliando di grosso, secondo me) che non abbiano particolari preoccupazioni per la lingua che usano, e che nei loro libri i contenuti primeggino sull’espressione. Solo in questo secondo florilegio ho inclusi autori di “prosa d’arte di primo grado”, come Mari, ma mi sembra più interessante riflettere sulla lingua degli autori di “prosa d’arte di secondo grado”, cioè sperimentazione meno appariscente, sovversione sottile della lingua, funzionale a quello che si vuole dire.
Ti prego, Alessandro, di non dare il peso di un giudizio negativo all’espressione di un’impressione personale.
Quello che stai facendo è buono e sai anche che tra chi interviene o è intervenuto nelle colonne dei vari post che costituiscono il percorso dove hai innestato la tua proposta ci sono persone degne di stima e in qualche caso perfino di ammirazione. E poi, insomma, se la buttassimo tutti sul personale finirebbe che ci immusoniremmo a ogni pie’ sospinto, mentre invece è all’oggetto del nostro con-tendere (tendere insieme da vari e diversi punti di vista) che dobbiamo attendere, e questo con la maggiore lucidità possibile, anche nella faziosità che potrebbe contraddistinguere chi tra noi parla o parlerà da autore o autrice. Non trovi?
Il “tentativo” a cui alludevo rivolgendomi ad Andrea Raos più sopra, per esempio, e di cui ora ti parlo volentieri perché nel frattempo sono stato tranquillizzato in via privata da Sartori, riguarda “Anatomia della battaglia”, che secondo me è un romanzo bello e importante; ne taglierò e cucirò una versione ridotta per NI, quando avrò tempo, allora magari, se vorrai, avremo qualcos’altro di nuovo e concreto, insieme ai contributi di Raos, su cui riflettere.
Trovo giusto quello che dici, Canzian, entrar nel merito.
Lo faccio per lo scrittore che conosco meglio tra quelli che hai proposto, Del Giudice, di cui ho letto tutti i libri.
DDG dice:
“La sperimentazione di per sé non mi interessa.”
Bisogna intendersi su che cosa si intenda qui. Se parliamo di forzatura sperimentale della lingua, dice il vero. DDG non è uno scrittore sperimentale, si potrebbe definire piuttosto uno stilista, che usa i suoi strumenti in modo piuttosto duttile, ma senza forzature esasperate. Per fare un piccolo esempio, l’uso del presente nello Stadio di Winbleton è un uso leggermente spiazzante del punto di vista temporale, ma non ci sono lemmi desueti, né uso del dialetto o di una lingua gergale ecc.
“Ci sono momenti in cui si ha bisogno di macinare altri linguaggi, così come ci sono dei momenti in cui è necessario scardinare la lingua perché mostri le cose, le dica veramente”.
Che cosa vuoil dire “macinare altri linguaggi”? E’ evidente che si riferisce al volo. Mentre “scardinare la lingua” nel suo caso vuol dir poco perché non vedo dove l’abbia mai “scardinata”. Qui bisognerebbe chiedergli qual’è il suo limite di scardinamento, perché in uno scrittore davvero sperimentale (Sarraute per esempio, o Pizzuto per certi versi), rasenta l’incomunicabilità, mentre in DDG questo non avviene mai.
“In realtà questa sperimentazione, come la moltiplicazione dei punti di vista e dei linguaggi, l’uso non tradizionale dei tempi verbali, della struttura della frase, servono per far “parlare” le storie.”
Questa frase, e il livello veramente modesto di sperimentazione che prevede, (perché la moltiplicazione dei punti di vista non è certo una novità, né l’uso moderatamente sfalsato dei tempi verbali e la struttura della frase, del tutto accettabile) lascia le cose un po’ come stanno, rispetto alla sua scrittura, perché ogni scrittore, persino Pizzuto, vuol far “parlare” le storie.
“Da un certo punto di vista non ho una grande considerazione della pagina.”
Ho già detto cosa penso di questa frase, è sviante, se c’è uno scrittore “di scrittura” è lui.
” Per me tutto quello che veramente conta nella comunicazione tra autore e lettore è quello che avviene fuori dalla pagina scritta che considero serva di un processo immaginativo che avviene in me come lettore (io sono naturalmente molto più lettore che scrittore). ”
Come si può dargli torto? Salvo sottolineare l’ambiguità delle prime due righe. Che cosa avviene “fuori dalla pagina scritta” per uno scrittore e un lettore? Tutto, da un certo punto di vista, ma se non ci fosse quella pagina scritta a incardinare il loro rapporto, non ci sarebbe nulla, né emozioni, né sensazioni né percezioni.
Dice invece la verità qui: “Questo processo avviene in ogni lettore: deve ricostruire il libro, deve provare delle emozioni, delle sensazioni, avere delle percezioni… Tutto è teso a questa finalità: qualunque mezzo per me (e spesso utilizzo un mezzo che può sembrare sperimentale) tende unicamente a questo.”
E’ vero, ma è vero per lui e per tutti. Se c’è uno scrittore che può negarlo si faccia avanti.
E dunque. Che cosa ha davvero detto sulla sua scrittura Del Giudice? L’ha presa molto alla larga, direi, difendendosi bene e lasciando al buio molte cose.
Riguardo a Del Giudice, sono a grandi linee d’accordo con quel che dice Temperanza. Sono sicuro che, meglio incalzato, Del Giudice saprebbe dire cose molto meno evasive sul suo scrivere. La rete, anche successivamente interrogata, non restituisce granché. Mi è piaciuto molto quel “persino Pizzuto” :-)
Zangrando: mi spiace aver dato l’impressione di essermi immusonito. In realtà ero un poco immusonito PRIMA, ma non adesso. La discussione è cominciata e spero intervengano altre persone. Non era mia intenzione prenderla sul personale, per carità, è che non mi sembrava che la discussione fosse così “glottocentrica”. Questione di impressioni.
Attendo con curiosità il “tentativo”.
Ok Alessandro – ed ecco svelato anche perché ho affermato di non condividere un certo vostro “glottocentrismo”: perché ho la coscienza cattiva cattivissima di chi analisi vere come quelle di Temperanza non ha la capacità o i cosiddetti per farle.
Buonanotte animebelle!
Per dare un po’ di sostanza a quel che dicevo a proposito di sperimentazione per chi non conoscesse gli autori citati, do tre brevi incipit:
Del Giudice, Evil Live, in Mania, Einaudi, 1997
“… e la cui vita è mediamente regolare, mediamente a quell’ora ogni sera torna a casa attraversando lo spazio – prima strutturato e poi sfibrato – di quel che un secolo fa erano le metropoli e ora sono la caricatura beffarda e disfatta di se stesse come ‘città’, e una volta a casa, mediamente un’ora dopo, dopo accende il macchinario, entra nella Grande Rete, si affaccia al mondo, mette piede nella piazza di un gruppo di discussione, e deposita lì, come un uovo, la sua novella. …”
(vedete com’è già invecchiata questa sperimentazione, ad esempio, per noi che in questo momento nella Grande Rete ci stiamo? Bisogna sempre fare attenzione nel trattare le novità:–))
A.Pizzuto, Sinfonia, Il Saggiatore, 1774
“Come a fotografia alte lampade riproducevano sul cemento in tappeto la fillotassi, rifranti per ischiancio lungo l’asfalto gli alberi solitari. Una timida nebbia sopraggiungendo, vistosa di lontano, stemprava il belletto dalle palpebre insalivate, negli angoli vituali oltre occhio, con stille argentee ogni ciglio ilico recidive. …”
N.Sarraute, Tu non ti ami, Einaudi, 1996
“– “Voi non vi amate”. Ma come? come è possibile? Voi non vi amate? Chi non ama chi?
– Tu, ovviamente, te stesso … era un voi di cortesia, un voi che non si rivolgeva ad altri che a te.
– A me? Io soltanto? Non a tutti voi che siete me… e siamo così in tanti … ‘una personalità complessa’ … come tutte le altre ; Allora chi deve amare chi in tutto ciò?”
– Ma te l’hanno detto: Tu non ti ami. Tu … Tu che ti sei fatto vedere da loro, tu che ti sei esposto, mettendoti a disposizione … sei andato verso di loro … come se non fossi solamente una delle nostre incarnazioni possibili, una delle nostre virtualità … ti sei separato da noi, ti sei fatto avanti come nostro unico rappresentante … hai detto “io” … ”
Non saprei definire la sperimentazione di DDG, se c’è, che indagine sullo Zeitgeist (rischiosissima); quella di Pizzuto vera sperimentazione linguistico-narrativa classica novecentesca; e quella di Sarraute sperimentazione e indagine sul senso, anche se usa, o forse proprio per questo, strumenti minimi.
Temperanza: tutto sta nel capire cosa intende ciascun autore per “sperimentazione”. Se per alcuni è (impropriamente) un sinonimo di “sperimentalismo” e di avanguardia, per altri è senz’altro un termine più “leggero”. Sperimentazione come tentativo, come prova, come verifica di un’intuizione Credo che Del Giudice parli della sperimentazione di una data soluzione che gli viene in mente e che gli sembra adatta a far “parlare” la storia. Non necessariamente deve trattarsi di una soluzione azzardata o inaudita. Ad esempio, se all’interno dello stesso capoverso un autore slitta dal passato remoto al presente storico, beh, di per sé non c’è niente di nuovo, chissà quanti scrittori hanno operato passaggi di quel genere. Eppure nel particolare contesto di quella pagina, di quel capitolo, di quel libro, questo passaggio può produrre un effetto che arricchisce la prosa di sfumature. Mi viene in mente un romanzo recente di uno degli autori inclusi nel florilegio. Il cap.40 di quel romanzo è composto da dieci piccoli blocchi di testo nei quali si alternano passato remoto e trapassato prossimo. Il trapassato prossimo è usato per azioni che si sono svolte poche ore prima. Cinque blocchi descrivono a frammenti l’arrivo a una data destinazione, ma si alternano con gli altri cinque che descrivono la partenza e il viaggio. In realtà è più complicata di così: lo slittamento dei tempi in un caso avviene anche all’interno del singolo blocco. L’autore ottiene così un effetto straniante: il capitolo inizia con tre righe che annunciano l’arrivo, a cui segue la descrizione della partenza, dopodiché prosegue l’arrivo, poi c’è una prima tappa del viaggio etc. Credo serva a trasformare l’arrivo in un momento pieno di incertezza, e funziona. Questa è sperimentazione che serve a far “parlare” la storia, realizzata con elementi che presi uno per uno non avrebbero niente di nuovo. Questo espediente è “nascosto”, perché il capitolo è scritto con una lingua in apparenza molto piana, quasi piatta.
Da “Le difficoltà del romanzo” (1966), una delle dichiarazioni di poetica di Paolo Volponi più citate dalla critica:
“Io comincio a lavorare tenendo presente che ciò che scrivo non deve rappresentare la realtà ma deve romperla: romperne cioè gli schemi, le abitudini, gli usi, i modelli di comportamento, cioè tutto quello che mi pare il contrario della realtà e che si potrebbe definire lo status actualis, entro il quale una certa società padrona della maggioranza delle sorti, delle attività, delle fabbriche, dell’attualità e di tutte le cose in scatola, costringe la realtà economica, storica, sociale. Questo ordine chiuso dentro lo status non è nemmeno più reale, è convenzionale.
La realtà è una specie di palla infuocata in movimento, mossa da tutte le intemperanze, le speranze, i bisogni, le paure, le angosce, le scoperte, le vittorie, le novità, gli allarmi, che gli uomini, individualmente, a gruppi, a regioni, a paesi, esprimono proprio come disordine, come energia, come calore.
Il romanzo muove questa realtà ed è mosso da questa realtà, e fuori dallo status, fuori anche dallo status della lingua, del raccontare, del comunicare in modo tradizionale, che sono anch’essi piccoli cardini dello status.
Fra società e relatà c’è un grosso conflitto che non certo scopro io e che non è nemmeno utile che io cerchi di individuare.
Dalle crepe di questo conflitto sono nati in ogni tempo i romanzi migliori, anche se difficili, difficili proprio perché in contrasto con le regole, i principi, la lingua, gli interessi della società, difficili come ogni, anche piccola rivoluzione, oppure trapianto o innesto, se preferite un linguaggio meno politico: quelli che hanno cercato di sottrarre alla società tradizionale, o almeno di discuterne la prerogativa di somministrare i valori guida, di indicare i modelli di comportamento, di elaborare i concetti di giustizia.”
@Canzian
Mi pare che ogni tanto abbiamo qualche difficoltà di reciproca comprensione.;–)
E’ appunto per questo che ho portato tre brevi esempi di sperimentazione concreti, perché è sempre difficile intendersi. Quando si parla di scrittura sperimentale si tende sempre a pensare a una sperimentazione “formale”. Ce ne sono invece di svariatissima natura.
@Stefano
Bellissimo questo pezzo di Volponi. basterebbe a tagliare la testa al povero toro. Basterebbe confrontare tutto il florilegio con queste parole e chiedersi, ma lo scrittore che parla, ha sottoposto davvero l’opera del suo ingegno a questo sguardo esigente, consapevole, critico, serio?
O ha tirato a campare, prima di tutto con se stesso? Qui si va molto oltre l’idea della sperimentazione sulla pagina, qui Volponi chiede a se stesso un faticosissimo confronto con il mondo. E’ una domanda etica. (Si può dire questa parola?)
Ora, ai miei occhi, Proust, scrittore ben più grande di Volponi, ma con un etica sociale rispetto a lui labilissima, aveva la stessa grandissima serietà di sguardo, perché anche qui, basta intendersi su cosa vogliano dire queste righe di Volponi:
“Fra società e relatà c’è un grosso conflitto che non certo scopro io e che non è nemmeno utile che io cerchi di individuare.
Dalle crepe di questo conflitto sono nati in ogni tempo i romanzi migliori, anche se difficili, difficili proprio perché in contrasto con le regole, i principi, la lingua, gli interessi della società, difficili come ogni, anche piccola rivoluzione, oppure trapianto o innesto, se preferite un linguaggio meno politico: quelli che hanno cercato di sottrarre alla società tradizionale, o almeno di discuterne la prerogativa di somministrare i valori guida, di indicare i modelli di comportamento, di elaborare i concetti di giustizia.”
Io credo che un grande libro, anche quando non sembra farlo, faccia proprio questo.
Non so, forse sono ancora novecentesca, ma il concetto di valore e serietà (anche se mi piace il cazzeggio) per me non sono obsoleti.
Temperanza, il mio commento andava a integrare il tuo, mica a contrapporvicisiti.
Sono d’accordo con te, Temp, e anch’io sento di avere ancora almeno cinque o sei dita dei piedi nel Novecento.
Volponi è meno conosciuto e letto, ancora oggi, anche proprio per come ha declinato la difficoltà di cui parla nel brano citato. Ma, benché non sia certo Proust, tra gli italiani rimane per me un paradigma vitale: ogni volta che torno a dialogare con i suoi testi la mia crapa cambia davvero certi modi del pensiero, si apre ad altre logiche e possibilità espressive e semantiche, insomma non è più quella di prima. Mi è accaduto con pochi altri, finora.
Adesso devo salutarvi, ma magari quando torno vi porto un estratto da un suo romanzo. Buon proseguimento.
Caro Stefano,
già che siamo qui ti rispondo in pubblico anziché in privato: il tuo saggio è bello, ma – in effetti – forse troppo lungo per NI; se me ne fai una versione breve te lo pubblico con piacere.
Ciao,
Il frammento di Volponi allarga la prospettiva, e a questo punto va accettato quel piano, anche se è di “presa” più difficile. Il paragone coi “florilegi” è improprio: quei montaggi erano “tarati” su un aspetto più specifico dello scrivere (non proprio “glottocentrico”, ma sicuramente glotto-orientato), e mille altre citazioni sarebbero state possibili: sul rapporto tra società e narrazione, tra romanzo e vita, tra lingua e memoria, tra racconto e non-detto. Non credo che gli scrittori italiani delle ultime generazioni si siano risparmiati o siano stati elusivi nel riflettere sulla natura, sulle origini, sullle poetiche e sui risultati del loro scrivere, solo che è ancora tutto troppo “qui”, troppo presente: mancano il distacco e la prospettiva che permettono di verificare in modo lucido (e immediato, e senza equivoci) la consonanza tra quel che Volponi dichiarava e quello che i suoi libri ci hanno detto. Con libri scritti da poco e il cui impatto prosegue nel momento stesso in cui ci riflettiamo sopra, è una cosa più sfuggente, per questo il compito è così arduo.
Cerco di capire meglio, perché il discorso sulla lingua a me interessa in modo particolare. Mi interessa per svariate ragioni, attraverso il cambiamento della lingua (che mette a fuoco non solo cambiamenti di superficie e in qualche modo caduchi, ma anche approcci più complessi al mondo che ci circonda e la nostra posizione in quel mondo e la nostra critica o valutazione di quel mondo) passa non solo la singola ricerca di un autore, ma anche la nostra, di tutti noi, “tenuta”.
Credo che qui molti la pensino come me, o almeno lo spero.
Ma non mi interessa tanto se Tizio usa sempre il presente, o se Caio usa le emergenze dialettali o se Sempronio scardina la sintassi.
Mi interessa sapere cosa cercano di fare, con questi mezzi.
A cosa mirano? A una sperimentazione un po’ fine a se stessa che li situi in una certa posizione rispetto all’orizzonte letterario attuale e basta?
O questa loro ricerca ha un obiettivo più ampio e anche più serio, e perciò più cruciale, e cioè quello di trovare uno strumento che mostri davvero la contraddizione, o il punto critico o comunque il punto debole non solo della forma narrativa, ma del mondo che quella forma narrativa vuole svelare?
Se io sono spesso critica verso le forme del post-moderno di derivazione americana è perché spesso si tratta solo di imitazione, di deriva, lenta, comoda e acritica.
Non perché rifiuto la cultura o la letteratura americana, ma perché vivo qui, sono nata qui, parlo e abito qui, e vorrei che gli scrittori nella mia lingua fossero radicati qui, anche se questo comporta un naufragio, una marginalità, l’accettazione di non essere “al centro”.
E spesso in certe sperimentazioni vedo quest’ansia, l’ansia di essere ai confini dell’impero, ai confini del senso, confini che fanno paura perché uno magari crede che in questo modo non toccherà mai quel centro vivo che uno scrittore vuole toccare.
Io credo che la vera iattura sia quest’ansia, la ricerca di scorciatoie.
Ma a parte quello che credo io, vorrei conoscere, più che l’armamentario, che cosa si vuol fare, con quell’armamentario.
Certo, in questo modo il discorso si allarga a dismisura e diventa più arduo. Ma a che serve, altrimenti?
A me sembrava che fin dall’inizio fosse questa la questione, anche negli interventi che hanno avviato la querelle, e anche in modo piuttosto esplicito: la lingua perché, la lingua come, la lingua per dire cosa? Però, dal momento che si invocavano gli esempi concreti, le analisi specifiche e a fondo e le riflessioni degli scrittori, si è cercato di rimanere sul concreto, sugli esempi, su questo o quel libro, su questo o quello stile. Ecco l’idea dei florilegi. Cosa che però, oggettivamente, non funziona come stimolo, perlomeno non a breve termine. Non funziona, perché se il libro preso in esame non è patrimonio comune di tutti i partecipanti alla discussione, quelle spese dall’autore suonano come parole al vento. Forse una cosa del genere potrebbe funzionare in un forum monotematico, dedicato all’opera di un singolo autore: io posto un collage di dichiarazioni dell’autore Pinco Pallino (di cui tutti quanti i presenti sono lettori) sulla lingua usata nel suo ultimo romanzo e chiedo: dopo averlo letto, vi sembra che il risultato rispecchi l’intenzione? Ecco che tutti risponderanno, perché si trovano su un terreno comune. Qui non è così. Con il contributo di Zangrando su Volponi, si è di fatto esteso il discorso, ma più sul piano del metodo che del merito: cioè ci si è messi a parlare delle poetiche senza però fare esempi specifici, su un piano più generale (ma anche più generico, secondo me), senza citare questo o quel libro, questa o quella soluzione. Zangrando lo ha scritto testualmente: “niente sarebbe più facile che concentrare le lezioni sul linguaggio [di Volponi], ma non lo faccio, perché mi sembrerebbe di dare agli studenti una ricetta incompleta”. Va bene, così diventa un classicissimo confronto tra dichiarazioni di poetica, che funziona sempre perché il piano è più astratto e meno vincolato alla conoscenza di questa o quell’opera specifica. Però questa non è più la stessa discussione iniziata settimane fa. Di fatto, è un’altra cosa. Forse, mentre si procede in questa, bisognerebbe anche riprendere i fili dell’altra discussione, magari con un’idea più stimolante di un cut-up di affermazioni che possono anche apparire masturbatorie.
A dire il vero, quando io ho dichiarato la mia affinità al discorso di Sartori, molti post fa, per me era evidente che l’attenzione sulla lingua era la base dell’attenzione appunto a “quel che se ne fa”, o anche, se la si vuole chiamare così alla poetica, ma in ogni caso non a un discorso chiuso in una dimensione puramente formale.
Anche perché, ma qui parlo per me sola, occuparmi delle soluzioni formali di uno scrittore che considero mediocre non mi dà molta soddisfazione, lo farei soltabnto profumatamente pagata. Mentre se dall’analisi formale di un autore persino mediocre o minore, arrivo a indagare “quel che ne fa” o i suoi rapporti con “quel che altri ne fanno”, la cosa cambia e mi posso sorbire anche il romanzetto perché è una spia delle cose che a me interessano.
Non credo alla letteratura isolata dalla complessità del tempo. Credo che per indagare la complessità del tempo ci vogliano strumenti adatti e affilati come bisturi, anche se poi il taglio non si vede a occhio nudo. Ma è compito del lettore attento vedere la cicatrice invisibile.
Il formalismo può dare soddisfazioni tecniche, ma sono soddisfazioni superficiali, almeno per me, perché è evidente che non voglio imporre il mio punto di vista a nessuno, e tanto meno alla discussione.
Per essere ancora più chiara, io sono affascinata dal lavoro di Contini, o di padre Pozzi, ma anche nei momenti in apparenza più ardui ed eburnei;-) mai ho avuto l’impressione che fossero fini a se stessi, che mi separassero dalla complessità di un autore. Al contrario, mi hanno insegnato a leggere un autore (persino a me, lettrice non specializzata) molto al di là del qui e ora, e soprattutto a vedere con grande lucidità i trucchetti mediocri o cheap.
Certo, mi hanno levato l’ingenuità, e forse per questo, se già non ci sono, andranno all’Inferno.
Sono solo di passaggio, almeno fino a mercoledì, ma permettetemi di integrare, come promesso, la dichiarazione di poetica di Volponi con un brano di un suo romanzo contemporaneo a quelle parole, anche perché in tal modo credo di poter riportare il confronto sul terreno auspicato da Alessandro qui sopra.
E’ un estratto abbastanza lungo da “La macchina mondiale”, il più utopico tra i romanzi di Volponi, ma non il più sperimentale sul piano linguistico; spero mi scusiate e abbiate buon tempo per godervelo:
“Molte volte, alla sera, lei veniva vicino a me e mi diceva: -Perché anche tu non fai come gli altri?- Oppure, quando credeva che io fossi più ben disposto, dopo averla amata per tutta la notte, verso l’alba mi diceva: -Perché non ti rassegni?- Io mi sentivo trapassare dal dolore e guardavo verso le finestre la luce chiara che cominciava a entrare; poi mi mettevo ad ascoltare il canto del gallo e le cantate di tutti i galli e poi i colpi dei bovi sulla mangiatoia; oppure mi rivoltavo verso il muro e guardavo il cassone scuro, e pensavo che anch’io potevo correre il rischio di fare la stessa fine, di rimanere cioè inerte, senza pensiero, usato soltanto male, da altri, adoperato come se non avessi un pensiero, ma niente altro che le mani e la bocca. Ma poi in quelle mattine mi alzavo e andavo nell’ordine assoluto della stanza della casa, e di ogni altra cosa intorno e di tutto il paesaggio, come è assoluto l’ordine che è stato la notte e che si annulla tra la notte e il giorno nella perfetta sospensione di ogni forza, nella calata dell’inerzia, quando ogni cosa aspetta l’ingresso della luce e del calore e del comandamento di fare ciò che ogni cosa deve fare. Anche gli uomini in quel momento si disuniscono e pezzo per pezzo stanno fermi davanti al camino, oppure pezzo per pezzo avanzano verso le finestre. Allora il pensiero deve essere ripreso, avvoltolato e stretto come una cintura e la bocca assaporata come una foglia dell’albero della vita. Intanto fuori la luce dilaga e si stende, ed ogni cosa lentamente si riconosce nel suo covaccio, finché entrano anche le ombre sospettose. Allora ogni cosa si scuote e comincia e un altro giorno balza in avanti, verso quel tempo nuovo che, fino a poco prima, la notte aveva voluto negare. Dico la notte non per se stessa, ma intendo coloro che si servono della notte per spaventare, per dimostrare come ogni cosa finisca tanto spesso e come ogni cosa si acquieti e poi ricominci allo stesso modo e quindi tutto sia uguale e sempre uguale, una cosa dietro l’altra, e quindi come sia giusto lo spavento e la regola dello spavento di lasciare tutto come si trova.
Io superavo quell’incantamento dell’inerzia con uno sforzo che mano a mano mi riusciva sempre più facile e che sempre più velocemente mi metteva di fronte alla mia tesi, a cercare, mentre guardavo le cose, di prendere subito un pensiero su di esse ed anche per esse. Ripensavo un momento al cassone e pensavo che quello era lo schema più elementare di una macchina e che certo esso non aveva e non avrebbe mai avuto un pensiero e che era fatto soltanto della sua materia e del suo vuoto e della sua utilità e umiltà. Ma se io, o qualcun altro più esperto e più capace di me, avessi cominciato a dare anche al cassone un pensiero, cioè un’altra possibilità e una possibilità propria, non comandata, anche il cassone avrebbe potuto cominciare ad esercitare l’alternativa, a caricarsi intanto di quel mistero vigoroso che è la realtà di apparire coperto dalla possibilità di scegliere e di fare. Si tratta di scoprire e poi di dare e di fare esercitare un pensiero anche alle macchine e quindi di costruire tante macchine nella corrente sfrenata dell’invenzione, che possano servirci, aiutarci, esaltarci ed anche superarci; altrimenti, continuando a costruire macchine e sempre più macchine per uno scopo bloccato dalle regole che la nostra società a radicato intorno a noi, queste macchine non saranno altro che bestiali, cioè monotone ed inerti, immutabili; cioè sceme ed aggressive, con il loro unico gesto ripetuto, tagliente, e quanto più ripetuto più tagliente, fino a diventare una minaccia, un blocco levato su di noi fino a quando la bestialità meccanica, ripetendosi e scaricandosi, non ci travolga tutti insieme. Le macchine vanno fermate e indirizzate dando loro un pensiero, dando loro cioè un sistema felice, come è felice il sistema del pensiero. E questa operazione ambiziosa, come ha detto il vescovo, non è anche impossibile, come ha detto il vescovo, anche se è sacrilega, e questo è così vero tanto che anche il vescovo lo ha capito. Bisogna impegnarsi ad esercitare fino in fondo, e per tutte le figurazioni possibili, il pensiero dell’uomo; bisogna costruire una società nella quale ogni pensiero possa essere collettivamente esercitato senza nessun timore, mosso dietro tutte le invenzioni più sfrenate quali possono essere quelle fatte anche dal pensiero individuale; allora tutte le invenzioni, una volta discusse e raccolte ed anche composte insieme, non saranno altro che la scienza, la quale sarà finalmente, essa stessa, base della vita e vita.”
P.S. Massimiliano Manganelli ha parlato per questo romanzo di “una lingua ‘ingenua’, vicina all’universo mentale e materiale del protagonista [che è un “diverso”, un contadino marchigiano ribelle e un po’ folle], vincolata da tentazioni naturalistiche, anzi concepita in vista di un loro definitivo superamento”.
“ha radicato”
“svincolata”
una riflessione (a partire da Aldo Nove) sull’uso degli “esterismi” amati/odiati…
le lingue (si sa) sono sempre in movemento, ed è giusto che anche l’italiano si evolva, senza banali rimpianti o stupide chiusure di frontiera alla franese.
Il “prestito” dalle lingue straniere costituisce da sempre uno dei principali fattori di sviluppo e rinnovamento delle lingue, e poi c’è da sottolineare che non si tratta mai di un semplice uso di termini stranieri, ma di una ricontestualizzazione degli stessi.. è da questo processo creativo che nascono parole quali “downlodare”, “cliccare” o “chattare”. Ma le stesse parole sono utilizzate in maniera differente ed assumono significati differenti, per i parlanti della nuova lingua in cui il termine viene adottato.. penso alla parola mouse, che per la stragante maggioranza degli italiani è solo un termine che indica uno strumento tecnico, senza alcun referente ulteriore. Questo mi pare un caso evidente in cui insistere sull’uso di termini italiani non ha molto senso, proporre “topo” al posto di “mouse”, così come avviene in spagna con “raton” adesso farebbe sorridere.
Il prestito inoltre è frutto dei tempi e della cultura, è costituisce una fondamentale testimonianza a livello “storio-sociale”, degli scambi e delle relazioni tra gli Stati e tra le diverse culture nazionali.. si pensi a tutta la terminologia musicale, che è presa in prestito, in quasi tutte le lingue, dalla terminologia tecnica italiana (andante, allegretto, moderato e così via), a testimonianza di una lunga tradizione e di un dominio culturale italiano, nel settore musicale. (anche i cuginetti spagnoli, oggi così attenti a limitare l’ulitilizzo di esterismi – hanno un potentissimo istituto nazionale che impedisce la temuta invasione di termini stranieri -, utilizzano il vocabolario tecnico italiano). O se vogliamo riferirci a usi più recenti di termini italiani nelle lingue straniere, si pensi al settore alimentare, dove la nostra cucina detta legge, con parole come pasta, maccheroni, spaghetti, pizza, mozzarella utilizzati un po’ dovunque nel mondo, magari storpiati, ma appunto questo è il bello del processo di assimilazione in una lingua straniera. Dunque se gli Usa sono la grande potenza mondiale della tecnologia, che ben vengano parole inglesi, italianizzate. Ma soprattutto se l’inglese diventa lingua “universale”, ben vengano quegli stili capaci di testimoniarne i processi e gli effetti, sperimentando, ricostruendo o proponendo.